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lunedì 22 maggio 2017

Bad bank alla spagnola?

Attorno a Mps ed alle due banche venete si sta giocando una partita piuttosto cinica. Sono di ieri le ultime dichiarazioni di Danièle Nouy, la laureata in giurisprudenza e scienze politiche a capo del Meccanismo di vigilanza unico sulle banche, secondo cui nell'Eurozona "ci sono tre categorie di banche: quelle che stanno andando piuttosto bene, quelle che non vanno tanto bene ma si impegnano, con coraggio, a risolvere i loro problemi e poi ci sono altre che in qualche modo negano la realtà e dovranno cambiare per migliorare". Il riferimento non è per nulla casuale: "anche di recente... abbiamo avuto esempi di banche che hanno venduto sofferenze e che si sono rivolte al mercato per chiedere capitale aggiuntivo" (per esempio Unicredit col progetto FINO).
L'uscita di cui sopra segue di pochi giorni una ancora più dirompente, ancorché relegata nelle pagine economiche dei quotidiani e del tutto ignorata dai telegiornali: "gli stress test dell'EBA su cui si è basato il calcolo dell'ammanco di capitale di Mps non comprendevano una preventiva asset quality review", cosa che "apre una discussione aggiuntiva onde indagare se le perdite subite siano realmente coperte da soldi privati".
Non so se è chiaro. La signora sta dicendo che la "ricapitalizzazione precauzionale" da parte dello Stato, quella per intendersi che sacrifica soltanto gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati della banca, è utilizzabile soltanto qualora l'istituto sia solvibile ed abbia ripianato le perdite pregresse con il sacrificio di soci e obbligazionisti cosa non così scontata.
Il perché è presto detto: le sofferenze di Mps potrebbero essere superiori a quelle contabilizzate, ed avere un minore valore: prima degli stress test dello scorso anno, infatti, la BCE non ha portato a termine una convincente ispezione degli attivi (l'ispezione si è infatti conclusa a febbraio 2017).
Ma i soldi dello Stato non solo non possono ripianare gli ammanchi di capitale pregressi (potendo soltanto, in pratica, colmare il gap tra il capitale minimo previsto dalla vigilanza per gli istituti e quello prudenziale richiesto al singolo soggetto vigilato), ma neppure le perdite future, ove prevedibili. In pratica, i soldi dello Stato non possono essere utilizzati neppure a copertura delle minusvalenze derivanti dalla cessione degli NPL (cessione, tra parentesi, richiesta dalla stessa BCE), a quelle dovranno bastare il capitale attuale e le obbligazioni convertite in azioni (il che può anche spiegare i motivi per cui la medesima BCE pare voler cedere, almeno in parte, alle richieste della DG Comp e fare un po' di "sconto" al governo).
Per sbloccare la trattativa in tempi brevissimi, riciccia a Siena il Fondo Atlanta, che insieme a Fortress e Fonspa dovrebbe a breve produrre un'offerta non vincolante per l'acquisto di uno stock molto significativo di NPL, impegnandosi soprattutto sulle tranche junior mezzanine. Lo dico chiaramente: a me questa notizia puzza. Dove trovi i soldi Atlante, è un mistero. Non sono sicuro che Fonspa abbia le capacità finanziarie per entrare in una operazione del genere. Fortress ha concluso da pochi mesi un'operazione impegnativa con Unicredit.
In questo contesto, non stona la precisazione della trimestrale 2017 di Montepaschi, redatta sì con criteri di continuità aziendale, ma che avverte come tale continuità sia sottoposta a "taluni elementi di rilevante incertezza", che potrebbero anche pregiudicarla. E le incertezze riguardano appunto "l'ottenimento delle autorizzazioni necessarie per l’accesso alla misura di Ricapitalizzazione precauzionale che presuppone l’approvazione del Piano di Ristrutturazione", "i possibili impatti… sulla valutazione di solvibilità" dell’ispezione della BCE sul portafoglio crediti, "l'esecuzione delle azioni previste dal Piano di Ristrutturazione".
Morale della favola, anche nel caso in cui l'intervento di Atlante si verifichi, della soluzione definitiva non se ne parla prima dell'estate. Nel frattempo Mps perde denaro, e la situazione si aggrava. Se le obbligazioni senior sono ancora sospese e, soprattutto, se nessuno ne parla, un motivo forse ci sarà.
Fortuna vuole che Mps sia, probabilmente, ancora too big to fail. Così non è, però, per Popolare di Vicenza e Veneto Banca, per le quale si inizia apertamente a parlare di bail-in.
Anche in questo caso, il problema principale sono gli NPL, quasi 19 miliardi di Euro - di cui quasi 10 miliardi di sofferenze - contabilizzati a circa 40c. Come per Mps, la perdita conseguente alla cessione non può essere coperta dallo Stato, devono pensarci i privati. Pare dunque che la Commissione sia orientata - ferma restando la richiesta di ricapitalizzazione della BCE di 6 miliardi e 400 milioni - a imporre al governo italiano di versare un miliardo in meno (3 miliardi e 700 milioni) ed ai privati un miliardo in più (2 miliardi e 700 milioni, di cui 1 miliardo messo da Atlante e 700 milioni rivenienti dalla conversione di bond subordinati).
Tra l'altro, il sistema è concepito come una specie di gioco dell'oca al contrario, in cui le pedine si ritrovano sempre al via. I sistemi interni di valutazione dei rischi delle principali banche, infatti, calcolano infatti il rischio di perdita sui finanziamenti in caso di fallimento della controparte a partire dai dati storici dei recuperi. Una cessione significativa di NPL a prezzi molto bassi (cosa che con ogni probabilità succederà sia a Mps, sia alle venete) renderebbe tutti gli impieghi “più rischiosi”, anche quelli in bonis, con conseguente riduzione del CET1 (che, come noto, al denominatore ha gli impieghi ponderati per il rischio). E questo è talmente vero da spingere i Consigli di Amministrazione a ricercare soluzioni molto complesse, quando non del tutto fantasiose.

Nonostante la fiducia che sprizza da tutti i C.d.A. e dalle pagine dei giornali, a mio avviso - per quel che conta - la situazione è molto grave.  Ma ancora più grave è il sospetto che questi istituti (ma soprattutto i loro dipendenti ed i risparmiatori che vi hanno investito i loro risparmi) siano delle pedine di un gioco più grande. Il gioco della Commissione, che vuole spingere l'Italia - dopo la mancata costituzione di una bad bank europea - a realizzare una bad bank nazionale (di cui ho parlato diffusamente qui e qui).
Senonché, questa bad bank - per non violare le disposizioni che vietano gli Aiuti di Stato - dovrebbe acquistare le sofferenze degli Istituti italiani a prezzi non di molto superiori a quelli di mercato, quindi cartolarizzarli e piazzarli sul mercato (si spera, a questo giro, non al retail). Il gioco potrebbe funzionare, se non fosse per il problema della valutazione della congruità del prezzo di cessione degli NPL, per cui il nocciolo della questione è in realtà proprio sulle modalità per rendere gli NPL delle banche più appetibili e, dunque, più "costosi" (cioè, se la si vuole vedere dal lato opposto, meno minusvalenti). Il problema non si pone evidentemente per le tranche senior della cartolarizzazione (quelle che includono crediti problematici, ma di "più facile" recupero), che possono essere oggetto di garanzia statale (ricorderete la GACS), bensì per quelle junior e mezzanine.
L'esperienza fallimentare di Atlante discendeva proprio da questo problema. Il Piano JP Morgan su Mps prevedeva proprio l'acquisto a prezzi importanti dalla tranche mezzanine degli NPL.
Comunque, cosa ci propone la Commissione? Di rendere ancora più veloci le procedure di recupero dei crediti. Cioè di buttare più velocemente fuori di casa i mutuanti morosi e fuori dai capannoni gli artigiani in ritardo con le rate. Ah, però.
Sinceramente, a me non dispiacerebbe stamparmi il nuovo art. 2929-bis c.c., il D.L. 18/2016 (di cui ho parlato qui), il nuovo art. 40 del Testo Unico Bancario, il D.L. 59/2016, farne un piccolo fascicolo arrotolato e batterlo sul muso di quei quattro burocrati dementi come si fa coi cagnolini piccoli, ancora poco educati.
Questi palliativi, in una situazione come quella italiana, in cui le banche - eccetto pochissime eccezioni - non riescono più a sostenere i margini a causa di troppe sofferenze e di una forbice dei tassi praticamente azzerata, non conducono a niente.
Anzi, a una cosa conducono, e cioè alla costituzione di una bad bank alla spagnola, in cui le terrificanti perdite degli Istituti sono coperti sì con soldi pubblici, ma non statali, cioè tramite intervento del MES, e con le condizionalità imposte dal MES, c'est-à-dire con la Troika.
In Spagna hanno usato una quarantina di miliardi. Press'a poco quello di cui avremmo bisogno noi.
In Spagna hanno anche la disoccupazione al 20%. Press'a poco quella che avremo noi

domenica 14 maggio 2017

Un phastidioso antecedente: la SGA

L'altro giorno mi sono imbattuto in un post assai phastidioso, il quale - ricapitolando la situazione di Montepaschi - innalza sin dal titolo ("Dicono sia colpa della UE. Ma è colpa della realtà") un peana alla nuova dea dei liberisti de' noartri, cioè la signora TINA (i cui sacerdoti, detto per inciso, sarebbero i frodatori di Uber o i monopolisti di Google o gli sfruttatori di lavoro minorile cinese di Apple, ma lasciamo perdere).
A dire il vero, in mezzo a tante fanfaluche, un pregio l'articolo ce l'ha: spazza via dal campo della discussione il terrorismo mediatico (e, a dire il vero, interessato) sugli esuberi più o meno inventati, i soldi del contribuente più o meno sprecati, e si concentra - ripercorrendo il folle piano messo su dal tandem Renzi-JP Morgan, poi miseramente affondato - sulla questione reale dell'affaire Monte dei Paschi, cioè il deconsolidamento dei crediti problematici.
Per chi vive in una comunità che ha sentito nella propria carne viva questa vicenda, si tratta della sensazionale riscoperta della ruota, o dell'acqua calda...
...ma è possibile che, nel resto dello Stivale, la precisazione - in un mare magnum di disinformazione - possa avere una sua importanza. D'altronde, anche sui giornali inizia a fare capolino la percezione che il problema serio, per Montepaschi, sia rappresentato proprio dalle modalità di cessione degli NPL. La banca, infatti, si trova a fronteggiare quello che potremmo definire il "Dilemma di Etruria": la ricapitalizzazione statale senza bail-in (ma comunque con il sacrificio di azionisti e obbligazionisti subordinati: il c.d. burden sharing) è possibile solo se l'Istituto è solvente, ma l'Istituto è o non è solvente a seconda del prezzo di valutazione delle sofferenze che incorpora.
Non ci vuole un genio per capire che, se l'UE ti impone di vendere le sofferenze, e se nel mercato mondiale delle sofferenze agiscono pochissimi player, il prezzo di vendita non può che essere di grande saldo (Semiserio cita Unicredit ed il fratello ottimista di TINA, FINO, come un grande successo. Beato lui). Con perdite enormi per i bilanci bancari. Il giochino ricorda un po' il circolo degli avvoltoi sugli animali moribondi nella savana africana, ma giustamente dobbiamo ritornare al contatto diretto con la durezza del vivere, e questo è un buon modo per farlo.

Dov'è che, diciamo, sbaglia il sagace autore del post che si commenta? Nel confondere norma e natura, cioè nel cadere proprio nell'errore che imputa agli altri. La crisi delle nostre banche non è colpa del destino cinico e baro, né di una presunta congenita incapacità italiana. Semiserio se lo metta bene in testa. La principale responsabilità è dell'attuale sistema giuridico (lato sensu inteso), per lo più di matrice non interna, spesso latentemente anticostituzionale, sicuramente sbagliato. Sba-glia-to.

Ne abbiamo parlato mille volte.
Molte banche italiane hanno gravissimi problemi in buona misura a causa degli squilibri economici e finanziari indotti dall'UEM. Le banche italiane sono oberate di sofferenze principalmente come conseguenza delle politiche di austerità che hanno aggravato, in termini di durata e di intensità, la grave crisi mondiale nata nel 2008 negli Stati Uniti. L'enorme quantità di Titoli di Stato acquistati subito prima della crisi dello spread (e che ora sono una bomba a orologeria in tanti bilanci) furono la risposta alle c.d. politiche monetarie non convenzionali (v. per esempio qui), che mettevano sotto pressione i margini operativi degli Istituti.
Questi gravissimi problemi, d'altronde, non possono essere risolti quasi esclusivamente a causa delle demenziali disposizioni di matrice leuropea. Quando un Istituto è in crisi, la Direttiva BRRD - imponendo il coinvolgimento nell'eventuale salvataggio non solo gli azionisti, ma anche gli obbligazionisti senior e al limite i correntisti - comporta l'immediata fuga dei depositi e l'impossibilità di vendere al pubblico ulteriori strumenti della banca, che precipita in una spirale difficilmente arrestabile. Queste dinamiche - unitamente a requisiti di patrimonializzazione sempre più elevati - impongono aumenti di capitale o che il mercato rifiuta (Mps) o che vedono, come principali acquirenti, fondi d'investimento (cioè soggetti esteri più interessanti a dividendi immediati, che a solidità nel medio periodo).
Una soluzione sensata esisterebbe e sarebbe tutto sommato banale: un intervento dello Stato da un lato volto a garantire la solvibilità degli Istituti senza coinvolgimento dei risparmiatori, dall'altro teso a risolvere, con un'operazione di sistema, questioni strutturali come il peso attuale degli NPL nei bilanci degli Istituti.

Ma non si può. Si tratterebbe di un Aiuto di Stato e, dunque, di una violazione della concorrenza, questa specie di vergine dal candido manto idolatrata dalla Commissione UE.
In passato abbiamo scherzato sulla pervasività di queste disposizioni antitrust, una specie di passe-partout utilizzata dai tecnocrati di Bruxelles per ingerirsi in qualsiasi decisione discrezionale dei Parlamenti e degli Esecutivi di Stati (un tempo) sovrani. Ad esempio:

Oppure, ampliando il discorso (siamo un anno prima del referendum del 4 dicembre, tanto per dire quanto sono ovvi e prevedibili certi leader politici):


Fino alla geniale generalizzazione, come al solito, del Pedante.

Unica eccezione (anche in questo caso, fino al 4 dicembre 2016):
Ma ora, sinceramente, di scherzare non mi va più. La situazione è troppo grave per non essere anche seria, soprattutto ove si consideri la verità economica sotto il manto semantico: divieto di Aiuto di Stato significa divieto di autonoma politica industriale.

Segue esempio edificante (forse).

Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, amministratore del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato per un caso di corruzione. Il 12 gennaio 1993 Bettino Craxi si dimette da segretario del Partito Socialista. In mezzo, Tangentopoli. Il 28 giugno 1992 entra in carica il primo governo Amato, il 28 aprile 1993 il governo Ciampi. È l'inizio dei governi tecnici, Cioè la fine della politica.
Con la solita scusa della corruzione, delle difficoltà economiche dell'Italia (il governo Amato è quello della patrimoniale e della prima riforma delle pensioni, poi bissata da Dini nel 1995 e definitivamente perfezionata dalla sempre amata Fornero), di una certa spending review ante litteram (questi giusto per dire come il frame sia sempre lo stesso, e lo sia da svariati lustri), viene emanato il D.L. n. 96 del 1993 (notare anche lo strumento giuridico d'urgenza), che impone la cessazione - dalla sera alla mattina - dell’intervento straordinario del Mezzogiorno, cioè di incentivi annuali per quasi 14.000 miliardi di Lire del tempo. Austerità!
O quale sarà stato il risultato di questa bella pensata? Crisi sistemica del tessuto imprenditoriale meridionale, fallimenti a catena, incremento esponenziale delle sofferenze del Banco di Napoli, principale Istituto del Sud Italia già di per sé non proprio in tranquillissime acque.
In questa situazione così rosea, ecco intervenire la Banca d'Italia che, in modo molto solerte, vuole - come si usa dire oggi - "vederci chiaro", e dunque piazza un'ispezione severissima (per molti, semplicemente errata) che azzera il capitale della Banca.
Vi ricorda qualcosa? No...? Ah, ecco...
Per rendere il parallelo ancora più credibile, non può mancare la (più o meno) interessata cassa mediatica. Dice Mariarosa Marchesano, giornalista economica che ha lavorato per il Mondo: "all'epoca i media contribuirono a diffondere e amplificare l’immagine di un Sud assistito dallo Stato e di un Banco di Napoli simbolo di uno dei sistemi clientelari più ramificati della prima Repubblica. Il crac del Banco fu dunque vissuto come inevitabile. Poca rilevanza, per esempio, ebbe sulla stampa quella che fu la principale causa della crescita delle sofferenze e cioè la cancellazione improvvisa e non programmata e graduale dell’intervento straordinario che mandò sul lastrico migliaia di imprese. Ma quei crediti sono stati quasi tutti recuperati".
Comunque, secondo il noto principio della rana bollita, all'epoca lo Stato qualche cosina contava ancora, per cui, già a novembre, fu messa su una società per la gestione degli attivi deteriorati del Banco (oggi scriveremmo bad bank per la gestione degli NPL: anche da questo si misura la progressiva decadenza di un popolo), presto regalata, insieme alla parte "sana" dell'Istituto (da cui è estromessa la fondazione, previa ricapitalizzazione da 2.000 miliardi di Lire) alla BNL, in sostanza per risanarla (il prezzo fu di 61 miliardi di Lire: solo qualche mese prima il Banco aveva venduto 50 sportelli a 290 miliardi, mentre BNL ne acquisiva 757, cui si aggiungeva il credito verso SGA, garantito dallo Stato, per la cessione delle sofferenze, una partecipazione importante in Banca d'Italia ed enormi crediti fiscali). Non a caso, dopo un paio d'anni, BNL rivende il Banco - e SGA - al Sanpaolo per 6.000 miliardi di Lire. Cento volte il prezzo d'acquisto...
Comunque, con Legge n. 588 del 1996 nasce la “SGA” (Società Gestione Attivi S.p.A), società sì privata ma con due peculiarità molto importanti: sui suoi proventi è sancito un diritto a favore della fondazione, i suoi titoli sono girati in pegno al Tesoro.
Anche sui risultati della SGA ha indagato di recente la Marchesano, che ha scritto anche un libro di discreto successo. In breve: nei primi cinque anni, la società accusa perdite per quasi 4 miliardi di Euro (di cui, però, circa la metà a causa degli interessi passivi incassati dal Banco di Napoli, cioè da BNL prima e da Sanpaolo dopo, in relazione al finanziamento al 9,6% concesso a SGA per la cessione degli NPL al 70% del loro valore), ripianate peraltro da Banca d’Italia grazie alla c.d. "Legge Sindona" (prestito all'1% di Banca d'Italia garantito da Titoli di Stato: anche questo, ricorda qualcosa?). Ma dal 2003 cambia tutto: SGA recupera quasi il 95% del valore dei crediti inizialmente trasferiti (quasi 6 miliardi e mezzo di Euro) ed accumula - dati a fine 2015 - oltre 450 milioni di Euro di liquidità.
La vicenda sarebbe già esemplare, ma non finisce qui.
Il 3 maggio 2016, il Mef acquisisce da Intesa - per soli 600.000 Euro - il 100% delle azioni della SGA, esercitando il vecchio pegno del 1996 e - dicono le indiscrezioni di stampa - ne utilizza le risorse per alimentare il fondo Atlante 2, quello con cui il governo ha cercato di mettere una pezza alla situazione fallimentare delle 4 banche salvate (?) a dicembre 2015 e, soprattutto, delle 2 venete (Popolare di Vicenza e Veneto banca). In sostanza, risorse scippate al Mezzogiorno (e, in particolare, alla fondazione, il cui diritto agli utili di SGA è stato elegantemente omesso) che vanno a ripianare situazioni finanziarie imbarazzanti in Centro e Nord Italia. Ci rifletta, chi è un po' Fava non solo di nome, ma anche di fatto.

Quante verità.
Privatizzazioni sbagliate a svantaggio delle comunità locali. Politiche di spending review che distruggono sistemi economici già fragili. Valutazioni degli NPL fatte a capocchia, certo molto interessate e mediaticamente coperte. Vendite fatte in fretta e furia dallo Stato a privati a prezzi di saldo.
Ma anche la creazione di una bad bank efficace, la realizzazione di un "piccolo QE" ante litteram gestito dalla Banca d'Italia, la stabilizzazione di Istituti importanti per il Paese. E senza coinvolgere i risparmiatori.

E poi la verità più antica e importante di tutte. E cioè che "la storia insegna, ma non ha scolari".

martedì 9 maggio 2017

Aut Aut

Il 5 maggio era l'anniversario della morte di Napoleone (e questo lo sanno tutti coloro che si sono sciroppati l'Ode a memoria), ma anche (dato invece assai meno noto) della nascita di Søren Kierkegaard.
Duplice evento dalle connotazioni infauste che, probabilmente, spiega anche certe mitologiche sventure sportive. Ma non divaghiamo.
Lo spiacevole ricordo del non compianto filosofo danese si è dunque sovrapposto al triste spettacolo dei tempi moderni, in cui - grazie alla clava del vincolo monetario, con i suoi effetti deflazionistici nei confronti dei lavoratori a vantaggio delle classi più abbienti, e della criminalizzazione del debito pubblico - i diritti primari (lavoro e sicurezza sul lavoro, adeguata retribuzione, assistenza sanitaria, diritto all'abitazione, diritto all'istruzione) e sociali (diritti sindacali, diritti di partecipazione, diritti politici non solo nominali), ancorché costituzionalmente garantiti, sono stati sostanzialmente abrogati sia nella prassi legislativa sia nella lotta politica, per essere sostituiti, in entrambi gli ambiti, da quelli che Luciano Barra Caracciolo definisce "diritti cosmetici". Diritti, questi ultimi, tutti volti ad affermare l'assoluta libertà degli individui uti singuli (e, come tali, fondamentalmente nichilisti), e di cui si giovano per lo più proprio le sullodate classi abbienti (che, ovviamente, hanno già totalmente risolto ed acquisito i diritti negati agli altri), sia per appagare i propri desideri, sia - più subdolamente - perché permettono di cooptare possibili "nemici di classe" presentando determinate battaglie come "scontri di civiltà" tra conservatori (normalmente vecchi e non istruiti) e progressisti, oltre che di di illudere le masse sul fatto che dei diritti primari e secondari non si debba semplicemente più parlare, in quanto "diritti acquisiti".
E pazienza se questa impostazione, di fatto, riduce gli spazi di democrazia, essendo ormai passato il concetto hayekiano secondo cui "la democrazia avrebbe un compito... igienico" senza "essere un fine in sé", potendosi la stessa ricostruire come "norma procedurale il cui scopo è quello di promuovere la libertà" senza per questo potersi "assolutamente porre allo stesso livello della libertà".
Così, se l'introduzione in Costituzione del principio del pareggio di bilancio - cardine del c.d. fiscal compact - avviene senza neppure un serio dibattito parlamentare, stante il clima da "fate presto!" ingenerato soprattutto dagli operatori della televisione e della carta stampata, mentre il Jobs Act merita a mala pena una mezza giornata di sciopero (salva poi la ricostruzione di una fittizia verginità, da parte del sindacato, con la presentazione di un quesito abrogativo scritto volutamente coi piedi), ci si batte e ci si accalora per tutto e per il suo contrario: diritto alla maternità o paternità per gli omosessuali (con punte di surrealismo nella polemica fra gay e lesbiche), ma anche completo diritto di aborto; diritto alle più varie forme di unione ma anche al divorzio breve se non brevissimo (fino a forme più simili al ripudio di memoria biblica); diritto alla vita ma anche al suicidio (e tralascio qui i cortocircuiti mentali di chi riesce, allo stesso tempo, a giustificare il velo islamico ed a condannare forme più o meno reali di maschilismo occidentale). Il tutto, in un unico frullatore soprattutto mediatico, in cui - in sostanza - il capriccio di un momento diviene norma per sempre.
Il gioco è anche troppo scoperto: "la distruzione neoliberistica del welfare State si accompagna, allora, sul côté dei costumi, all'aggressione - anzitutto ideologica - ai danni dell’istituto familiare, in nome della precarizzazione integrale delle esistenze e della deeticizzazione, affinché l’individuo sradicato resti completamente solo e in balia delle leggi della competitività universale, mero consumatore sradicato, senza identità e senza storia, senza radici e senza progetti", dice Fusaro. Il consumatore non ha una Patria, non ha una cultura, non ha vincoli: è il mezzo di produzione ideale, con totale libertà di circolazione nel mercato unico.

E però, mi sono detto, qui c'è una contraddizione di fondo.
Da un lato si propone all'individuo un modello di vita in cui ogni desiderio si trasforma in possibilità, dall'altro non gli si danno gli strumenti economici per rendere effettivo questo modello.
Per un po' questa discrasia può essere artificialmente riempito con connessioni internet più veloci, biglietti aerei low cost, abolizione del roaming sulle chiamate internazionali, al limite l'Erasmus. Ma con la continua polarizzazione dei redditi, effetto naturale dell'UE in generale e dell'UEM in particolare, queste cose non basteranno più ed il re sarà veramente nudo.

Ed ecco spuntare Kierkegaard.
Cifra dell'uomo, per il filosofo, è "la disperazione, motivata dalla costatazione che la possibilità dell'io si traduce necessariamente in una impossibilità. Infatti, l'io è posto di fronte a una alternativa: o volere o non volere se stesso. Se l'io sceglie di volere se stesso, cioè di realizzare se stesso fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza [cioè, con la propria mancanza di mezzi, N.d.R.] e con l'impossibilità di compiere il proprio volere. Se, viceversa, rifiuta se stesso, e cerca di essere altro da sé, si imbatte in un'impossibilità ancora maggiore. Nell'uno come nell'altro caso, l'io è posto di fronte al fallimento" (così per esempio Mori, Cambiano).
L'uomo cerca di sfuggire alla disperazione attraverso tre stati: quello estetico (cioè amorale ed edonista), quindi quello etico (che però finisce per deteriorarsi nel conformismo), infine quello religioso. Ma l'uomo di oggi ha cancellato la religione e il massimo conformismo è rappresentato proprio da una vita meramente estetica, come richiesto dal mainstream. E l'uomo esteta di oggi, al contrario di quello della teoria kierkegaardiana, non cadrà nella noia, o soltanto nella noia, ma nella rabbia, o quanto meno in una noia terribilmente rabbiosa.
Forse che l'attuale liberismo sta costruendo le condizioni per la sua distruzione violenta?
Forse il tentativo di sostituire il desiderio dell'uomo a qualsiasi altra norma - religiosa o etica che sia - a vantaggio di chi tutto pensa di potersi permettere, porterà dal delirio di onnipotenza alla caduta rovinosa?
Rivedremo una nuova torre di Babele, non solo nelle forme ma anche nell'avverarsi di un simbolo? La hybris che accecava gli eroi tragici dell'antica Grecia accecherà anche i tristi burattini delle élites di oggi, che la Grecia moderna hanno deciso di massacrare? La progressiva dissoluzione dello Stato, propagandata come rimozione di un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell'individuo, porterà invece all'anarchia violenta e alla distruzione dell'attuale sistema socio-economico?

Ci ho pensato, per un po'. Poi, però, ho dovuto concludere che stavo sbagliando. L'uomo è votato all'impotenza e alla disperazione? Sì. L'uomo si ribellerà a questo stato di cose, così alienante? Assolutamente sì. Creerà un "mondo nuovo"? No. Purtroppo assolutamente no.

In primo luogo, infatti, questa terribile rabbia mescolata a noia ed impotenza, con ogni probabilità sarà rivolta verso se stessi, o verso altri riconosciuti come simili a sé. Perché l'io, abbeverato a questo edonismo sfacciato, quando non può realizzarsi, si odia, e odia chi lo rappresenta. La grande abbuffata o Dillinger è morto sono rappresentazioni plastiche di questo amaro finale, filmate da una specie di Kierkegaard ateo e, pertanto, compiutamente nichilista.
Oppure, anche ove sfoci in ribellione aperta, si concluderà comunque a favore delle attuali élites: se si tratterà di ribellione elettorale, mediante l'imposizione di sistemi che mortificano la democrazia reale tramite sistemi lato sensu non proporzionali (in questo senso, anche in Italia abbiamo visto combattere la "cattiva battaglia" per il maggioritario); se si tratterà di ribellione violenta, più limpidamente, con la forza del denaro e delle armi.
E la battaglia, si badi, sarà persa non solo sul terreno del voto o dello scontro, ma anche su quello delle idee. Perché - parliamoci chiaro - a questa noia, a questa rabbia, a questa frustrazione, non fa riscontro alcuna costruzione dogmatica, nessun sistema di pensiero, nessuna impalcatura filosofica, o quanto meno ideologica, che permetta di proporre un'alternativa alla "fine della storia" (questo concetto, dal punto di vista della lotta politica, è stato espresso benissimo da Buffagni su Goofynomics).
Ma, soprattutto, chi perderà sarà lo Stato, inteso come entità politica in cui si confrontano e si compongono i conflitti tra classi sociali. E, se perde lo Stato, perde la civiltà, a favore della legge della giungla, cioè della legge del più forte.
Che non siamo noi.

venerdì 5 maggio 2017

A legittima difesa della lingua

La legittima difesa, oltre che per gli italiani, dovrebbe valere anche per l'italiano (inteso come idioma). Per cui, sebbene sia Alessandro Sala sia quel Francesco Sabatini che con grande costanza sta portando l'Accademia della Crusca verso inesplorati lidi di ridicolo, ritengano la proprietà di linguaggio sinonimo di "retorica" e di "azzeccagarbuglismo", mi sembra importante ricordare che "ovvero" - checché se ne dica - in buona lingua può significare sempre e soltanto "oppure", mai e poi mai "cioè". Non è questione di essere giuristi. Si tratta di semplice correttezza.
E poi il Presidente della Crusca che utilizza il termine "retorica" come sinonimo di "ampollosità", proprio lui che la retorica discreta, fine, di buon gusto, dovrebbe difenderla. Per non parlare del termine "azzeccagarbuglismo", la cui bruttezza lascia quasi senza parole. Se due indizi fanno una prova, Francesco Sabatini deve avere un conto aperto con don Lisander.
La finisco qui. Chi vuole, però, può riflettere su quali possano essere gli obiettivi profondi di chi dovrebbe difendere la propria lingua - cioè uno degli elementi costitutivi, fondanti, di un popolo e della sua autocoscienza - ed invece apre a ogni distorsione, barbarismo, sciatteria (il caso di congiuntivo è esemplare). Ed anche sulla circostanza, forse non così priva di significato, che a far da battistrada sia stata, recentemente, la Francia.

mercoledì 3 maggio 2017

Lo Sceriffo di Nottingham a Roma ("tasse, tasse, mie amatissime tasse!")

Di alcune delle disposizioni più allucinanti della manovrina di fine aprile - che si sostanziano, in pratica, in un inasprimento delle condizioni per fruire dei rimborsi Iva e Irpef e nell'ulteriore allargamento del sistema dello split payment (il cui effetto principale è quello di ridurre la liquidità alle imprese) - abbiamo già ampiamente detto. Qui possiamo aggiungere una nota sulla scarsa fantasia delle nostre élite, che tutto giustificano con lo specchietto per le allodole della "corruzione" (d'altronde, Paese che vai usanza che trovi: in USA sarebbe il terrorismo).
I giornali, invece, hanno ricamato sull'effettivo avverarsi delle clausole di salvaguardia contenute, come da tradizione, nell'ultima legge di bilancio (tema, come sempre, l'inasprimento dell'Iva), ben sapendo trattarsi di un problema relativo all'esercizio 2018, da affrontare dunque, seriamente, soltanto con la prossima manovra di fine anno. In questo modo, però, hanno raggiunto tre obiettivi (propagandistici).
In primo luogo, la diluizione su tre anni degli aumenti delle aliquote Iva normale e ridotta previste per il 2018 nella legge di bilancio sono state recepite, nell'immaginario della gente, come riduzioni di imposta (quando invece rimangono degli aggravi, ancorché più limitati). Pertanto, quando l'aumento si verificherà - e si verificherà - sarà accettato dalle persone (il che, tuttavia, non potrà evitare gli ovvi effetti deleteri sull'economia).
Secondariamente, hanno permesso a Renzi di rimettersi in gioco, a poche settimane dalle primarie del PD (per quanto ovvio ne fosse il risultato), mostrando come - nel rapporto fra lui e Padoan (cioè, in termini mediate, fra lui e il governo e - forse ancora di più - fra lui e la Commissione Europea, di cui Padoan è il garante) sia ancora lui a recitare la parte del più forte.
Tweet di questo genere mostrano bene il meccanismo psicologico che stimolano questi due punti.
Infine, c'è il terzo punto, quello più importante. Infatti, seppure sotto la forma della negazione (secondo noti principi psicanalitici), il PD ha mostrato quale sia il suo programma futuro di politica fiscale e, tangenzialmente, come tale programma sia - come al solito - dettato da Bruxelles.
Cosa dice, in breve, Padoan? Che le imprese esportatrici italiane - non potendo più svalutare la moneta in un sistema di cambi rigidi quale è l'Euro - devono poter godere di forme di svalutazione interna, cioè di riduzione del costo del lavoro. Finora, questa politica è stata perseguita con le note "riforme strutturali" (prima fra tutte, il Jobs Act) volte a ridurre le tutele dei lavoratori e, per tale strada, le retribuzioni, ora l'idea sarebbe quella di "scambiare" una riduzione del "cuneo fiscale" con l'aumento delle aliquote Iva (che, evidentemente, non incidono sull'export, ma anzi tendono a ridurre l'import con un ulteriore miglioramento della bilancia commerciale).
Ovviamente, questo ragionamento fa acqua da tutte le parti.
In primo luogo, perché condanna a un peggioramento delle condizioni di vita i ceti meno abbienti (pensionati, artigiani) o le imprese in maggiori difficoltà (quelle cioè che agiscono sul mercato interno). Secondariamente perché, come l'esperienza dimostra, il "giochino" non funziona.
Tuttavia l'Iva piace alla gente che piace, soprattutto a quella di Bruxelles, visto che l'Unione Europea ha una compartecipazione significativa su quanto incassato dai vari Stati membri (compartecipazione a cui tiene talmente tanto, da passare sopra anche a millenari principi giuridici, pur di difenderla).
Allargando il discorso, in Nord Europa hanno un grande amore per le imposte indirette (purché pagate dai cittadini degli Stati del Sud).
È evidente, infatti, che tutte le imposte indirette - come notato sopra per l'Iva (v. qui per un caso concreto descritto da Bagnai) - colpiscono essenzialmente i consumi dei residenti (dunque la domanda interna, in particolare quella delle classi meno abbienti e delle classi medie) a favore dei redditi degli investitori esteri, soprattutto qualora questi abbiano acquistato quote di imprese votate all'export in Paesi con costi del lavoro più alto (gli IDE tanto amati da Marattin; tra l'altro, in un contesto di deflazione, acquistabili anche a prezzo di saldo).
Inoltre molte di tali imposte, ancorché correlate a vaghi indici di capacità contributiva, tendono a prendere la coloritura di vere e proprie tasse patrimoniali (si pensi all'imposta di registro, per esempio). E si sa che le patrimoniali sono un pallino di chi vede nell'espropriazione della ricchezza privata italiana un modo per ridurre il debito pubblico del nostro Paese o, per meglio dire, l'esposizione privata estera al debito pubblico del nostro Paese. Poi si vendono bene, sia perché fanno leva sull'invidia sociale, sia perché permettono slogan accattivanti ("colpire le rendite!") e story telling appassionanti (volti, il più delle volte, a trasformare evasori fiscali in filantropi).
Se non sarà l'Iva, dunque, a fine anno, sarà qualche altra cosa. Potrebbe essere la sempre verde tassa di successione, di cui ogni tanto si parla insistentemente, salvo poi d'improvviso scomparire dai giornali (forse al fine di evitare suicidi di massa o, più probabilmente, un'impennata delle donazioni ai propri discendenti). Questa è la previsione, per esempio, di Paolo Cardenà, uno che queste cose le conosce bene e ne parla sempre con molta competenza.
L'idea che pare più accreditata è quella della abrogazione di tutte le franchigie, ad esclusione di quella per i trasferimenti in linea diretta, che verrebbe ridotta dall'attuale milione di Euro a 200.000 Euro, soglia che sarebbe presentata - nei giornaloni di regime - come il valore catastale medio di un appartamento.
Ed ecco il colpo di genio! Insieme alla riduzione della franchigia sulle successioni, aumentiamo gli estimi catastali. Scaduta la precedente legge delega, eccone un'altra già pronta in Senato. Anche qui, lo story telling è facile: da un lato, si scova qualche superattico ristrutturato in qualche centro storico, oppure qualche rudere di campagna trasformato in mega-villa con piscina e maneggio; dall'altro, si promette la famosa chimera dei "saldi invariati". E il gioco è fatto. Tra l'altro, la riforma del catasto, avrebbe un effetto moltiplicatore per lo Stato (e ultra-depressivo per noi): perché aumentando gli estimi, aumenterebbero anche tutte le altre tasse ad essi collegate (Imu, Registro, Tari, soprattutto l'ISEE...). In sostanza, un massacro (a cui dobbiamo, volenti o nolenti, prepararci: vi sarete accorti che, da un anno a questa parte, sulle visure catastali degli appartamenti sono magicamente apparsi, accanto ai vani, anche i metri quadrati, no?!).
Dice giustamente Claudio Borghi: "la necessità di una tassa patrimoniale è stata sempre un’ossessione dell’Europa. Immaginate quali effetti produrrebbe il combinato di una rivalutazione degli estimi catastali insieme con la tassa di successione. Si avrebbe una rivalutazione dei valori fuori mercato con il catasto, fatto questo che produrrebbe una forte stangata sulle seconde case deprimendo ancora di più il mercato immobiliare. Colpirebbe tutti indistintamente, indipendentemente dal fatto che si possieda una casa in centro o meno. L’inganno è a monte. Hanno voluto far credere che l’immobile sia un reddito. Invece è un reddito se lo si affitta pagando già una tassazione sugli affitti, ma l’immobile di per sé non produce reddito ma costi. Quindi non producendo reddito, tassarlo è un aberrazione... [Il costo per i cittadini sarebbe] enorme. Rivalutando oggi l'immobile, nel momento in cui si andrà a pagare la tassa di successione il costo diventerà esorbitante costringendo il soggetto che lo erediterà a lasciare tutto allo Stato [o a qualche fondo immobiliare speculativo americano o nordeuropeo che per du' spicci si prenderà valori enormi, N.d.R.]".
Eh, vabbè, direte voi, ma insomma se uno ha un capitale è giusto che paghi per detenerlo! Come no (cioè: no, ma lasciamo perdere), tolto che - guarda un po' - tutti questi calcoli non prendono mai in considerazione il fatto che molti italiani, quel capitale, se lo stanno ripagando, mese dopo mese, versando lauti interessi a una banca. E che, dunque, quel capitale, se così lo vogliamo definire, è loro quanto meno pro quota, non certo per l'intero.
Ad ogni modo, per sicurezza, il modo migliore per evitare qualsiasi forma di tassazione è non possedere niente. Glielo spiegano sempre, i banchieri, allo Stato italiano...