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mercoledì 11 ottobre 2017

Il non-paper di Schäuble che (forse) aprirà gli occhi alle anime belle di un'altra UE

(Commenti tra parentesi in corsivo: testo originale o aggiunte mie).
(Un non-paper sarebbe un testo non ufficiale da far circolare informalmente. Che sia pubblicato è abbastanza fuori luogo).
(Il testo originale è qui).


In parallelo al mantenimento dell'unità dell'UE 27, è indispensabile migliorare la governance a breve, medio e lungo termine dell'UEM, seguendo i seguenti tre principi fondamentali: (1) dobbiamo tenere uniti responsabilità fiscale e controllo, onde evitare il rischio morale (moral hazard); (2) abbiamo bisogno di strumenti migliori per promuovere l'attuazione delle riforme strutturali; (3) abbiamo bisogno di "funzioni di stabilizzazione" credibili per affrontare shock globali o interni.

(1) Responsabilità fiscale e controllo fiscale devono stare per forza uniti, a qualunque costo (whatever it takes). Dal lato istituzionale, ci sono due modi possibili per garantire questa simmetria: o trasferiamo spazi di sovranità nazionale e controllo delle regole fiscali a livello europeo (il c.d. "Ministro delle finanze dell'Euro"), unitamente ad una maggiore legittimità democratica (cosa che richiederebbe, certamente, modifiche dei Trattati UE, perché fosse credibile). Oppure troviamo un accordo su una soluzione intergovernativa. Finché vi è scarsa disponibilità a cambiamenti dei Trattati, dobbiamo seguire un approccio pragmatico, in due passi distinti: prima una soluzione intergovernativa, che sarà poi successivamente recepita nel diritto comunitario.
Il meccanismo europeo di stabilità (ESM) è il mezzo giusto per una soluzione intergovernativa. L'ESM ha dimostrato la sua validità sin da quando è stato istituito nel 2012. Esso incarna il principio di fornire solidarietà in cambio di sane finanze pubbliche. L'ESM ha un sistema di gestione delle crisi ben sviluppato con una serie di strumenti e una significativa capacità finanziaria a sua disposizione. Strumenti e denaro sono pronti per la funzione fondamentale dell'ESM, vale a dire fornire un sostegno finanziario temporaneo sotto stretta condizionalità (per le riforme).
L'ESM, per diventare un Fondo Monetario Europeo, deve dedicare più risorse ad una migliore prevenzione delle crisi: il fondo, tuttavia, non ha ancora un mandato per la prevenzione delle crisi o per ridurne i rischi in una fase precoce. È quindi importante espandere il radar dell'ESM e dare ad esso un ruolo più forte in termini di monitoraggio dei rischi-Paese. L'obiettivo è individuare, in collaborazione con altre Istituzioni, i rischi per la stabilità per e negli Stati membri dell'Area Euro in modo più efficace e in una fase antecedente rispetto a quanto non sia successo in passato, nonché monitorare tali rischi affinché possano essere ridotti dagli stessi Paesi interessati. Le consultazioni di cui all'articolo IV del FMI potrebbero servire da modello per questo nuovo ruolo.
Tale ruolo per l'ESM dovrebbe includere anche il monitoraggio sull'osservanza degli obblighi degli Stati membri ai sensi del c.d. Fiscal Compact adottato nel 2012. L'ESM potrebbe essere gradualmente dotato di un ruolo più forte e neutrale per quanto riguarda il monitoraggio del "Patto di stabilità e crescita". Dare all'ESM anche compiti di monitoraggio completo in merito al rispetto del Fiscal Compact e delle norme fiscali europee renderebbe necessaria una modifica sia del Fiscal Compact, sia del trattato istitutivo dell'ESM.
Questo secondo mandato, del tutto nuovo, dell'ESM dovrebbe includere un prevedibile meccanismo di ristrutturazione del debito per garantire una equa ripartizione degli oneri tra l'ESM ed i creditori privati. La ratio è: in futuro, gli investitori privati ​​beneficerebbero di migliori informazioni in merito al rischio-Paese, che sarebbero fornite proprio dall'ESM. Logicamente, gli investitori privati dovrebbero dunque contribuire anche qualora, a differenza delle aspettative, un Paese si venga a trovare in difficoltà e richieda nuovamente l'assistenza dell'ESM.
Oltre alle nuove funzioni relative all'analisi (della situazione macroeconomica), l'ESM dovrebbe pertanto assumersi anche la responsabilità per il futuro processo di ristrutturazione del debito e il suo coordinamento. L'obiettivo importante è quello di fornire al settore privato i principi chiari e prevedibili in anticipo, per evitare soluzioni ad hoc.
I seguenti elementi dovrebbero essere inseriti nel Trattato ESM: a) la posticipazione automatica delle scadenze dei Titoli di Stato nel caso in cui sia stato concesso un programma ESM; b) l'obbligo di effettuare una ristrutturazione completa del debito se ciò è necessario per garantire la sostenibilità del debito; c) al fine di prevenire resistenze, una modifica delle "azioni collettive" già introdotte, verso il principio della "single limb aggregation" (cioè un sistema per cui basta solo voto per la ristrutturazione dell'intero debito, senza necessità di ulteriori votazioni sulle singole serie di obbligazioni).
Per quanto riguarda l'Unione bancaria, è necessaria un'ulteriore significativa riduzione del rischio, anche in merito al trattamento regolamentare dei Titoli di Stato. Le proposte correnti per la riduzione dei rischi devono essere rese più stringenti. Soltanto su questa base l'ESM potrebbe svolgere un ruolo di back-stop finanziando procedure di risoluzione bancarie. Se, alla fine della discussione in corso, decidiamo di dare all'ESM un mandato colto allo svolgimento di una funzione di back-stop sotto forma di linea di credito per il SRF (single resolution fund), sarà necessaria anche in questo caso una modifica al Trattato ESM. Ciò perché il Trattato ESM, nella sua forma attuale, prevede solo l'assistenza a sostegno degli Stati membri, non anche a sostegno di altre istituzioni, come il SRF.
J.-C. Juncker ha invero proposto di utilizzare in alternativa il bilancio dell'UE per la costituzione di un back-stop. In questo contesto vi è una vasta gamma di domande aperte. Se un tale back-stop venisse creato all'intero dell'ESM, dovrebbe essere accantonato a tale scopo un importo di circa 55 miliardi di Euro (= livello obiettivo del SRF). In questo quadro, tuttavia, sembra ragionevole effettuare, parallelamente alla creazione di questo nuovo strumento, una revisione critica del sistema di "ricapitalizzazione diretta delle banche", uno strumento già esistente ma meno pratico e molto più rischioso (60 miliardi di Euro sono accantonati nell'ESM, a tale fine). Considerando la questione in modo globale, dobbiamo essere aperti per eliminare lo strumento di ricapitalizzazione diretta delle banche.
Scenari e piani più ambiziosi per l'ESM e le sue capacità finanziarie, sia per quanto riguarda l'eventuale ruolo di back-stop aggiuntivo rispetto al controverso Schema Europeo di Assicurazione dei Depositi (cioè l'EDIS), sia in merito all'attribuzione di una nuova capacità fiscale da utilizzare come meccanismo per trasferimenti all'interno dell'Eurozona, rischierebbero di imporre all'ESM uno sforzo superiore alle sue capacità, oltre ad andare contro il suo scopo fondamentale di salvataggio (bail-out) dei Paesi in gravi difficoltà.

(2) Per quanto riguarda l'attuazione delle riforme strutturali, dobbiamo aumentare la responsabilità dei Paesi interessati. Le riforme strutturali sono necessarie per modernizzare le economie, affinché queste si aggancino al resto dell'Eurozona e agli sviluppi globali. Mutualizzare i problemi esistenti o futuri, invece di affrontarli di petto, finirebbe solo per creare una Unione Monetaria (UEM) indebolita nel suo complesso.
Le riforme strutturali potrebbero essere costose a breve termine. Dovremmo quindi esaminare modi per incentivare le riforme. Abbiamo bisogno di ulteriore capacità fiscale intergovernativa? Non necessariamente. Il bilancio dell'UE è in fase di revisione e comunque i Membri dovrebbero contribuire in futuro a compensare le minori entrate determinate dalla Brexit. Di conseguenza, c'è una certa leva per impostare nuove e solide priorità rispetto al budget futuro, affinché possa anche sostenere l'Area dell'Euro.
La Commissione ha presentato interessanti proposte per migliorare il bilancio dell'UE. A questo proposito dovremmo esaminare se i contributi futuri degli Stati membri dell'UEM al bilancio dell'Unione Europea possano essere meglio collegati alle riforme strutturali nell'Area dell'Euro, sulla base delle "Raccomandazioni specifiche per il Paese" (CSR, country specific recommendation) della Commissione. Questo approccio - basato su un bilancio dell'Unione Europea e sulle CSR - dovrebbe, rispetto ad ogni altro tipo di approccio intergovernativo, garantire un importante ruolo alla Commissione e consentire una politica integrata dell'Unione europea, collegando il coordinamento delle politiche (Semestre Europeo e CSR) con le politiche di coesione (fondi strutturali) ed il bilancio dell'UE. Seguendo il discorso di J.-C. Juncker, questo approccio potrebbe preparare un "nucleo stabile" attorno cui costruire un bilancio della Zona dell'Euro. Una volta stabilito questo nucleo, il bilancio dovrebbe evolvere ulteriormente , sulla base di solidi finanziamento e ricavi propri.

(3) Per quanto riguarda la funzione di stabilizzazione (del ciclo economico), dobbiamo utilizzare meglio gli stabilizzatori automatici nazionali per assorbire gli shock. La flessibilità delle regole fiscali interne esiste esattamente per consentire a questi "stabilizzatori" di lavorare. Prerequisito per questo è ovviamente che gli Stati membri creino il necessario spazio fiscale per le manovre, rispettando i loro obiettivi di bilancio. L'idea degli obiettivi di bilancio a medio termine (MTO, medium term budgetary objectives) è proprio quella di costruire dei buffer per l'assorbimento degli shock.
Il FMI ha ragione di concludere - nella consultazione sul proprio art. IV - che le regole fiscali europee sono divenute purtroppo troppo complesse e poco prevedibili. È per questo che dobbiamo sviluppare ulteriormente queste regole, facendo in modo che la "regola del debito" si ponga almeno sullo stesso piano della "regola del deficit". Finché il debito nazionale si pone in un percorso di riduzione, i disavanzi nazionali potrebbero essere trattati in modo flessibile.
Una funzione di stabilizzazione macroeconomica, ad es. attraverso una nuova capacità fiscale o un'assicurazione contro la disoccupazione, non è economicamente necessaria per un'Unione monetaria stabile. La spesa pubblica contro-ciclica è sempre in ritardo rispetto alle necessità e un'assicurazione contro la disoccupazione in tutta l'Area dell'Euro dovrebbe affrontare livelli di reddito molto diversi nelle varie regioni. I nostri Stati con un sistema di welfare molto sviluppato fanno una grande differenza rispetto alla situazione degli Stati Uniti: lavorano infatti come stabilizzatori automatici significativi, sempre che il singolo Stato membro interessato abbia opportuni margini di bilancio (MTO).
Oltre a ciò, dobbiamo guardare più approfonditamente al Mercato Unico dell'UE 27. Un Mercato Unico più flessibile sarebbe in grado di assorbire meglio gli shock, in particolare quelli che colpiscono singoli Stati membri (cosiddetti shock asimmetrici). Le banche - in una vera unione bancaria e del mercato dei capitali - possono mantenere i loro livelli di impieghi anche se uno Stato membro è in crisi, poiché le banche possono lavorare in modo migliore a livello transfrontaliero e sono sorvegliate a livello comunitario. E una migliore mobilità dei lavoratori (migration) all'interno dell'UE 27 potrebbe offrire possibilità molto più concrete per mantenere la disoccupazione - soprattutto giovanile - sotto controllo in caso di crisi.
La diminuzione della convergenza fra i Paesi è spesso dovuta ai fattori strutturali nazionali e non può essere superata attraverso una maggiore capacità fiscale. Una nuova funzione di stabilizzazione mediante una "capacità fiscale dell'Euro" (si tratta dei c.d. Eurobond) permetterebbe solo di "comprare tempo" e porterebbe a ripetere gli errori nazionali del passato. Sarebbe molto più efficiente sostenere le riforme per aumentare la resilienza attraverso un efficace coordinamento delle politiche e in futuro attraverso un bilancio UE ben ridisegnato (vedi sopra).
La mutualizzazione del debito creerebbe incentivi sbagliati, solleverebbe fondamentali questioni legali e, quindi, metterebbe in pericolo la stabilità dell'intera Area dell'Euro. Qualunque sia il nome futuro: per delle "obbligazioni europee" o "titoli di debito sovrano europei" (alcuni li chiamerebbero  "nuovi Eurobond") non esiste alcuna domanda sul mercato. Dobbiamo essere in grado di creare stabilità reale attraverso riforme, non attraverso ingegneria finanziaria complessa e costosa.

martedì 20 giugno 2017

Terrorismo e strategia della tensione, oggi

"Improvvisamente i partiti ed il Parlamento hanno avvertito
che potevano essere scavalcati.
La sola alternativa che si è delineata nei confronti
del vuoto di potere conseguente
ad una rinuncia del centrosinistra,
è stata quella di un governo di emergenza,
affidato a personalità cosiddette eminenti, a tecnici,
a servitori disinteressati dello Stato che, nella realtà del Paese qual è,
sarebbe stato il governo delle destre,
con un contenuto fascistico-agrario-industriale,
nei cui confronti il ricordo del 1960 sarebbe impallidito"
(Nenni, 1964).


(Il post è la rielaborazione, in forma più ampia, di questo articolo uscito su Il Format. Per una tragica ironia della sorte, lo pubblico proprio la sera dell'ennesimo attentato, forse fallito).


Dopo l'attentato di Manchester (nel quale 22 ragazzi hanno perso insensatamente la vita e che ha necessitato una non rudimentale organizzazione) e quello di Londra (che pare più "fatto in casa", ancorché da tre persone coscienti e ben motivate) molti hanno iniziato a interrogarsi sulla specificità di questo crescente terrorismo di matrice islamica, volto a colpire, indiscriminatamente, le persone comuni in luoghi non particolarmente simbolici, col chiaro fine di seminare panico e ansia nella popolazione. Panico e ansia, per di più, che in qualche modo finirà con ogni probabilità anche per ripercuotersi sulle elezioni che si terranno domani.
In effetti, rispetto all'esperienza dell’Ira (il cui fine - l’indipendenza dell’Irlanda del Nord - non era revocabile in dubbio) questi attacchi non solo mancano di evidenti obiettivi strategici (a meno di non voler vedere in questi atti un tentativo di realizzazione di una jihad permanente in Europa), ma si contrappongono alle bombe nordirlandesi anche per quanto riguarda le relative vittime. Le operazioni, anche sanguinose, dell'Ira, erano infatti rivolte ad obiettivi economici e militari (a fronte invece di rappresaglie protestanti spesso indiscriminate) quando non addirittura politici (notissimo il tentativo di omicidio di Margaret Thatcher del 12 ottobre 1984, richiamato nel tweet).
Qui cosa abbiamo, invece, almeno a voler credere ai giornali? Lupi solitari, musulmani della porta accanto radicalizzatisi (ammesso che questa parola abbia un senso compiuto), qualche pazzo, e così via. Unico collante, sempre secondo i media, la religione professata.
Un quadro di questo genere, comunque la si voglia pensare, più che ai movimenti terroristici europei di matrice indipendentista fa pensare agli episodi stragisti che hanno insanguinato l'Italia negli anni Settanta. Episodi stragisti che sono apparsi alla Commissione Pellegrino "come il frutto, se non di un disegno criminoso unico, certo di un contesto unitario", la cui designazione sintetica, a livello storiografico, va sotto il nome di "Strategia della tensione".
Certo, una differenza sostanziale esiste: lo stragismo si caratterizzava per la premeditata vaghezza di mandanti ed esecutori materiali (ancora oggi Piazza Fontana e l'attentato all'Italicus sono misteri insoluti, Piazza della Loggia si dibatte fra processi e condanne e assoluzioni), quando non addirittura per il tentativo di indirizzare le indagini verso avversari politici (come nel caso della bomba, esplosa troppo presto, che Nico Azzi stava sistemando, copia di Lotta Continua in tasca, sul treno Torino-Roma; la stessa strage di Piazza della Loggia in cui - se quel giorno non fosse piovuto - sarebbero probabilmente morti esponenti delle forze dell'ordine e non manifestanti), mentre il terrorismo islamico rivendica orgogliosamente i propri sé dicenti "martiri" (che anzi spesso - da buoni cittadini - fanno la cortesia alle forze dell'ordine ed ai giornalisti amici di lasciare i propri documenti in bella mostra, in modo da essere subito riconosciuti). Ma l'indeterminatezza dei bersagli e l'oscurità dei fini è la stessa. D'altronde, anche il ben più riconoscibile e "selettivo" terrorismo di sinistra ha conosciuto sin dall'inizio una certa dose di infiltrazione ed etero-direzione (per alcuni non estranea neppure alla ideazione o, quanto meno, alla gestione del sequestro Moro), secondo modalità che oggi paiono replicarsi proprio nell'ambito del c.d. terrorismo islamico.
Ma in che costa si sostanziava, all'epoca, quel "contesto unitario" di cui parla la Commissione Pellegrino? Probabilmente nel tentativo (portato avanti da gruppi di pressione, ma anche da apparati dello Stato e da rappresentanti di Potenze straniere) non già di rovesciare l'ordinamento esistente, bensì di limitarlo, in qualche modo torcerlo rispetto ai suoi fini originari, ridurne il potenziale riformista a favore di specifici blocchi sociali. Tentativo, peraltro, da attuare attraverso due binari paralleli: la paura da un lato, la minaccia autoritaria dall'altro (quella del "tintinnare di sciabole" del 1964, che aveva portato alla prima crisi del centrosinistra, poi superata - sia pure a prezzo di un affievolimento della spinta innovatrice iniziale - a partire dalle costatazioni di Nenni sopra riportate; quella del Golpe Borghese, il cui contrordine - determinato, si dice, dal venir della disponibilità dell'Arma dei Carabinieri e dalla volontà statunitense di non assicurare un appoggio risolutivo all'operazione - era probabilmente previsto sin da principio).
Non a caso, scrive ancora la Commissione Pellegrino, "le analogie più inquietanti che legano i vari episodi è rappresentata da un comportamento di alcuni apparati statali qualificabile se non proprio come connivente [con i gruppi eversivi] quanto meno come tatticamente armistiziale”, volto alla insorgenza di "un clima di forte tensione politica, tale da giustificare l'intervento miliare o, quanto meno, una forte richiesta sociale d’ordine e di involuzione autoritaria delle Istituzioni" e della stampa. Un esempio in questo senso è il noto Piano di rinascita democratica della P2, il quale parte dalla costatazione della crisi irrimediabile della Democrazia Cristiana - problema la cui soluzione si rintraccia nella creazione di due nuovi movimenti politici, uno social-laburista e l'altro liberal-moderato o conservatore, in grado di catalizzare, a destra e a sinistra della DC. le aree moderate che stentatamente convivono all'interno del partito impegnandosi in una lotta interna esiziale - per poi estendersi a una revisione del sistema politico-statale muovendo da una visione fortemente economicistica della società, che relega in un angolo la politica, i cui rappresentanti hanno necessità di una garanzia che non gli viene dalla legittimazione, ma dai rappresentanti delle élites, attribuendogli un ruolo di strumento di mediazione tanto ineliminabile quanto sgradito e quindi relegato in una posizione fortemente marginale e in buona sostanza appena tollerato per conservare il carattere democratico del sistema.
Certo, io non ho alcuna prova di una logica armistiziale (o anche semplicemente di regime di tolleranza) fra terrorismo e apparati di sicurezza, però mi guardo intorno, ed i puntini da unire sono talmente fitti che il disegno si vede subito, solo a non volere essere ciechi.
A fructibus eorum cognoscetis eos. 
"Quando è troppo è troppo!”, ha tuonato Theresa May, che non ha perso tempo sia a chiedere ai giganti del web “azioni concrete” per arginare quello che lei definisce “l’odio” che si propagherebbe nella rete, sia ad annunciare un inasprimento delle misure repressive nei confronti di tutti i reati (anche i reati minori) in qualche modo legati al terrorismo. Cioè, a chiedere una censura soft delle piattaforme su internet e imporre una significativa riduzione della privacy dei propri cittadini.

Nel frattempo, in Francia, non soltanto non è stato ancora revocato lo stato di emergenza inaugurato dopo la strage di Nizza (cosa, che, peraltro, non impedisce di concedere il porto d'armi a un signore che assiduamente frequenta noti gruppi terroristici), ma anzi pare che - presto - quello che ora è un regime eccezionale possa diventare la più pura normalità.
Dall'altro lato, questa specie di guerra permanente a bassa intensità, sottospecie domestica del conflitto orwelliano, permette di propagandare in modo accattivante la nuova frontiera della dominazione leuropea, cioè a dire la creazione di un esercito leuropeo (che - come l'Euro ha permesso alla Germania di governare tutte le banche centrali dei Paesi membri - così permetta alla stessa Germania di mettere le mani sui codici nucleari francesi).
L'Italia non è stata ancora toccata dal fenomeno fondamentalista, et pour cause come in sostanza ammette il Presidente del Consiglio connettendo l'approvazione della legge sullo ius soli (ma lo stesso ragionamento potrebbe essere fatto per quanto attiene la gestione dell'emergenza immigrazione) e la sicurezza interna.


Tuttavia, i primi frutti di questo nuovo "clima" si iniziano ad intravedere anche da noi, al di là delle pagliacciate di quella che indegnamente è la Terza Carica dello Stato. Mentre infuriava proprio la battaglia sullo ius soli, zitto zitto il Governo ha portato a casa una terrificante riforma del sistema penale, la cui punta di diamante è la liceità delle “intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili”, già ribattezzati trojan di Stato. Per chi non lo sapesse, i trojan sono malware che, una volta installati di nascosto su un PC, uno smartphone o un tablet permettono di gestire il dispositivo da remoto. Nel caso di specie, permettono di attivare, all'insaputa dell'utente, il microfono, o la videocamera, e registrare conversazioni che si penserebbero private.
Ovviamente, in caso di reati gravi, cioè i reati di mafia e - guarda un po' - di terrorismo, ma anche per tutta una'altra serie di reati per cui sono previste le "comuni" intercettazioni. Tra questi, per dire, il reato di minacce.
"La guerra... non ha per oggetto la vittoria sull'Eurasia o sull'Asia orientale, ma la conservazione dell'ordinamento sociale".

giovedì 15 giugno 2017

No allo ius soli

La questione della cittadinanza ha, per quanto mi riguarda, una sua importanza anche affettiva: da giovane studente del primo anno di giurisprudenza, mi fu affidata proprio sulla (allora) recente riforma una breve tesina. Testo non indimenticabile, ma per me ovviamente importante. In effetti, l'acquisto e la perdita della cittadinanza italiana sono regolati dalla L. n. 91 del 1992, come specificata da due regolamenti di esecuzione, uno del 1993 e uno del 1994. La Legge la potete trovare qui, ma un ottimo sunto è presente anche sul sito della Farnesina.
In linea di massima, sono italiani coloro il cui padre o madre hanno cittadinanza italiana: si tratta del c.d. ius sanguinis, già presente nella legge previgente (giolittiana, poi rivista in epoca fascista). Il principio è talmente fondante che acquistano di diritto la cittadinanza italiana anche coloro che, pur nati all'estero, possano dimostrare di possedere un avo italiano (purché questo, o i suoi discendenti, non abbiano rinunciato al passaporto del nostro Paese).
Stabilito il criterio di fondo, vi sono poi una serie significativa di eccezioni. Queste sono le principali: (i) i casi di applicazione dell'opposto principio dello ius soli, in particolare ai bambino con genitori sconosciuti o apolidi; (ii) il matrimonio o l'unione civile con cittadino italiano, decorso un determinato periodo di tempo (a seconda che la famiglia sia stabilita in Italia o all'estero, ovvero che ci siano o meno figli), salvi specifici motivi ostativi (essenzialmente condanne penali a reati di una certa gravità); (iii) la residenza in Italia per un periodo continuativo di 10 anni (3 anni per lo straniero nato in Italia e ivi residente; 4 per il cittadino comunitario) o l'aver prestato anche all'estero servizio per lo Stato italiano per almeno 5 anni; (iv) leggi speciali, a favore dei residenti a Fiume, in Istria e Dalmazia, nella zona B di Trieste, ecc..
Il minore straniero, in generale, acquista la cittadinanza qualora l'acquistino i suoi genitori. Così diviene cittadino italiano il minore straniero adottato da una famiglia con un coniuge italiano, o riconosciuto figlio di un cittadino italiano a mezzo di sentenza giudiziale, o ancora il cui padre o la cui madre siano naturalizzati italiani. Ma non solo: ai sensi dell'art. 4, c. 2, L. n. 91 del 1992, "lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data".
Una legge equilibrata, che da un lato riconosce la specificità della Nazione italiana, una d'arme, di lingua, di altare, dall'altro prende atto della necessaria apertura all'altro da sé, nei casi in cui siffatta scelta sia ragionevolmente fondata. Soprattutto, già prevede di dare la cittadinanza a chi è nato in Italia e vi ha risieduto fino alla maggiore età.
Per questo, certe prese di posizioni appaiono, francamente, mere forzature pre-elettorali.
Ma questo è il solo punto di arrivo. E, tutto sommato, se anche vi fosse uno stop (cosa di cui dubito), per il PD non sarebbe un grosso problema. Sì perché, come al solito, come per esempio successo con il TTIP e il CETA, i giornali e l'opinione pubblica si concentrano sul bersaglio grosso ed ignorano colpevolmente quello più piccolo, ma forse per questo più pericoloso. Si tratta della Legge 7 aprile 2017, n. 47, recante "Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati".
Cosa dice questa legge?
Molto in breve, che i "minori stranieri non accompagnati" (cioè tutti gli infra-diciottenni non aventi cittadinanza italiana o dell'UE che si trovano per qualsiasi causa nel territorio dello Stato - quindi anche in quanto clandestini - privi di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili) non possono essere respinti alla frontiera né, successivamente, espulsi, salvo apposito provvedimento del Tribunale per i minorenni e "a condizione comunque che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore”.
Con due punti molto discutibili.
Primo: che l'età è accertata in via principale attraverso un documento anagrafico (che, evidentemente, non c'è mai), quindi, eventualmente, mediante complicatissimi accertamenti sanitari (su richiesta della Procura della Repubblica, previa informativa al diretto interessato in lingua a lui nota, con l'ausilio del Mediatore culturale), infine per presunzione.
Per presunzione, cioè sulla parola di robusti giovanotti che dimostrano tranquillamente venticinque anni, ma ne dichiarano diciassette e mezzo. Cosa che ovviamente, alla lunga, finirà per ritorcersi contro i più indifesi, cioè i veri bambini giunti in Italia e abbandonati.


Secondo: il permesso di soggiorno per minore età nei confronti dei minori stranieri non accompagnati, indipendentemente dalle modalità del loro arrivo, si converte quasi automaticamente in un comune permesso di soggiorno al raggiungimento della maggiore età.
Il che, poi, porta a un ulteriore problema.
Ferme restando le condizioni previste dalla legge in materia di reddito minimo e di possesso di un alloggio, in linea di principio la normativa italiana prevede l’ingresso nel nostro Paese a fini di ricongiungimento dei familiari di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.
Arrivo come clandestino diciottenne.
Compio diciotto anni e ricevo un permesso di soggiorno ad esempio per lavoro.
Chiamo tutta la famiglia in Italia.
Fine della storia.
In una situazione come questa - così diversa, ad esempio, dagli Stati Uniti, dove il principio dello ius soli da un lato di inserisce nel quadro di una popolazione geneticamente multiculturale, che non possiede le peculiarità storiche, linguistiche, religiose delle Nazioni europee, e che comunque è temperata da una normativa strettissima in materia di immigrazione - la legge in approvazione al Senato è assolutamente deleteria.
Vediamo il testo.
Ai sensi dell'art. 1, "è cittadino per nascita... chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, o sia in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all'art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 [cioè coloro che hanno da almeno 5 anni il permesso di soggiorno in Italia, N.d.R.]", su richiesta di uno dei genitori entro la maggiore età del bambino o di quest'ultimo, entro due anni dalla raggiunta maggiore età.
Ma non basta. "Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età che, ai sensi della normativa vigente, ha frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana. Nel caso in cui la frequenza riguardi il corso di istruzione primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva del corso medesimo...".
Cioè, chiunque.
Ancora. "La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno... allo straniero che ha fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età, ivi legalmente residente da almeno sei anni, che ha frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, nel medesimo territorio, un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo, presso gli istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale con il conseguimento di una qualifica professionale".
Ovviamente, per rendere il tutto ancora più facile, si considera residente anche chi ha trascorso all'estero fino a 90 giorni annui medi su 3 anni, e non più di 6 mesi in un anno.
Regole stringentissime...
Da queste disposizioni possiamo trarre alcune considerazioni. La prima: che Gentiloni, col suo fare flemmatico, con la sua condiscendenza a non apparire troppo in TV e non strombazzare le proprie idee ai quattro venti (al contrario del Bulletto di Rignano), sta facendo quasi più danni del triennio Renzi a Palazzo Chigi. L'approvazione a colpi di fiducia di una vergognosa riforma del diritto e del processo penale ne è un esempio lampante.
Lo ius soli è in questo senso uno snodo fondamentale.
La seconda: che - qualora la legge sia approvata - qualsiasi partito appena decente deve immediatamente impegnarsi a raccogliere firme per l'abrogazione referendaria delle nuove norme (lasciando magari vigente il caso del bambino nato in Italia da stranieri con regolare permesso di soggiorno) e/o inserire nel proprio programma elettorale la loro cancellazione una volta insediato il nuovo Parlamento.
Oppure ci lasciamo tranquillamente assimilare e del nostro retaggio non rimarrà nulla.

giovedì 1 giugno 2017

I voucher-zombi (ritorno al passato)

Ritorno sulla questione della resurrezione dei voucher in modo maggiormente analitico, dopo averne recentemente parlato su Il Format. Intanto facendo ammenda del titolo dell'articolo, nel senso che effettivamente i buoni-lavoro sono stati resuscitati, ma - si spera - non per rimanere nella gloria, bensì soltanto come un segno (non della vittoria della vita sulla morta ma, assai più prosaicamente, della vittoria del capitale sul lavoro nella lotta di classe) che non oblitera la comunque inevitabile corruzione del sepolcro. Più che a Nostro Signore, in sostanza, auspico che assomiglino a Lazzaro, rispetto al quale mi restano assai meno simpatici.
Comunque, sia come sia, nonostante le rassicurazioni dei proponenti il famigerato emendamento, ecco che i voucher si ripropongono (come la peperonata). Ma sono diversi!, dicono dalla regia, un po' come quei mariti che spendono lo stipendio al bar o alle slot machine e poi - dopo essere stati buttati fuori di casa - tornano con la coda fra le gambe, assicurando di aver perso il pelo, e anche il vizio. Ovviamente mentendo: passa qualche giorno e il vizio si riaffaccia, fino alla successiva scenata familiare (il lettore non avrà difficoltà ad immaginare Susanna Camusso nella veste di moglie inviperita, pronta a brandire nuovamente - a mo' di mattarello - il referendum abrogativo).
Si tratterebbe dell'ennesima stucchevole presa in giro del popolo italiano, tutto sommato neppure troppo interessante, se non permettesse qualche riflessione più ampia di natura giuridica, sulla quale vale la pena soffermarsi.

I.a. Vincolatività del referendum abrogativo

Il primo punto da prendere in considerazione attiene alla vincolatività del referendum abrogativo. La questione, nei suoi termini generali, è molto chiara: se la Costituzione dispone l'abrogazione di una legge nel caso di pronunciamento in questo senso della maggioranza del corpo elettorale (sia pure con le forme ed i limiti di cui all'art. 75), evidentemente la riproposizione di norme identiche a quelle oggetto di consultazione popolare, magari dopo un breve lasso di tempo rispetto alla consultazione medesima, porterebbe a una censura di incostituzionalità della nuova disciplina.
Trattasi di un caso di scuola, che tuttavia si è presentato nella in relazione a disposizioni in materia di affidamento diretto di pubblici servizi locali. In particolare, l'art. 4, D.L. 13 agosto 2011, n. 138 riproponeva - a distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell'avvenuta cancellazione! - una norma oggetto di abrogazione referendaria (cioè l'art. 23-bis, D.L. n. 112 del 2008), oltre a "parti significative" delle norme di attuazione della medesima (D.P.R. 7 settembre 2010, n. 168), recando anzi "una disciplina che rende ancor più limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house di quasi tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, in violazione del divieto di riproposizione della disciplina formale e sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, di cui all'art. 75 Cost....".
La sentenza n. 199 del 2012 della Corte Costituzionale l'ha annullata, riproponendo un principio fondamentale che non può essere messo in dubbio nonostante la lunga teoria di referendum i cui risultati sono stati del tutto disattesi dal legislatore. Si è trattato spesso, infatti, di norme che difficilmente avrebbero potuto essere oggetto di un contenzioso attraverso il quale sollevare ricorso incidentale alla Corte (si pensi al finanziamento pubblico dei partiti, o al clamoroso caso del Ministero dell'Agricoltura). I giudici, infatti, che nella sentenza qui in commento hanno riconosciuto la sussistenza di "un conflitto di attribuzioni fra Stato e Regioni", hanno in passato recisamente negato la possibilità di riconoscere un "conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato" tra i promotori di un referendum "tradito" da un lato, e la Camera e il Senato dall'altro (v. sentenza n. 9 del 1997).
Ma la pronuncia del 2012 non si ferma qui. Ci si legge infatti: "un simile vincolo derivante dall'abrogazione referendaria [cioè l'incostituzionalità di una disciplina analoga o peggiorativa rispetto alla volontà popolare espressa nel referendum] si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall'art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l'effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all'abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto".
Una norma che reintroduce una disposizione abrogata via referendum non è, dunque, sempre illegittima. Tale circostanza è infatti plausibile se: (1) sono mutate le circostanze di fatto; (2) è mutato il quadro politico.
A cosa si faccia riferimento quando si tira in ballo un mutamento delle circostanze di fatto è abbastanza evidente. Ma cosa vuol dire "mutamento del quadro politico"? Scrive Giampietro Ferri: "il fatto che, nel corso della XVI legislatura, dopo l’abrogazione referendaria, vi sia stato un cambiamento della maggioranza governativa e che ciononostante la Corte abbia negato che siano avvenuti mutamenti del quadro politico dovrebbe portare a escludere che la giurisprudenza costituzionale faccia dipendere il mutamento del quadro politico dalle vicende riguardanti la maggioranza di Governo. Si potrebbe ipotizzare allora che tale mutamento debba essere collegato a una trasformazione del sistema politico, con la nascita e l’affermazione di nuove forze politiche, il che sembrerebbe però eccessivo. Più convincente appare l’interpretazione secondo la quale la Corte richiederebbe implicitamente un intervento del corpo elettorale: intervento che, rinnovando e restituendo la piena rappresentatività al Parlamento, potrebbe giustificare l’approvazione di una legge contrastante con l'esito referendario". In altri termini, per ribaltare un referendum basterebbe il lavacro delle elezioni.
Io credo invece che sia come minimo necessario che da quelle elezioni escano vincenti una o più formazioni politiche che hanno espressamente inserito, nel loro programma di governo, la reintroduzione della norma in questione. Pena, la durata infra-quinquennale di qualsiasi decisione referendaria.

I.b. Il caso dei voucher

Il caso dei voucher, tuttavia, è assai differente. Il referendum abrogativo - che sarebbe stato vinto a man bassa dalla CGIL - non si è infatti tenuto perché lo stesso Governo ha cancellato le norme oggetto della consultazione popolare.
Si può quindi concludere che, nel caso di specie, la giurisprudenza della Corte sopra richiamata non si applica, trattandosi di fattispecie del tutto differente? Si può, in altri termini, pensare che un governo possa tranquillamente cancellare qualsiasi disposizione oggetto di referendum salvo poi reintrodurla identica una volta che il referendum è stato cancellato?
A mio avviso, l'interpretazione sostanziale e sistematica della Corte Costituzionale nelle sentenze sopra succintamente citate conduce a ritenere applicabile, in via analogica, anche al caso dell'abrogazione e reintroduzione dei voucher (ove le due discipline siano effettivamente sovrapponibili) i principi della sentenza n. 199 del 2012, con tutte le conseguenze del caso. E ciò per l'evidente limite per cui non è possibile immaginare una "riviviscenza" (non solo della disposizione oggetto del referendum ma anche) del referendum stesso.
Ciò premesso, il problema si fa tuttavia più complesso nel momento in cui si tenti di immaginare modalità concrete per attivare il sindacato della Corte la quale - non essendovi nel caso di specie diritti regionali lesi - può essere adita soltanto incidentalmente nel quadro di un previo contenzioso di natura civile o penale.
Ma quale? L'unica ipotesi che mi viene in mente è quella di un prestatore che - "assunto" da una impresa con questo nuovo "contratto di prestazione occasionale" - sostenga la nullità dello stesso e chieda al giudice di ricostruire il rapporto esistente fra le parti in termini costituzionalmente coerenti, magari entro lo schema della subordinazione.
Sinceramente mi sembra una strada impervia, per non dire addirittura improponibile. Io, però, se fossi responsabile di un'impresa, questo nuovo "contratto" aspetterei un po', prima di usarlo...

II. I voucher vecchi e nuovi

Dunque vediamo più da vicino questo art. 54-bis che si vorrebbe introdurre nella legge di conversione del disegno di legge n. 50 del 2017, quello cioè con cui - sotto il falso nome di decreto a favore delle popolazioni colpite dal sisma del Centro Italia - il Duca Conte Gentiloni ha redatto la leuropea sui conti di primavera (sulle cui nefandezze si è detto qui e qui). Che c'entrano i voucher con disposizioni in materia di Iva? Nulla di nulla, così come è assurdo che disposizioni come quelle in parola siano analizzate dalla Commissione Bilancio e non dalla Commissione Lavoro. Ma sono tali e tante le sconcezze, che queste quisquilie non le nota più nessuno.
D'altronde, nella stessa legge di conversione è spuntato fuori anche un articolo di interpretazione autentica delle disposizioni che hanno condotto il Tar a bocciare le nomine dei direttori dei principali musei italiani da parte del Ministro Franceschini, in modo da mettere una pezza all'ignobile spettacolo della settimana scorsa. Pezza che, come sempre accade, è assai peggiore del buco.
Vabbè, lasciamo perdere e torniamo all'emendamento.

II.a. La mancanza di un inquadramento dogmatico coerente

Il comma 1 definisce il concetto di "prestazione occasionale" che può essere "acquisita" a certe condizioni. Qui si riscontra subito un problema grave.
L'occasionalità è infatti commisurata soltanto all'ammontare dei compensi percepiti dal prestatore, sia quelli rivenienti dal singolo committente, sia in complessivo nell'anno solare. Al comma 20 si aggiunge poi un altro limite quantitativo, quello delle 280 ore annue (non mi pronuncio sulla tecnica legislativa a dir poco bizzarra). Certo, rispetto ai vecchi voucher le soglie sono più basse (5.000 Euro per committente, che divengono 6.666 nel caso di prestatori appartenenti a determinate categorie svantaggiate; 2.500 Euro per prestatore), ma l'errore di fondo - la mancanza di una definizione contenutistica della prestazione occasionale - resta pari pari il medesimo.
In questo quadro, è meritorio il tentativo di qualificare come "contratto" il rapporto che si instaura fra le parti. Tentativo che, però, comporta una serie di problemi ricostruttivi dell'istituto quasi impossibili da risolvere.
Primo: uno stesso rapporto è, in alcuni casi, qualificato come contratto, mentre in altri resta al di fuori dello schema contrattuale, come accadeva con i precedenti voucher. Ai sensi comma 6, infatti, "alle prestazioni di cui al presente articolo possono fare ricorso: (a) le persone fisiche, non nell'esercizio dell'attività professionale o d'impresa, per il ricorso a prestazioni occasionali mediante il Libretto Famiglia di cui al comma 10; (b) gli altri utilizzatori, nei limiti di cui al comma 14, per l'acquisizione di prestazioni di lavoro mediante il contratto di prestazione occasionale di cui al comma 13.
Dunque, il singolo cittadino che ha bisogno di una colf, di un giardiniere, di una baby sitter o di una badante, dell'insegnante che impartisce ripetizioni, acquista tramite il sito dell'Inps un carnet prepagato di buoni-lavoro da 10 Euro, pomposamente ribattezzato "Libretto di famiglia", e lo spende via via che gode delle prestazioni. Al pagamento del prestatore pensa l'Istituto di previdenza, che - attenzione! - è informato dal committente "entro il giorno 3 del mese successivo allo svolgimento della prestazione" (commi da 10 a 12).
Di contro, un'impresa che vuole utilizzare i voucher deve concludere un "contratto di prestazione occasionale", cioè un contratto "mediante il quale un utilizzatore... acquisisce, con modalità semplificate, prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità...". Cosa voglia dire una disposizione di questo tipo, mi è ignoto, come mi è ignoto il senso del comma 20, secondo cui, "in caso di superamento... [dei limiti quantitativi delle prestazioni richiedibili al singolo prestatore], il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato..." Cioè: una "cosa" che non è sicuramente un rapporto di lavoro (nel caso del "Libretto di famiglia": Circ. Inps n. 88/2009 e Circ. n. 17/2010) oppure che è bensì un rapporto di lavoro, ma "semplificato", diviene - mediante una trasformazione ex lege a carattere sanzionatorio - il più stabile dei contratti giuslavoristici, cioè il contratto (i) subordinato (ii) a tempo pieno (iii) indeterminato. Una follia (lo stesso art. 2, c. 1, D. Lgs. n. 81 del 2015 era stato meno tranchant nel prescrivere - in modo comunque molto confuso - che, "a far data dal 1° gennaio 2016, si  applica  la  disciplina  del rapporto di lavoro subordinato anche a [determinati] rapporti  di  collaborazione").
Queste, diciamo, stravaganze si ripercuotono anche nella disciplina dei commi 2 e 3. Da un lato il prestatore ha i contributi versati alla Gestione separata, come un collaboratore coordinato e continuativo (o come un "vecchio" collaboratore a progetto), ma ha diritto "al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali secondo quanto previsto... [dal] decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66" (cioè il decreto che fissa le norme di base in materia di orario di lavoro, concetto - anche questo - proprio della sola subordinazione).
Dal punto di vista dogmatico, un pastrocchio.

II.b. Le "maglie larghe" del sistema anti-frode

Che ci sia bisogno di uno strumento che permetta di pagare, in modo fiscalmente corretto, ma senza troppe complicazioni, prestatori che svolgono funzioni residuali e saltuarie (giardinieri, baby sitter, insegnanti che danno ripetizioni) è indubbio. Quello che si è imputato ai voucher, con sempre maggior forza, era la loro utilizzabilità negli ambiti più disparati, sostanzialmente in frode alle altre disposizioni di legge (il caso dell'autotrasportatore a voucher è celebre).
Le cose non sono sempre state così, ne ho parlato diffusamente qui. In breve, i buoni-lavoro nascono con gli artt. 70 e ss. del D. Lgs. n. 276 del 2003 (Legge Biagi), per remunerare le "prestazioni occasionali di tipo accessorio" svolti da "soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne" (disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati, disabili, extracomunitari: art. 71), quindi (tra il 2004 e il 2008) sono estesi all'agricoltura (per vendemmie, raccolta di pomodori e olive, ecc.) e quindi a "qualsiasi settore produttivo il sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza da parte di giovani con meno di venticinque anni di età". Successivamente si dà la possibilità di utilizzare i voucher anche agli enti locali, mentre nel 2010 sono aggiunti fra i possibili fruitori cassaintegrati, iscritti a liste di mobilità, lavoratori a part-time ed è stato eliminato il massimale di giornate lavorabili presso un solo committente. Poi, arriva la Fornero che riscrive l'istituto e lo snatura. Dal 2012 è "lavoro accessorio" quello "di natura meramente occasionale" che "non dà luogo... a compensi superiori a 5.000 Euro" annui (di cui non più di 2.000 da uno stesso committente). Se i voucheristi sono cassintegrati o in liste di mobilità o ricevono l'assegno di disoccupazione, il limite massimo percepibile nell'anno è di 3.000 Euro. Punto. I voucher possono essere utilizzati da chiunque, imprenditore o meno, con limitazioni risibili (sono vietati in caso di appalto e limitati in agricoltura).
Detto in professorese: "il lavoro accessorio non è più relegato ad ipotesi marginali, ma - del tutto affrancato dalla vocazione sociale e di politica attiva che lo animava - costituisce modalità ordinaria per la regolazione di tutti i rapporti di lavoro" (Bollani, La nuova disciplina del lavoro occasionale di tipo accessorio, in AA.VV. (a cura di), Previdenza, mercato, lavoro, competitività, Torino, 2008, 404); pertanto "la natura occasionale ed accessoria della prestazione - e dunque la legittimità del ricorso al lavoro accessorio - deve essere valutata... in base all'unico criterio quantitativo di 5.000 Euro nel corso dell'anno solare" (Putrignano, in Argomenti Dir. Lav., 2014, 3, 811).
Renzi si è limitato ad alzare la soglia a 7.000 Euro ed a specificare che la percezione dei voucher non dà diritto all'assegno di disoccupazione.
Per ridurre l'abuso dei voucher, il comma 14 dispone che "è vietato il ricorso al contratto di prestazione occasionale: (a) da parte degli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato; (b) da parte delle imprese del settore agricolo, salvo che per le attività lavorative rese da [determinati] soggetti...; (c) da parte delle imprese dell'edilizia...; (d) nell'ambito dell'esecuzione di appalti di opere o servizi".
Ora, non è pensabile che chi ha scritto l'emendamento non sappia che fare riferimento alle "imprese con non più di 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato" significhi di fatto estendere l’utilizzo dei voucher anche a moltissime aziende che – tramite altre forme di lavoro precario, a partire dal tempo determinato (i cui limiti quantitativi non si applicano a tutta una congerie di ipotesi specificamente normate all'art. 23 del D. Lgs. n. 81 del 2015, uno dei principali decreti attuativi del Jobs Act) – in realtà impiegano un numero maggiore di lavoratori. Significa, cioè, permettere alla maggioranza delle aziende italiane di utilizzare anche i nuovi voucher, esattamente come usavano ed abusavano dei vecchi (per una diversa interpretazione, leggi qui).
Ma c'è anche di peggio. Premesso che a pagare effettivamente il prestatore è l'Inps (il comma 19 ha cura di specificare che i costi del bonifico sono a carico del percipiente...), rimborsato mediante apposita piattaforma informatica o F24, al fine di permettere l'individuazione degli aventi diritto alla riscossione, ai sensi del comma 17, "l'utilizzatore è tenuto a trasmettere almeno un'ora prima dell'inizio della prestazione... una dichiarazione contenente, tra l'altro..., a) i dati anagrafici e identificativi del prestatore; b) il luogo di svolgimento della prestazione; c) l'oggetto della prestazione; d) la data e l'ora di inizio e di termine della prestazione...". Tuttavia (comma 18), "nel caso in cui la prestazione lavorativa non abbia luogo, l'utilizzatore è tenuto a comunicare... la revoca della dichiarazione trasmessa all'INPS entro i tre giorni successivi al giorno programmato di svolgimento della prestazione...".
In sostanza, non vi sarà modo di punire chi, dopo aver fatto svolgere una prestazione a voucher, preso atto dei mancati controlli da parte degli organi preposti, paghi in nero il prestatore e cancelli, con una semplice telefonata all'Inps, la richiesta fatta.
Sempre che uno - soprattutto se trattasi di impresa - voglia davvero perdere tempo con questo farraginoso meccanismo di prenotazione. Infatti, "in caso di violazione dell'obbligo di comunicazione di cui al comma 17... si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da Euro 500 a Euro 2.500 per ogni prestazione lavorativa giornaliera per cui risulta accertata la violazione".
Sai che paura.
Dice: eh, ma tu vai sempre a pensare male.
Vero. Però noto che quando si tratta di evitare l'evasione del comune cittadino, lo Stato le pensa proprio tutte. Senza entrare in argomento, la kafkiana ritenuta alla fonte sui redditi da locazione turistiche, nonché le disposizioni di molte leggi regionali (v. p.e. l'art. 70 della L.R. Toscana n. 86 del 2016) volte a censire i proprietari di seconde case in città o al mare, sono esempi concreti.
Monumenti - insieme ai voucher, insieme a mille altre norme che questo governo ed i precedenti sfornano a getto continuo - alla vergogna normativa.

lunedì 22 maggio 2017

Bad bank alla spagnola?

Attorno a Mps ed alle due banche venete si sta giocando una partita piuttosto cinica. Sono di ieri le ultime dichiarazioni di Danièle Nouy, la laureata in giurisprudenza e scienze politiche a capo del Meccanismo di vigilanza unico sulle banche, secondo cui nell'Eurozona "ci sono tre categorie di banche: quelle che stanno andando piuttosto bene, quelle che non vanno tanto bene ma si impegnano, con coraggio, a risolvere i loro problemi e poi ci sono altre che in qualche modo negano la realtà e dovranno cambiare per migliorare". Il riferimento non è per nulla casuale: "anche di recente... abbiamo avuto esempi di banche che hanno venduto sofferenze e che si sono rivolte al mercato per chiedere capitale aggiuntivo" (per esempio Unicredit col progetto FINO).
L'uscita di cui sopra segue di pochi giorni una ancora più dirompente, ancorché relegata nelle pagine economiche dei quotidiani e del tutto ignorata dai telegiornali: "gli stress test dell'EBA su cui si è basato il calcolo dell'ammanco di capitale di Mps non comprendevano una preventiva asset quality review", cosa che "apre una discussione aggiuntiva onde indagare se le perdite subite siano realmente coperte da soldi privati".
Non so se è chiaro. La signora sta dicendo che la "ricapitalizzazione precauzionale" da parte dello Stato, quella per intendersi che sacrifica soltanto gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati della banca, è utilizzabile soltanto qualora l'istituto sia solvibile ed abbia ripianato le perdite pregresse con il sacrificio di soci e obbligazionisti cosa non così scontata.
Il perché è presto detto: le sofferenze di Mps potrebbero essere superiori a quelle contabilizzate, ed avere un minore valore: prima degli stress test dello scorso anno, infatti, la BCE non ha portato a termine una convincente ispezione degli attivi (l'ispezione si è infatti conclusa a febbraio 2017).
Ma i soldi dello Stato non solo non possono ripianare gli ammanchi di capitale pregressi (potendo soltanto, in pratica, colmare il gap tra il capitale minimo previsto dalla vigilanza per gli istituti e quello prudenziale richiesto al singolo soggetto vigilato), ma neppure le perdite future, ove prevedibili. In pratica, i soldi dello Stato non possono essere utilizzati neppure a copertura delle minusvalenze derivanti dalla cessione degli NPL (cessione, tra parentesi, richiesta dalla stessa BCE), a quelle dovranno bastare il capitale attuale e le obbligazioni convertite in azioni (il che può anche spiegare i motivi per cui la medesima BCE pare voler cedere, almeno in parte, alle richieste della DG Comp e fare un po' di "sconto" al governo).
Per sbloccare la trattativa in tempi brevissimi, riciccia a Siena il Fondo Atlanta, che insieme a Fortress e Fonspa dovrebbe a breve produrre un'offerta non vincolante per l'acquisto di uno stock molto significativo di NPL, impegnandosi soprattutto sulle tranche junior mezzanine. Lo dico chiaramente: a me questa notizia puzza. Dove trovi i soldi Atlante, è un mistero. Non sono sicuro che Fonspa abbia le capacità finanziarie per entrare in una operazione del genere. Fortress ha concluso da pochi mesi un'operazione impegnativa con Unicredit.
In questo contesto, non stona la precisazione della trimestrale 2017 di Montepaschi, redatta sì con criteri di continuità aziendale, ma che avverte come tale continuità sia sottoposta a "taluni elementi di rilevante incertezza", che potrebbero anche pregiudicarla. E le incertezze riguardano appunto "l'ottenimento delle autorizzazioni necessarie per l’accesso alla misura di Ricapitalizzazione precauzionale che presuppone l’approvazione del Piano di Ristrutturazione", "i possibili impatti… sulla valutazione di solvibilità" dell’ispezione della BCE sul portafoglio crediti, "l'esecuzione delle azioni previste dal Piano di Ristrutturazione".
Morale della favola, anche nel caso in cui l'intervento di Atlante si verifichi, della soluzione definitiva non se ne parla prima dell'estate. Nel frattempo Mps perde denaro, e la situazione si aggrava. Se le obbligazioni senior sono ancora sospese e, soprattutto, se nessuno ne parla, un motivo forse ci sarà.
Fortuna vuole che Mps sia, probabilmente, ancora too big to fail. Così non è, però, per Popolare di Vicenza e Veneto Banca, per le quale si inizia apertamente a parlare di bail-in.
Anche in questo caso, il problema principale sono gli NPL, quasi 19 miliardi di Euro - di cui quasi 10 miliardi di sofferenze - contabilizzati a circa 40c. Come per Mps, la perdita conseguente alla cessione non può essere coperta dallo Stato, devono pensarci i privati. Pare dunque che la Commissione sia orientata - ferma restando la richiesta di ricapitalizzazione della BCE di 6 miliardi e 400 milioni - a imporre al governo italiano di versare un miliardo in meno (3 miliardi e 700 milioni) ed ai privati un miliardo in più (2 miliardi e 700 milioni, di cui 1 miliardo messo da Atlante e 700 milioni rivenienti dalla conversione di bond subordinati).
Tra l'altro, il sistema è concepito come una specie di gioco dell'oca al contrario, in cui le pedine si ritrovano sempre al via. I sistemi interni di valutazione dei rischi delle principali banche, infatti, calcolano infatti il rischio di perdita sui finanziamenti in caso di fallimento della controparte a partire dai dati storici dei recuperi. Una cessione significativa di NPL a prezzi molto bassi (cosa che con ogni probabilità succederà sia a Mps, sia alle venete) renderebbe tutti gli impieghi “più rischiosi”, anche quelli in bonis, con conseguente riduzione del CET1 (che, come noto, al denominatore ha gli impieghi ponderati per il rischio). E questo è talmente vero da spingere i Consigli di Amministrazione a ricercare soluzioni molto complesse, quando non del tutto fantasiose.

Nonostante la fiducia che sprizza da tutti i C.d.A. e dalle pagine dei giornali, a mio avviso - per quel che conta - la situazione è molto grave.  Ma ancora più grave è il sospetto che questi istituti (ma soprattutto i loro dipendenti ed i risparmiatori che vi hanno investito i loro risparmi) siano delle pedine di un gioco più grande. Il gioco della Commissione, che vuole spingere l'Italia - dopo la mancata costituzione di una bad bank europea - a realizzare una bad bank nazionale (di cui ho parlato diffusamente qui e qui).
Senonché, questa bad bank - per non violare le disposizioni che vietano gli Aiuti di Stato - dovrebbe acquistare le sofferenze degli Istituti italiani a prezzi non di molto superiori a quelli di mercato, quindi cartolarizzarli e piazzarli sul mercato (si spera, a questo giro, non al retail). Il gioco potrebbe funzionare, se non fosse per il problema della valutazione della congruità del prezzo di cessione degli NPL, per cui il nocciolo della questione è in realtà proprio sulle modalità per rendere gli NPL delle banche più appetibili e, dunque, più "costosi" (cioè, se la si vuole vedere dal lato opposto, meno minusvalenti). Il problema non si pone evidentemente per le tranche senior della cartolarizzazione (quelle che includono crediti problematici, ma di "più facile" recupero), che possono essere oggetto di garanzia statale (ricorderete la GACS), bensì per quelle junior e mezzanine.
L'esperienza fallimentare di Atlante discendeva proprio da questo problema. Il Piano JP Morgan su Mps prevedeva proprio l'acquisto a prezzi importanti dalla tranche mezzanine degli NPL.
Comunque, cosa ci propone la Commissione? Di rendere ancora più veloci le procedure di recupero dei crediti. Cioè di buttare più velocemente fuori di casa i mutuanti morosi e fuori dai capannoni gli artigiani in ritardo con le rate. Ah, però.
Sinceramente, a me non dispiacerebbe stamparmi il nuovo art. 2929-bis c.c., il D.L. 18/2016 (di cui ho parlato qui), il nuovo art. 40 del Testo Unico Bancario, il D.L. 59/2016, farne un piccolo fascicolo arrotolato e batterlo sul muso di quei quattro burocrati dementi come si fa coi cagnolini piccoli, ancora poco educati.
Questi palliativi, in una situazione come quella italiana, in cui le banche - eccetto pochissime eccezioni - non riescono più a sostenere i margini a causa di troppe sofferenze e di una forbice dei tassi praticamente azzerata, non conducono a niente.
Anzi, a una cosa conducono, e cioè alla costituzione di una bad bank alla spagnola, in cui le terrificanti perdite degli Istituti sono coperti sì con soldi pubblici, ma non statali, cioè tramite intervento del MES, e con le condizionalità imposte dal MES, c'est-à-dire con la Troika.
In Spagna hanno usato una quarantina di miliardi. Press'a poco quello di cui avremmo bisogno noi.
In Spagna hanno anche la disoccupazione al 20%. Press'a poco quella che avremo noi

domenica 14 maggio 2017

Un phastidioso antecedente: la SGA

L'altro giorno mi sono imbattuto in un post assai phastidioso, il quale - ricapitolando la situazione di Montepaschi - innalza sin dal titolo ("Dicono sia colpa della UE. Ma è colpa della realtà") un peana alla nuova dea dei liberisti de' noartri, cioè la signora TINA (i cui sacerdoti, detto per inciso, sarebbero i frodatori di Uber o i monopolisti di Google o gli sfruttatori di lavoro minorile cinese di Apple, ma lasciamo perdere).
A dire il vero, in mezzo a tante fanfaluche, un pregio l'articolo ce l'ha: spazza via dal campo della discussione il terrorismo mediatico (e, a dire il vero, interessato) sugli esuberi più o meno inventati, i soldi del contribuente più o meno sprecati, e si concentra - ripercorrendo il folle piano messo su dal tandem Renzi-JP Morgan, poi miseramente affondato - sulla questione reale dell'affaire Monte dei Paschi, cioè il deconsolidamento dei crediti problematici.
Per chi vive in una comunità che ha sentito nella propria carne viva questa vicenda, si tratta della sensazionale riscoperta della ruota, o dell'acqua calda...
...ma è possibile che, nel resto dello Stivale, la precisazione - in un mare magnum di disinformazione - possa avere una sua importanza. D'altronde, anche sui giornali inizia a fare capolino la percezione che il problema serio, per Montepaschi, sia rappresentato proprio dalle modalità di cessione degli NPL. La banca, infatti, si trova a fronteggiare quello che potremmo definire il "Dilemma di Etruria": la ricapitalizzazione statale senza bail-in (ma comunque con il sacrificio di azionisti e obbligazionisti subordinati: il c.d. burden sharing) è possibile solo se l'Istituto è solvente, ma l'Istituto è o non è solvente a seconda del prezzo di valutazione delle sofferenze che incorpora.
Non ci vuole un genio per capire che, se l'UE ti impone di vendere le sofferenze, e se nel mercato mondiale delle sofferenze agiscono pochissimi player, il prezzo di vendita non può che essere di grande saldo (Semiserio cita Unicredit ed il fratello ottimista di TINA, FINO, come un grande successo. Beato lui). Con perdite enormi per i bilanci bancari. Il giochino ricorda un po' il circolo degli avvoltoi sugli animali moribondi nella savana africana, ma giustamente dobbiamo ritornare al contatto diretto con la durezza del vivere, e questo è un buon modo per farlo.

Dov'è che, diciamo, sbaglia il sagace autore del post che si commenta? Nel confondere norma e natura, cioè nel cadere proprio nell'errore che imputa agli altri. La crisi delle nostre banche non è colpa del destino cinico e baro, né di una presunta congenita incapacità italiana. Semiserio se lo metta bene in testa. La principale responsabilità è dell'attuale sistema giuridico (lato sensu inteso), per lo più di matrice non interna, spesso latentemente anticostituzionale, sicuramente sbagliato. Sba-glia-to.

Ne abbiamo parlato mille volte.
Molte banche italiane hanno gravissimi problemi in buona misura a causa degli squilibri economici e finanziari indotti dall'UEM. Le banche italiane sono oberate di sofferenze principalmente come conseguenza delle politiche di austerità che hanno aggravato, in termini di durata e di intensità, la grave crisi mondiale nata nel 2008 negli Stati Uniti. L'enorme quantità di Titoli di Stato acquistati subito prima della crisi dello spread (e che ora sono una bomba a orologeria in tanti bilanci) furono la risposta alle c.d. politiche monetarie non convenzionali (v. per esempio qui), che mettevano sotto pressione i margini operativi degli Istituti.
Questi gravissimi problemi, d'altronde, non possono essere risolti quasi esclusivamente a causa delle demenziali disposizioni di matrice leuropea. Quando un Istituto è in crisi, la Direttiva BRRD - imponendo il coinvolgimento nell'eventuale salvataggio non solo gli azionisti, ma anche gli obbligazionisti senior e al limite i correntisti - comporta l'immediata fuga dei depositi e l'impossibilità di vendere al pubblico ulteriori strumenti della banca, che precipita in una spirale difficilmente arrestabile. Queste dinamiche - unitamente a requisiti di patrimonializzazione sempre più elevati - impongono aumenti di capitale o che il mercato rifiuta (Mps) o che vedono, come principali acquirenti, fondi d'investimento (cioè soggetti esteri più interessanti a dividendi immediati, che a solidità nel medio periodo).
Una soluzione sensata esisterebbe e sarebbe tutto sommato banale: un intervento dello Stato da un lato volto a garantire la solvibilità degli Istituti senza coinvolgimento dei risparmiatori, dall'altro teso a risolvere, con un'operazione di sistema, questioni strutturali come il peso attuale degli NPL nei bilanci degli Istituti.

Ma non si può. Si tratterebbe di un Aiuto di Stato e, dunque, di una violazione della concorrenza, questa specie di vergine dal candido manto idolatrata dalla Commissione UE.
In passato abbiamo scherzato sulla pervasività di queste disposizioni antitrust, una specie di passe-partout utilizzata dai tecnocrati di Bruxelles per ingerirsi in qualsiasi decisione discrezionale dei Parlamenti e degli Esecutivi di Stati (un tempo) sovrani. Ad esempio:

Oppure, ampliando il discorso (siamo un anno prima del referendum del 4 dicembre, tanto per dire quanto sono ovvi e prevedibili certi leader politici):


Fino alla geniale generalizzazione, come al solito, del Pedante.

Unica eccezione (anche in questo caso, fino al 4 dicembre 2016):
Ma ora, sinceramente, di scherzare non mi va più. La situazione è troppo grave per non essere anche seria, soprattutto ove si consideri la verità economica sotto il manto semantico: divieto di Aiuto di Stato significa divieto di autonoma politica industriale.

Segue esempio edificante (forse).

Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, amministratore del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato per un caso di corruzione. Il 12 gennaio 1993 Bettino Craxi si dimette da segretario del Partito Socialista. In mezzo, Tangentopoli. Il 28 giugno 1992 entra in carica il primo governo Amato, il 28 aprile 1993 il governo Ciampi. È l'inizio dei governi tecnici, Cioè la fine della politica.
Con la solita scusa della corruzione, delle difficoltà economiche dell'Italia (il governo Amato è quello della patrimoniale e della prima riforma delle pensioni, poi bissata da Dini nel 1995 e definitivamente perfezionata dalla sempre amata Fornero), di una certa spending review ante litteram (questi giusto per dire come il frame sia sempre lo stesso, e lo sia da svariati lustri), viene emanato il D.L. n. 96 del 1993 (notare anche lo strumento giuridico d'urgenza), che impone la cessazione - dalla sera alla mattina - dell’intervento straordinario del Mezzogiorno, cioè di incentivi annuali per quasi 14.000 miliardi di Lire del tempo. Austerità!
O quale sarà stato il risultato di questa bella pensata? Crisi sistemica del tessuto imprenditoriale meridionale, fallimenti a catena, incremento esponenziale delle sofferenze del Banco di Napoli, principale Istituto del Sud Italia già di per sé non proprio in tranquillissime acque.
In questa situazione così rosea, ecco intervenire la Banca d'Italia che, in modo molto solerte, vuole - come si usa dire oggi - "vederci chiaro", e dunque piazza un'ispezione severissima (per molti, semplicemente errata) che azzera il capitale della Banca.
Vi ricorda qualcosa? No...? Ah, ecco...
Per rendere il parallelo ancora più credibile, non può mancare la (più o meno) interessata cassa mediatica. Dice Mariarosa Marchesano, giornalista economica che ha lavorato per il Mondo: "all'epoca i media contribuirono a diffondere e amplificare l’immagine di un Sud assistito dallo Stato e di un Banco di Napoli simbolo di uno dei sistemi clientelari più ramificati della prima Repubblica. Il crac del Banco fu dunque vissuto come inevitabile. Poca rilevanza, per esempio, ebbe sulla stampa quella che fu la principale causa della crescita delle sofferenze e cioè la cancellazione improvvisa e non programmata e graduale dell’intervento straordinario che mandò sul lastrico migliaia di imprese. Ma quei crediti sono stati quasi tutti recuperati".
Comunque, secondo il noto principio della rana bollita, all'epoca lo Stato qualche cosina contava ancora, per cui, già a novembre, fu messa su una società per la gestione degli attivi deteriorati del Banco (oggi scriveremmo bad bank per la gestione degli NPL: anche da questo si misura la progressiva decadenza di un popolo), presto regalata, insieme alla parte "sana" dell'Istituto (da cui è estromessa la fondazione, previa ricapitalizzazione da 2.000 miliardi di Lire) alla BNL, in sostanza per risanarla (il prezzo fu di 61 miliardi di Lire: solo qualche mese prima il Banco aveva venduto 50 sportelli a 290 miliardi, mentre BNL ne acquisiva 757, cui si aggiungeva il credito verso SGA, garantito dallo Stato, per la cessione delle sofferenze, una partecipazione importante in Banca d'Italia ed enormi crediti fiscali). Non a caso, dopo un paio d'anni, BNL rivende il Banco - e SGA - al Sanpaolo per 6.000 miliardi di Lire. Cento volte il prezzo d'acquisto...
Comunque, con Legge n. 588 del 1996 nasce la “SGA” (Società Gestione Attivi S.p.A), società sì privata ma con due peculiarità molto importanti: sui suoi proventi è sancito un diritto a favore della fondazione, i suoi titoli sono girati in pegno al Tesoro.
Anche sui risultati della SGA ha indagato di recente la Marchesano, che ha scritto anche un libro di discreto successo. In breve: nei primi cinque anni, la società accusa perdite per quasi 4 miliardi di Euro (di cui, però, circa la metà a causa degli interessi passivi incassati dal Banco di Napoli, cioè da BNL prima e da Sanpaolo dopo, in relazione al finanziamento al 9,6% concesso a SGA per la cessione degli NPL al 70% del loro valore), ripianate peraltro da Banca d’Italia grazie alla c.d. "Legge Sindona" (prestito all'1% di Banca d'Italia garantito da Titoli di Stato: anche questo, ricorda qualcosa?). Ma dal 2003 cambia tutto: SGA recupera quasi il 95% del valore dei crediti inizialmente trasferiti (quasi 6 miliardi e mezzo di Euro) ed accumula - dati a fine 2015 - oltre 450 milioni di Euro di liquidità.
La vicenda sarebbe già esemplare, ma non finisce qui.
Il 3 maggio 2016, il Mef acquisisce da Intesa - per soli 600.000 Euro - il 100% delle azioni della SGA, esercitando il vecchio pegno del 1996 e - dicono le indiscrezioni di stampa - ne utilizza le risorse per alimentare il fondo Atlante 2, quello con cui il governo ha cercato di mettere una pezza alla situazione fallimentare delle 4 banche salvate (?) a dicembre 2015 e, soprattutto, delle 2 venete (Popolare di Vicenza e Veneto banca). In sostanza, risorse scippate al Mezzogiorno (e, in particolare, alla fondazione, il cui diritto agli utili di SGA è stato elegantemente omesso) che vanno a ripianare situazioni finanziarie imbarazzanti in Centro e Nord Italia. Ci rifletta, chi è un po' Fava non solo di nome, ma anche di fatto.

Quante verità.
Privatizzazioni sbagliate a svantaggio delle comunità locali. Politiche di spending review che distruggono sistemi economici già fragili. Valutazioni degli NPL fatte a capocchia, certo molto interessate e mediaticamente coperte. Vendite fatte in fretta e furia dallo Stato a privati a prezzi di saldo.
Ma anche la creazione di una bad bank efficace, la realizzazione di un "piccolo QE" ante litteram gestito dalla Banca d'Italia, la stabilizzazione di Istituti importanti per il Paese. E senza coinvolgere i risparmiatori.

E poi la verità più antica e importante di tutte. E cioè che "la storia insegna, ma non ha scolari".

martedì 9 maggio 2017

Aut Aut

Il 5 maggio era l'anniversario della morte di Napoleone (e questo lo sanno tutti coloro che si sono sciroppati l'Ode a memoria), ma anche (dato invece assai meno noto) della nascita di Søren Kierkegaard.
Duplice evento dalle connotazioni infauste che, probabilmente, spiega anche certe mitologiche sventure sportive. Ma non divaghiamo.
Lo spiacevole ricordo del non compianto filosofo danese si è dunque sovrapposto al triste spettacolo dei tempi moderni, in cui - grazie alla clava del vincolo monetario, con i suoi effetti deflazionistici nei confronti dei lavoratori a vantaggio delle classi più abbienti, e della criminalizzazione del debito pubblico - i diritti primari (lavoro e sicurezza sul lavoro, adeguata retribuzione, assistenza sanitaria, diritto all'abitazione, diritto all'istruzione) e sociali (diritti sindacali, diritti di partecipazione, diritti politici non solo nominali), ancorché costituzionalmente garantiti, sono stati sostanzialmente abrogati sia nella prassi legislativa sia nella lotta politica, per essere sostituiti, in entrambi gli ambiti, da quelli che Luciano Barra Caracciolo definisce "diritti cosmetici". Diritti, questi ultimi, tutti volti ad affermare l'assoluta libertà degli individui uti singuli (e, come tali, fondamentalmente nichilisti), e di cui si giovano per lo più proprio le sullodate classi abbienti (che, ovviamente, hanno già totalmente risolto ed acquisito i diritti negati agli altri), sia per appagare i propri desideri, sia - più subdolamente - perché permettono di cooptare possibili "nemici di classe" presentando determinate battaglie come "scontri di civiltà" tra conservatori (normalmente vecchi e non istruiti) e progressisti, oltre che di di illudere le masse sul fatto che dei diritti primari e secondari non si debba semplicemente più parlare, in quanto "diritti acquisiti".
E pazienza se questa impostazione, di fatto, riduce gli spazi di democrazia, essendo ormai passato il concetto hayekiano secondo cui "la democrazia avrebbe un compito... igienico" senza "essere un fine in sé", potendosi la stessa ricostruire come "norma procedurale il cui scopo è quello di promuovere la libertà" senza per questo potersi "assolutamente porre allo stesso livello della libertà".
Così, se l'introduzione in Costituzione del principio del pareggio di bilancio - cardine del c.d. fiscal compact - avviene senza neppure un serio dibattito parlamentare, stante il clima da "fate presto!" ingenerato soprattutto dagli operatori della televisione e della carta stampata, mentre il Jobs Act merita a mala pena una mezza giornata di sciopero (salva poi la ricostruzione di una fittizia verginità, da parte del sindacato, con la presentazione di un quesito abrogativo scritto volutamente coi piedi), ci si batte e ci si accalora per tutto e per il suo contrario: diritto alla maternità o paternità per gli omosessuali (con punte di surrealismo nella polemica fra gay e lesbiche), ma anche completo diritto di aborto; diritto alle più varie forme di unione ma anche al divorzio breve se non brevissimo (fino a forme più simili al ripudio di memoria biblica); diritto alla vita ma anche al suicidio (e tralascio qui i cortocircuiti mentali di chi riesce, allo stesso tempo, a giustificare il velo islamico ed a condannare forme più o meno reali di maschilismo occidentale). Il tutto, in un unico frullatore soprattutto mediatico, in cui - in sostanza - il capriccio di un momento diviene norma per sempre.
Il gioco è anche troppo scoperto: "la distruzione neoliberistica del welfare State si accompagna, allora, sul côté dei costumi, all'aggressione - anzitutto ideologica - ai danni dell’istituto familiare, in nome della precarizzazione integrale delle esistenze e della deeticizzazione, affinché l’individuo sradicato resti completamente solo e in balia delle leggi della competitività universale, mero consumatore sradicato, senza identità e senza storia, senza radici e senza progetti", dice Fusaro. Il consumatore non ha una Patria, non ha una cultura, non ha vincoli: è il mezzo di produzione ideale, con totale libertà di circolazione nel mercato unico.

E però, mi sono detto, qui c'è una contraddizione di fondo.
Da un lato si propone all'individuo un modello di vita in cui ogni desiderio si trasforma in possibilità, dall'altro non gli si danno gli strumenti economici per rendere effettivo questo modello.
Per un po' questa discrasia può essere artificialmente riempito con connessioni internet più veloci, biglietti aerei low cost, abolizione del roaming sulle chiamate internazionali, al limite l'Erasmus. Ma con la continua polarizzazione dei redditi, effetto naturale dell'UE in generale e dell'UEM in particolare, queste cose non basteranno più ed il re sarà veramente nudo.

Ed ecco spuntare Kierkegaard.
Cifra dell'uomo, per il filosofo, è "la disperazione, motivata dalla costatazione che la possibilità dell'io si traduce necessariamente in una impossibilità. Infatti, l'io è posto di fronte a una alternativa: o volere o non volere se stesso. Se l'io sceglie di volere se stesso, cioè di realizzare se stesso fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza [cioè, con la propria mancanza di mezzi, N.d.R.] e con l'impossibilità di compiere il proprio volere. Se, viceversa, rifiuta se stesso, e cerca di essere altro da sé, si imbatte in un'impossibilità ancora maggiore. Nell'uno come nell'altro caso, l'io è posto di fronte al fallimento" (così per esempio Mori, Cambiano).
L'uomo cerca di sfuggire alla disperazione attraverso tre stati: quello estetico (cioè amorale ed edonista), quindi quello etico (che però finisce per deteriorarsi nel conformismo), infine quello religioso. Ma l'uomo di oggi ha cancellato la religione e il massimo conformismo è rappresentato proprio da una vita meramente estetica, come richiesto dal mainstream. E l'uomo esteta di oggi, al contrario di quello della teoria kierkegaardiana, non cadrà nella noia, o soltanto nella noia, ma nella rabbia, o quanto meno in una noia terribilmente rabbiosa.
Forse che l'attuale liberismo sta costruendo le condizioni per la sua distruzione violenta?
Forse il tentativo di sostituire il desiderio dell'uomo a qualsiasi altra norma - religiosa o etica che sia - a vantaggio di chi tutto pensa di potersi permettere, porterà dal delirio di onnipotenza alla caduta rovinosa?
Rivedremo una nuova torre di Babele, non solo nelle forme ma anche nell'avverarsi di un simbolo? La hybris che accecava gli eroi tragici dell'antica Grecia accecherà anche i tristi burattini delle élites di oggi, che la Grecia moderna hanno deciso di massacrare? La progressiva dissoluzione dello Stato, propagandata come rimozione di un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell'individuo, porterà invece all'anarchia violenta e alla distruzione dell'attuale sistema socio-economico?

Ci ho pensato, per un po'. Poi, però, ho dovuto concludere che stavo sbagliando. L'uomo è votato all'impotenza e alla disperazione? Sì. L'uomo si ribellerà a questo stato di cose, così alienante? Assolutamente sì. Creerà un "mondo nuovo"? No. Purtroppo assolutamente no.

In primo luogo, infatti, questa terribile rabbia mescolata a noia ed impotenza, con ogni probabilità sarà rivolta verso se stessi, o verso altri riconosciuti come simili a sé. Perché l'io, abbeverato a questo edonismo sfacciato, quando non può realizzarsi, si odia, e odia chi lo rappresenta. La grande abbuffata o Dillinger è morto sono rappresentazioni plastiche di questo amaro finale, filmate da una specie di Kierkegaard ateo e, pertanto, compiutamente nichilista.
Oppure, anche ove sfoci in ribellione aperta, si concluderà comunque a favore delle attuali élites: se si tratterà di ribellione elettorale, mediante l'imposizione di sistemi che mortificano la democrazia reale tramite sistemi lato sensu non proporzionali (in questo senso, anche in Italia abbiamo visto combattere la "cattiva battaglia" per il maggioritario); se si tratterà di ribellione violenta, più limpidamente, con la forza del denaro e delle armi.
E la battaglia, si badi, sarà persa non solo sul terreno del voto o dello scontro, ma anche su quello delle idee. Perché - parliamoci chiaro - a questa noia, a questa rabbia, a questa frustrazione, non fa riscontro alcuna costruzione dogmatica, nessun sistema di pensiero, nessuna impalcatura filosofica, o quanto meno ideologica, che permetta di proporre un'alternativa alla "fine della storia" (questo concetto, dal punto di vista della lotta politica, è stato espresso benissimo da Buffagni su Goofynomics).
Ma, soprattutto, chi perderà sarà lo Stato, inteso come entità politica in cui si confrontano e si compongono i conflitti tra classi sociali. E, se perde lo Stato, perde la civiltà, a favore della legge della giungla, cioè della legge del più forte.
Che non siamo noi.