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lunedì 30 maggio 2016

#IoVotoNo (e controllo pure!)

Il referendum di ottobre si avvicina e ciascuno, a seconda delle proprie inclinazioni verso l'ottimismo, l'equilibrio, o il pessimismo cosmico, fa le sue previsioni.
Io - col pessimismo dell'intelligenza ma l'ottimismo della volontà - temo che, alla fine, Matteo ce la faccia grazie al sostegno, più o meno esplicito, del M5s per ragioni tattiche (e certe dichiarazioni ad minchiam come quelle qui a fianco, sebbene vi sia chi le interpreti "in positivo", almeno per ora mi rafforzano in questo pensiero) e di Forza Italia per ragioni personali (di B., ovviamente).
Altri, invece, considerano i dati "storici" dell'ultimo referendum (quello sulle trivelle) per concludere che ci sono almeno 13 milioni di antirenziani che, con ogni probabilità, anche a ottobre faranno il loro bravo dovere. D'altronde, argomentano, il metodo del divide et impera che Renzi applica a ogni contesa elettorale è molto utile alle elezioni (soprattutto a quelle a doppio turno come sarà, o dovrebbe essere, il c.d. Italicum, aggiungo io) ma molto rischioso in un referendum dove non si vota solo per, ma spesso contro. Che fra questi vi sia anche Fabio Dragoni, comunque mi conforta molto.
Tutti, comunque, quali che siano le nostre previsioni, abbiamo un cruccio.
Poiché, come si sa, alla fin fine anche questa riforma costituzionale ce la chiede l'Europa (o, come dice madama Boschi, Napolitano, che è poi lo stesso), c'è qualche probabilità che si applichi anche alla consultazione di ottobre il noto paradigma Juncker (anche noto come paradigma del Marchese del Grillo): votate come vi pare, ma poi tanto la decisione è già stata presa altrove, e in culo la democrazia.
La suddetta affermazione - che per il fatto di provenire da un noto alcolista non è meno vera - si declina normalmente in due modi.
Il primo è la via olandese al referendum, per cui se votate come ci pare bene, altrimenti non ce ne importa una beata e facciamo pari pari come se non si fosse neanche votato.
Siccome tutte le strade, come si sa, portano a Roma, la via olandese è molto spesso anche la via italiana: in passato si ricordano casi tipo quello relativo alla abrogazione del Ministero dell'agricoltura, ma è d'attualità la democraticissima posizione piddina anche sulla questione della c.d. "privatizzazione dell'acqua" (il referendum del 2011 aveva infatti sonoramente bocciato l’obbligo per gli enti locali a indire gare d’appalto, per l'affidamento dei servizi pubblici locali essenziali, aperte a soggetti pubblici, privati o misti pubblico-privati dove i privati detenessero almeno il 40% del capitale azionario: a questo proposito, lato gas, rimando a un interessantissimo pseudo-paper, definizione sua, del Pedante).
Il secondo modello di deturpamento della democrazia per il più alto fine del fogno europeo - di norma utilizzato quando la consultazione è troppo significativa per essere semplicemente ignorata - può essere così sintetizzato: siccome non si può fare continuo strame della volontà popolare, allora la volontà popolare la stabiliamo noi. Si tratta di un sistema un po' complesso ma efficace, recentemente sperimentato in Austria dove, tuttavia, non è stata data prova della proverbiale teutonica efficienza.
Pur con tutti i suoi difetti, comunque, il modello è sicuramente esportabile.
E allora? Allora muoviamoci.
Certo, dove possibile, ci saranno i rappresentanti dei partiti e dei comitati schierati per il no, ma sicuramente non potranno avere la capillarità che sarebbe necessaria (quella ce l'ha solo il PD, e la maggior parte degli attivisti del PD sarà, giocoforza, chiamata a difendere - io credo controvoglia - le ragioni del sì).
Torna dunque utile una costatazione in passato utilizzata come cavallo di battaglia da Beppe Grillo (ma ora, mi pare, molto meno: potrei però sbagliarmi) e che in questi giorni mi è stata lodevolmente ricordata da un amico veramente benemerito.

Ogni elettore può andare al proprio seggio - solo al proprio - e chiedere di assistere allo spoglio delle schede (v. sotto: "alle operazioni di scrutinio possono assistere i rappresentanti dei partiti o dei promotori e gli elettori della sezione").
Ogni elettore. Cioè anche io. Cioè anche voi.
Assistere significa guardare, ovviamente, non intervenire o polemizzare: ma la sola presenza di qualcuno in veste di controllore, di per sé, sicuramente, dissuade da qualsiasi tentazione di "indirizzare", almeno in parte, il voto.
(Per i dementi: dico "indirizzare", non fare brogli. Parlo della crocetta messa un po' torta, quella che insomma quasi quasi si potrebbe annullare, e così via. L'Italia è un Paese ancora abbastanza democratico per considerare di riempire schede in bianco, anche se certi ragionamenti si iniziano a sentire).


E dunque.
Dunque firmiamo l'appello di Indipendenza e Costituzione.
Andiamoci ai seggi in massa, a votare. E poi torniamoci, a controllare.
Votiamo no (per tutti i motivi che tanti hanno indicato e che anche io, su questo blog, nei prossimi mesi cercherò il più possibile di veicolare).
Controlliamo che i nostri voti valgano, come devono valere.

SE QUI NON CI MUOVIAMO, FINISCE CHE PRIMA O POI LA QUESTIONE SMETTERÀ DI PORSI.

martedì 24 maggio 2016

Altre nuove dal mondo di Atlant(id)e

Dunque, pare che Banca d'Italia si sia accorta che, forse, applicare in modo sostanzialmente retroattivo la disciplina del bail-in non sia stata proprio una buonissimissima idea.
Effettivamente, parrebbe proprio di no (per chi non è pratico: gli effetti del bail-in sono quel picco negativo tra gennaio e febbraio 2016).


Ora, non ci sarebbe neanche bisogno di parlarne, se non fosse che personaggi anche di una certa rilevanza, in trasmissioni di una certa rilevanza, continuano a sostenere - con inusitata faccia di tolla - che "il governo ha fatto un ottimo lavoro con le banche" (sostengono anche altre sesquipedali cazzate, ivi compresa patrimoniale, tassa di successione semi-espropriativa, sostegno alla deforma costituzionale di Maria Etruria, e così via: ma non si può polemizzare su tutto).
Dunque, si diceva: il D. Lgs. n. 180 del 2015 che ha introdotto in Italia, senza alcuna norma transitoria, il bail-in è un ottimo lavoro. Anche la risoluzione delle quattro banche di dicembre è un ottimo lavoro. Per non dire del trattamento riservato agli obbligazionisti subordinati delle sullodate banche, o delle riforme delle Popolari (che ha portato ai casi di studio della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca) e delle Banche di credito cooperativo (che permetterà a colossi del credito come Chianti Banca e la Cambiano di togliersi grandi soddisfazioni).
Certo, ma la Direttiva BRRD è uguale per tutti, mica potevamo non adeguarci! Vero. Anzi no.
Perché solo degli incompetenti, o dei venduti, non avrebbero potuto capire che queste norme avrebbero avuto impatti diversi sui diversi sistemi bancari dell'Unione, colpendo in particolare quelli dove le maggiori banche detengono quantità significative sia di bond propri, sia di titoli di Stato, e dove - per tradizione - molti altri di questi bond sono piazzati anche al retail domestico. Ogni riferimento al caso italiano è puramente voluto.
E talmente ovvio, che ci è arrivato pure il Financial Times (quello che normalmente scrive due anno dopo quello che un Alberto Bagnai scrive due anni prima).
Comunque queste cose ce le siamo già dette. Però, ogni giorno qualche nuova chicca non manca.
Il Fatto Quotidiano, come spesso gli capita in questo settore, ha fatto lo scoop.
Pare, e dico pare, che la cessione delle quattro new bank nate dalla "risoluzione" di Banca Marche, Banca Etruria, CR Ferrara e CR Chieti si sta rivelando più complicata del previsto (ricordo che il primo termine "segreto" fissato dalla BCE per la cessione era fine aprile scorso, mentre il nuovo termine, ancora più "segreto", è settembre prossimo), con conseguente riduzione del prezzo di vendita complessivo a circa 700 milioni di Euro, rispetto al miliardo e 800 milioni pagato dal fondo di risoluzione lo scorso novembre.
Ricorderete la polemica di una esageratamente bassa valutazione (al 17%) delle sofferenze. Vero. Il tasso di recupero è più o meno del 22%. Senonché, i 400 milioncini così recuperati sono serviti a coprire nuovi crediti deteriorati, a suo tempo non scoperti.
Forse qualche considerazione su questo speciale e precisissimo colpo di fortuna andrebbe fatta, qualche domanda posta.
Non solo: come mai quattro banche sostanzialmente risanate e con filiali in zone tutto sommate floride d'Italia non hanno pretendenti? Perché - grazie alla perdita di fiducia della clientela in brand che sono ormai associati a una truffa di Stato - le new bank hanno perso grandi quantità di depositi e, con essi, gran parte della loro redditività.
Ma secondo i manager che piacciono alla gente che piace, è un ottimo lavoro.
Non finisce qui. Il salvataggio delle quattro banche è stata finanziata principalmente attraverso due linee di credito concesse dal sistema bancario italiano (un miliardo e seicento milioni a lungo termine e due miliardi e mezzo a breve, che avrebbe dovuto essere rimborsato addirittura a fine del 2015). Se le quattro banche salvate fossero vendute ad un prezzo non sufficientemente elevato da consentire il rimborso della linea di credito al sistema bancario, il fondo di risoluzione potrebbe richiedere agli istituti ulteriori contributi straordinari, con conseguenze devastanti sulla redditività (e sulla tenuta) dello stesso.
Ripeto: però è un ottimo lavoro.

Aggiungiamo anche gli aumenti di capitale di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza, quest'ultimo che per poco non trascina Unicredit (già messo male di suo e affamato di capitali come ai tempi belli di Profumo) in una crisi quasi irresolubile. Atlante ci ha messo una pezza, ma come tutte le pezze para poco, e strappa il vestito.
Infatti...
Di conseguenza...
Anche in questo caso, ottimo lavoro. Davvero ottimo. Splendido.
(Chissà che ne pensa l'amicone di Matteo Guzzetti? Siccome io tengo a questo Paese e rifiuto la logica del tanto peggio tanto meglio, ovviamente non spererò mai, ma mai eh!, in un aumento iperdiluitivo che trascini Cariplo dove è stata trascinata la Fondazione Montepaschi).

Le belle notizie, però, non vengono mai da sole. La seconda è questa.

Chiariamo.
Pare che Ministero delle Finanze pensi di vendere a CDP (cioè a se stesso e alle fondazioni bancarie) il 30-35% di Poste Italiane, la restante parte ai soliti noti (normalmente definiti dai giornali "il mercato"). Ovviamente, regole severissime (!) eviterebbero conflitti di interesse, tipo quello per cui CDP emette svariati prodotti postali, distribuiti appunto da Poste. Ma sono dettagli che i liberisti un tanto al chilo non curano.
Perché una cazzata simile?
Perché CDP è deconsolidata rispetto al bilancio dello Stato e dunque permetterebbe al governo di centrare gli obiettivi, richiesti dalla UE, in materia di privatizzazioni. Gli obiettivi richiesti dalla UE in materia di privatizzazioni. Meditate la frase, per piacere.
Ma non solo.
Poste è un'impresa che fa molti utili e stacca cedole importanti. Dunque lo Stato, vendendo a CDP una quota significativa della società, incassa subito una somma sostanziosa (probabilmente superiore rispetto a quella dell'IPO in borsa), ma si priva di flussi di dividendi annui significativi, che saranno ridistribuiti in parte alla CDP e in parte alle fondazioni bancarie, cioè a soggetti privati.
E perché mai?
Perché, dal canto loro, le fondazioni accettano che la redditività "propria" di CDP sia messa a dura prova da una serie di investimenti "di sistema", come si usa dire, come Atlante, o Saipem, cui presto si aggiungeranno altre avventure sicuramente fallimentari, tipo l'Ilva (per dire) o la mitologica banda larga (gioco dell'oca qui accanto).
Dunque CDP da una parte ci guadagna e dall'altra ci perde. Così le fondazioni. Lo Stato ci perde. Cioè ci perdono gli italiani.
Ma non è una novità.


P.S. dal resto del mondo. Deutsche Bank sta messa sempre meglio.

Se salta succede un cataclisma, altro che Lehman.
Ma non salterà. E non perché, come qualcuno crede e come io voglio sperare, la Germania o uscirà dall'UEM per nazionalizzarla oppure l'UEM cambierà per permettere alla Germania di intervenire con Aiuti di Stato.
No.
Le regole saranno violate, come al solito. Ma in modo subdolo. Si metteranno massimali ai Titoli di Stato detenibili dalle banche. Si creeranno regole ancora più stringenti per le banche tradizionali. Si metterà insomma in crisi il sistema italiano, bancario e statuale, quello spagnolo, forse anche quello francese. Deutsche Bank calmerà nel breve le acque con la solita ELA della BCE, con cui ricomprerà vagonate di titoli propri sul mercato a prezzo stracciato. Il panico sposterà grandi masse monetarie di nuovo verso nord.
La Germania si salverà. Ancora.
Nel resto d'Europa però saranno solo macerie.

Cosa succederà dopo, non lo so.

sabato 21 maggio 2016

Palmira

Con congruo ritardo (ma il testo è lungo e io, fra altre mille cose, non sono neppure un dattilografo) volevo celebrare la ripresa di Palmira da parte delle truppe siriane e russe.
Ho scelto questo testo, sia per la sua intrinseca bellezza artistica (motivo per cui l'ho riportato per intero: si tratta di un capitolo di questo libro), sia per le fini notazioni archeologiche e architettoniche, sia - soprattutto - perché rende in pieno tutto il fascino di questa città incredibile, permettendo così - a un tempo - di aumentare il rammarico di ciò che abbiamo perso, ma anche di farci comprendere appieno il perché di tanto accanimento.


Et sola in sicca secum spatiatur arena
Virgilio, Georgiche, l, 389

Pel cielo dalle molte torri! (il Corano, LXXXV, I)

Palmira, a volte mi sembrava d'esserci già stato, per quanto avevo letto delle sue rovine, studiate le sculture nei vari musei del mondo, ma non mi sarei potuto rassegnare a non vederla sul vero. Tuttavia non è un viaggio da nulla, quasi trecento chilometri da Damasco e, come potei vedere, più di tre quarti senza strade, nel deserto. Speravo che in periodo di Fiera internazionale, e con vari italiani sul posto, fosse possibile di dividere il costo notevole del viaggio in automobile: fu speranza vana. L'italiano all'estero non pensa che a mangiare, per dire – con ragione il più delle volte – che si mangia male, farsi vedere dai connazionali in locali di lusso, cambiare vestiti. Una signora madreporica all'ultimo momento pensò di dovere aver paura di stancarsi, consigliata da un altro connazionale anziano, vanesio come si conviene all'italiano fatuo, scapolo e professore d'università. Gli mancava solo la barba a quest' imbecille, per compiere il ritratto della propria insulsaggine: parlava del viaggio a Palmira come di un viaggio nell'ignoto dell'autista come di un pilota di Suez, del deserto come di un mare tumultuoso di sabbia. Avrei dunque visto il deserto di sabbia, come nei film: e l'avrei visto da solo, perché, con l'incoraggiante prospettiva del professore, nessuno si mosse.
Alle quattro e mezzo di mattina si partì. Appena usciti da Damasco la campagna, ancora oscura sotto il cielo altissimo, ricordava la campagna fitta di alberi verso Nocera dei Pagani, a Napoli, quando si lascia la strada di Pompei e la valle, stringendosi incontro a Cava dei Tirreni, rigurgita di verde, sovrapponendosi a tre piani, più alto di tutto quello dei noci. Vedevo le groppe dei meli e, sotto, un verde arruffato. Ma durò poco e poco durò la strada asfaltata. L’autista non capiva quasi una parola delle lingue in cui bene o male potevo esprimermi, e per fortuna non tentò neppure di accendere la radio. Parlava col figlio giovinetto che s’era portato e che, quando l’avevo visto, mi ero sentito sollevato da un certo peso: perché fare quasi seicento chilometri nel deserto con uno sconosciuto, siriano per giunta, nel periodo del Canale di Suez, quando non si sa mai da che parte si mette il vento, e se per caso da un momento all’altro non ti trovi in mezzo a un pogrom sul tipo di quello fatto dai turchi ai greci di Costantinopoli, pochi mesi fa, tutto ciò non prepara proprio a una gita di piacere. L’innocente presenza del figlio mi metteva allora l’animo in pace.
Sopravviene a me, soprattutto se percorro regioni sconosciute, una forma di continuato colloquio in cui riconosco il miglior frutto del viaggio.
Il gusto del viaggio, ha scritto da Goethe, non consiste nell'arrivo ma nel viaggiare: ed è sentenza, come gliene scappava, ovvia e profonda, che il  nostro tempo, preso dagli insulsi viaggi in aereo, non giunge più a comprendere. Il viaggio in aereo abolisce il viaggio, non è che uno spostamento. Ora dite a un albero di passare istantaneamente dai fiore al frutto, e vedrete se vi dà retta. Il viaggio in aereo è questa distanza raccorciata dal fiore al frutto, questo sconsiderato porre l'accento sull'arrivo invece che sul viaggio. Ma togliere il viaggio come distanza effettivamente percorsa sulla terra o sul mare è abolire il viaggio, è vivere superficialmente in un mondo opzionale che ti si affaccia indifferenziato dal giro dell’orizzonte: Roma, Parigi, Damasco, Palmira, non sono altro che bersagli per codesto tiro a segno, che con un colpo solo butti giù. Mentre nulla riattiva la storia come calcare le strade che l'hanno percorsa da secoli, le antiche rotte marinare, le piste. Arrivi, e questo arrivo è come se qualcosa di vivo nascesse: è come se una porta nel tempo si aprisse, ti regala l'impazienza e, al tempo stesso, la fine della tensione dell'attesa: è insomma, una cosa che accade e accade nella tua vita, ti appartiene come la tua mano o il tuo piede.
Un viaggio in aereo non è mai un accadimento tuo, nel senso che lo subisci, come ti siedi e subisci i ferri del dentista. Quando ti alzi da quella poltrona, dopo aver visto la terra capovolgersi nell'arrivo, ti senti liberato e ti trovi sgradevolmente in una città diversa da quella da cui sei entrato nell'aereo, come a svegliarsi. Il tempo passato nel bolide è un tempo che non conta, che non si somma ~ come non si sommano le ore di sonno nel computo delle ore che ti sono appartenute da sveglio.
Ormai s’era proprio nel deserto, ed era piano, liscio quasi, cosparso di una ghiaia così fina e sbriciolata da parere in giardino. Le piste erano vaghe. A un paesetto di quelli impastati col fango, era montato un beduino: senza neanche interpellarmi. Ci s’era fermati, l’autista aveva rimesso l’acqua nel radiatore, il bambino aveva mangiato una fetta di cocomero. Io ero rimasto a guardare una donna che impastava paglia triturata e fango. Era giovane e senza espressione: aveva quel costume, che sarebbe stato assai grazioso, con dei calzoni stretti di pannina a fiori, e la gala in fondo, poi una sottana più corta, la testa fasciata di veli neri. Impastava con gesti sempre uguali e secchi come chi fa la calza, impastava, al modo di venticinquemila anni fa, gli stessi mattoni di fango da seccare al sole per costruirci le stesse capanne basse e lunghe, che sulla costa dei monti sembrano, da lontano, dei gradini sconnessi. Impastava: una donna più vecchia era vigile, in piedi.
Quando si riprese il cammino, erano cominciate discussioni da non finire fra l’autista e il beduino. Evidentemente l’autista non sapeva la strada, il beduino la sapeva, l’autista non si fidava, e via fuori di pista, e poi indietro e poi avanti. Sembrava che appena ritrovata una pista avessero paura di farcisi cogliere. Eppure io non ero in allarme. Il deserto aveva ripreso la sua azione tonificante e io non mi sentivo mai fuori strada. Si andava e in quell'andare stava una ragione così forte per me, come di vedere Palmira. Lontani colli dai colori tenui, fra l’azzurro e il viola, come nel deserto hanno le alture: un uccellaccio del genere di un avvoltoio, che passò battendo le ali così piano che le vidi distintamente quando le chiudeva in giù, come qualcosa che pendesse: nessun’altra vita che quei radi e bassi cespugli che sembrano scopo e non sono. Poi si cominciò a vedere due forme bianche in distanza e che non si capiva cosa fossero, se rocce od altro. Finalmente si erano messi d’accordo, o così mi pareva, che bisognava far capo lì: avvicinandosi, si scoperse che erano enormi serbatoi, come gassometri. Si trattava dell’oleodotto che porta il petrolio dall'Iraq al Mediterraneo. Quel tale oleodotto che gli arabi intendevano far saltare (e l’hanno fatto) se non si dava vinta in tutto e per tutto a Nasser. Inopinatamente comparve anche la linea elettrica e si ritrovarono capre e cammelli, che mai ho visto con così poca roba da mangiare come là. Dall'oleodotto si apriva per poco una pista larga, assai più sconquassata del deserto nudo, e la valle livellata, immensa, senza ondulazioni si stendeva fino a certi lontanissimi monti. A un tratto vidi delle forme lontane come tende molto a punta, vidi delle striature d’un verde intensissimo. Erano masserie nel deserto dove, trivellando, era stata trovata l’acqua e ci avevano seminato subito il cotone, che era verde e già coi batuffoli aperti. Ma le case erano come quelle di Gerico, come quelle cioè che assomigliano ai trulli pugliesi, e solo che quei coni non erano uno o due, ma sei o sette, tutti in fila, e parevano piuttosto i rocchetti di certe vecchie filande. Nuove erano quelle fattorie, ancora in costruzione, e ancora in fattura si videro i mattoni crudi di fango e paglia. Il verde del cotone era rigoglioso come una fanfara. Poi riprendeva il deserto più magro e, dopo un poco, un’altra masseria, finché scomparirono del tutto. Le montagne invece si avvicinavano, si rinforzavano, perdendo l’azzurro ritrovavano colori forti, dall'arancione al viola, degradando da una parte e dall'altra, formando un valico. Nell'ampia incavatura, approssimandoci, apparve una torre diruta e poi altre, come calassero delle balze. Erano torri solitarie, non rilegate con mura, dall'una all'altra si vedeva nitido il declivio che scendeva. Erano torri rossastre, come rossastra era la roccia di quei monti, erano le torri mortuarie di Palmira.
Sembrò di passare per uno stretto, e s’accentuava il senso come di fondo prosciugato del mare, che suscita il deserto. Di qua e di là mozziconi di torri continuavano, ma anche qualcuna alta quasi, quasi intatta, di forme pure. In fondo si alzarono le file di colonne. Ma prima, avanti a tutti, su un colle a punta, un castello arabo, scapitozzato, dagli spigoli vivi come un cristallo. La china ripida, quasi a picco, tagliava il cielo. Improvvisa, foltissima, appena contenuta in un muro incerto, una distesa di palme e di ulivi, ma d’un verde così intenso che era più azzurro che verde.
Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, s’abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.
Per prima cosa volli vedere le tombe: bisognava camminare ed era bene scegliere le ore meno bollenti. Questa storia delle tombe di Palmira credo che sia quasi unica nell’antichità. Furono, i palmireni, i primi impresari di pompe funebri, i primi a concepire la costruzione e la vendita di tanti tombarelli sovrapposti; e, non contenti di scavarli, li costruirono in altezza. Questa è l’origine, d'altronde oscura, delle tombe mortuarie a quattro o cinque piani. Inutile dire che in una città che si reggeva tutta sul commercio, c’era anche lo speculatore che comprava in blocco dal costruttore, e poi vendeva a strozzo i loculi a chi ne aveva bisogno. C’è i documenti di tutto questo, come pure dei banchetti funebri ai quali era inteso che partecipassero anche i morti: in fondo poteva essere una comoda credenza per non rattristarsi troppo.
Intanto, mentre ci avvicinavamo alla tomba detta dei Tre Fratelli, notavo, e mi era sfuggito in principio, che da quella parte la natura della montagna cambiava, perdeva il rosso, le rosicchiature; apparivano colline tondeggianti che facevano l’effetto di una negativa, in quanto che invertivano i colori come si è solito vederli: un grigio come di piombo era su tutte le parti più sporgenti, mentre un giallo soffice e paglierino appariva negli incavi dei burroni fino alle parti più basse. Era sabbia, era la famosa sabbia che non avevo incontrato finora e che il vento accumulava nelle parti cave, mentre spazzava via da quelle in risalto dove rimaneva a nudo la pietra color d’argento. L’effetto, anche dopo spiegato, mi rimaneva sempre esotico: e poi capii il perché. Quelle montagnole assomigliavano ai gatti siamesi, era lo stesso punto del giallo, e quasi lo stesso quello oscuro fra il piombo e il carbone. Ma soprattutto era la stessa inversione che fa così esotici i gatti siamesi, abituati come siamo ai nostri gatti che hanno in genere la mascherina chiara su fondo scuro, la punta della coda chiara, i pedalini bianchi, come i cavalli, ma non tutto il contrario come i siamesi. Allora le montagne che sapevano di gatto furono un nuovo fascino di Palmira.
L'ipogeo, troppo restaurato, che sembra spalmato di ricotta, reca i tre sarcofagi identici che gli hanno valso il nome dei “Tre Fratelli”. L’identità dei tre sarcofagi mi colpì: era come se fossero stati eseguiti col pantografo. E ripetevano quelli bellissimi del Museo di Damasco. Ma con quanta minore finezza. Però, proprio questa minore finezza che faceva il paio, evidentemente, con la lucrosa imprese delle pompe funebri, riproponeva la domanda sul rapporto con le sculture di Gandara, producendo il solito intrigo di date impossibili. Lo riproduceva sul vivo, perché, contrariamente ai due apollinei sarcofagi di Damasco, qui le pieghe, trattate sempre col taglio ad angolo retto, si disponevano con inerzia come i fili di una collana, come le onde che si formano nell'acqua ferma se ci si butta un sasso.
E io pensavo a questo modo quasi fatale che hanno di cristallizzarsi, a un certo punto, le più alte tradizioni plastiche: quasi fatale, perché dipende solo dall'altezza dell’ingegno se qui si assiste solo a un’operazione da marmorari irresponsabili, e là si resta col fiato sospeso, quando quei cerchi concentrici, quelle striature papillari si producono a Gandara o in Agostino di Duccio. La mia recente ammirazione per i sarcofagi di Damasco rimaneva tuttavia scossa dall'attestato di una produzione in serie così sfacciatamente identica, che c’è da dubitare davvero se perfino i volti non furono prodotti su due o tre o quattro tipi, come le maschere del teatro greco. Le pitture dell’esedra in fondo, tutte con gli occhi coscienziosamente sfregiati, si mantenevano assai più nella scia della pittura romana, anche se è da porsi nel conto un’infiltrazione partico-iranica da Dura Europos. I ritratti, nei tondi, avevano il fondo di cielo: ma più inattesa, nella spalletta dell’arco, la figura in piedi di una matura matrona col bambino in braccio: e pareva la Madonna, e non lo era.
Si risalì dal dromos in pendio, e la verzura azzurrognola delle palme che straripavano dal muretto sembrava, così a contatto di gomito col deserto, il giardino fatato di Alcina. Grossi grappoli di datteri rossi come prugne o gialli e tondi quasi come nespole, in tutto diversi da quelli che si trovano nelle scatole, d’inverno, sembrano piuttosto mammelle gonfie, mi convincevano dell’immediatezza con cui si proponeva a simbolo, per una religione che elaborava i suoi riti e i suoi miti, la palma, fino almeno a Giustiniano. Vicino alle palme c’è una sorgente solforosa che i romani captarono fin dentro la roccia: e ancora ci si può scendere. L’antro lungo e luminoso aveva un’acqua verdina, lucidissima, in cui si tuffavano dei bambini arabi, e quanto allegri: parevano davvero ranocchi più grandi. Sembrò quasi la grotta azzurra, e il leggero odore di zolfo non so perché stava bene, intonava col deserto.
Risalendo, riprendeva il fascino del contrasto si quel verde con la lontananza dell’orizzonte che svaporava in riflessi madreperlacei, e le montagne come gatti siamesi grandi più delle sfingi. Poi fu la volta delle torri. In quelle conservate c’è, a metà altezza, un arco quasi come una tomba fiorentina del Quattrocento, col sarcofago e, una volta, la statua giacente. In genere c’è sotto l’iscrizione in greco e in aramaico, che era la lingua – semitica – parlata dai palmireni. Dentro la torre, che aveva la porta coi battenti di pietra, c’è altri sarcofagi e loculi da gente più povera, sovrapposti come scansie: scansie piene di morti. Naturalmente, sculture non ce n’è quasi più. Sono quelle che trovate a Costantinopoli, a Londra, a Parigi, in America. Il saccheggio di Palmira forse non ebbe paragoni. Poi dal pianterreno si sale, con un’elegante scaletta nello spessore del muro, al piano superiore dove si ripete la teoria delle scansie, e così via fino al tetto, se tetto vi era, o terrazza. Di cima a queste torri, soprattutto quella detta di Giamblico, il panorama mantiene la sua struttura eccezionale: le torri, così qua e là, sembrano in movimento e che non si debbano mai ritrovare al solito posto.
Il Tempio di Bel era, sull'Acropoli, il punto capitale della città. Un ampio peribolo a doppio ordine di colonne lo circondava. Questo peribolo per un caso assai raro (serviva da fortezza agli arabi) è per buona parte intatto, e con le sue lesene corinzie che lo ritmavano all'esterno, incredibilmente, quello a cui fa pensare, è alle pilastrate di Michelangelo sul Campidoglio. Così alte come sono, così nobilmente scandite, sull'alto zoccolo che dall'esterno stacca l’Acropoli dal resto pianeggiante della città. All'interno, l’incredibile disordine in cui si trova, con tutti quei rocchi di colonne e le pietre alla rinfusa, spenge un po’ l’entusiasmo: ma la grandiosità delle proporzioni e dell’impianto, il cospicuo numero delle colonne ancora in piedi finisce per imporsi. Al Tempio, che ha la cella completa e una buona parte del colonnato, si accedeva per una scala: l’ingresso del Tempio è sul lato e asimmetrico, ma certamente per ragioni rituali. Di qua e di là dall'altissima porta ci sono ancora vari frammenti del fregio, scolpito dalle due parti. E queste finalmente sono sculture non mortuarie, non in serie, ma fatte una volta per sempre. Da esse ebbi il bandolo della matassa. Si trovarono a Palmira due culture figurative diverse, che non potevano integrarsi senza neutralizzarsi l’una con l’altra: la tradizione partica, assai più collegata alla cultura achemenide che a quella greca, la tradizione imperiale romana. Il gusto del bassorilievo schiacciato, modulato quasi impercettibilmente in superficie non era né greco né romano: il gusto delle pieghe scavate in profondità, per dare uno spessore alla modulazione plastica delle forme, era stato greco e si trasmise a Roma. Questa modulazione, a contatto delle stiacciature iraniche fu ancestralmente riportata quanto più possibile al valore di linea che, sottile come una cicatrice, operava la sutura fra le varie zone ondulate o piatte del rilievo. Scaturì, presso i palmireni, quello smusso a spigolo vivo che non fa solco ma gradino e che si affida non all'ombra, come l’incavo greco-romano, ma alla luce che rimanda di taglio: donde l’estrema chiarezza, la innegabile solarità della scultura palmirena. Si otteneva, con tale procedimento, che la struttura della statua pensata in modo volumetrico e squadrato, quasi cubico, fosse poi tradotta nell'estensione della superficie come un bassorilievo: le varie facce del volume espresse in chiave di bassorilievo piatto. Così ora vedevo la coordinazione quasi logica , oltreché figurativa, di quelle mani squadrate ad angolo retto, di quei nasi a parallelepipedo, che lì per lì meravigliano ma non detonano, anche nei bellissimi sarcofagi di Damasco. Dove non c'è l'ammatassarsi delle pieghe a favorire la modulazione in fili di luce, ritornava come nelle mani, crudamente, la struttura squadrata, sumeriana, assira della figurazione plastica.
Ma la raffigurazione più attesa di questo fregio riguarda le donne velate in corteo: tutte ravvolte nella palla, mostrano la testa a uovo, striata come un’impronta digitale, fanno terribilmente pittura metafisica, manichino insomma. Basterebbe quell’invenzione, perché d’invenzione figurativa si tratta e non di una supina trascrizione dal vero, per dimostrare sia la qualità non certo mediocre dell’artista, sia il valore puramente lineare luministico delle pieghe. Infatti nelle donne velate l'andamento a impronta digitale costituisce un sinuoso arabesco sul piano che non vuole produrre o suggerire oggetto alcuno.
Fu all’improvviso, rivoltandomi verso l'ingresso, che mi si ripresentò l'augusto perimetro del peribolo: da due sbrecciature in alto si aveva l'affaccio, da un lato sulle rovine della città., dall'altro sull'oasi. La strada a colonne si vedeva quasi d’infilata, con i fusti color ruggine, contro i monti color ruggine e invece, a terra, la polvere color di cenere. Dall'altro lato le palme azzurre contro i coll i che parevano soffici nei loro colori di gatto siamese. E il cielo era sempre più chiaro nell'arsura del sole.
Quella che da lontano sembrava cenere non è polvere, ma sabbia che il contrasto con la pietra roggia faceva divenire grigia, quasi cerulea. Sabbia che ricopre di già quel che una volta era stato rimesso in luce, cosicché invano si cerca di capire come fosse l’esedra prima di arrivare all’Arco trionfale. Questa strada, che dovette essere lunga più di due chilometri, con i portici di qua e di là e ancora con moltissime colonne in piedi, aveva ogni tanto dei diversivi lungo il percorso. Doveva arrivare fino al Tempio di Bel, sebbene non proprio di fronte, e per questo faceva un angolo secco: si rettifica all’Arco di trionfo, che a sua volta presenta un accomodamento per poter avere la mostra in asse dalle due parti della strada. Sembrerebbe dunque che non si possa negare che l'arco funzioni da clausola prospettica, che lo scopo urbanistico della Via porticata sia quello di raccordare a sé le varie parti della città: raccordare, ma certo non distribuire, nel senso che ognuna di queste parti resta a sé. Si produce insomma qualcosa di simile che a Leptis Magna (come epoca non ci corre molto), dove lo snodo che qui dà l'arco è offerto dalla piazza pentagonale, e l'ingresso al Foro e alla Basilica li mette solo in comunicazione, ma non in rapporto spaziale con la via porticata. A Palmira è tipico, ad esempio, il raccordo con il Teatro che ha la scena di tergo alla via, ma a cui dalla via si giunge per un’arcata di qua e una di là che immettono in un portico torno torno alla cavea. Questo Teatro, su cui il Rostovtzeff ha dei dubbi che fosse un teatro è proprio un teatro, e la scena, ridotta ora a un sol piano, ricorda, con l'esedra circolare in mezzo, quelle dl Leptis e di Sabratha. Poi il Senato e l’agorà costituiscono altri nuclei a sé, a cui si arriva dalla Via porticata, ma che non compongono con questa. Di nuovo la via s'interrompe a un certo punto sul cosiddetto Tetrapilo, che è una specie dell'Arco di Giano a Roma, ma con i soli piloni senza gli archi: e recava, fra le altre statue, quelle, naturalmente distrutte, della famosa Zenobia e del consorte. Oltre al Tetrapilo la strada continua fino a una specie di tempio, che in parte ha ancora li frontone e invece è una Tomba grandiosa. Ci si può figurare che questo itinerario, orgoglio della città, meraviglia delle carovane, si possa ora percorrere facilmente: invece, dato l'indescrivibile abbandono in cui sono le rovine di Palmira, è tutto ingombro di colonne cadute, di pietre. Insomma, questa, che è la più bella via e la più lunga che ci abbia lasciato l'antichità romana, va fatta sempre con gli occhi a terra e scavalcando ostacoli: per vederla bisogna fermarsi. Ciò che finisce per neutralizzare l'effetto anche della stupenda teoria di colonne. Pero ci si convince a poco a poco che non nel disporsi prospettico questa strada conclude il suo valore: è chiaro anzi che, se anche non componeva con gli altri complessi, tuttavia si articola in quegli ingressi, si succede gradualmente, e pertanto non basta affacciarsi all'inizio, come sulla soglia di una prospettiva teatrale. Se la facciata dell’Arco trionfale ruota su un lato per presentarsi di prospetto, si deve intendere piuttosto come un espediente per restituire al tronco della strada, con un fondale in asse, il senso di spazio chiuso, come a un'Agorà stretta e lunga piuttosto che quale una clausola prospettica. Insomma, non bisogna lasciarsi fuorviare dal fatto che per forza la strada porticata istituisce una prospettiva in profondità: non è nel rapporto al punto di fuga all'orizzonte che è intesa, ma proprio nella suddivisione in tronchi che concludono ognuno separatamente, anche se la strada continua. Questo è il senso dei “nobili interrompimenti” sia l'Arco di trionfo o il Tetrapilo, e sia infine la chiusura del frontone della Tomba a tempio. Del resto tutto ciò quadra con quel che si conosce della urbanistica antica, tanto greca che romana: è solo che qui, come a Leptis Magna, è dato cogliere il momento in cui il tema spaziale predominante nell'epoca più propriamente classica, da essere la spazialità esterna, comincia a trasferirsi al tema dell’interno, ossia al all'esterno che si viene a pensare come interno.
Chiudendo l’Agorà entro mura porticate, a cui si accede da porte come a una basilica, già si tende ad assimilare uno spazio esterno a un interno: per questo anche le varie sezioni della Via porticata concludono ognuna separatamente, a Palmira. E certo questo fatto non si è prodotto solo a Palmira e a Leptis Magna, ma in questi luoghi, sia per la maggiore conservazione dei monumenti, sia per la maggiore libertà con cui gli architetti trattarono il tema, è più visibile. I grandi architetti bizantini sapranno trarne partito, così come faranno tesoro delle specifiche infrazioni alla sintassi architettonica classica. Le quali tuttavia, a Palmira, sono assai meno pronunziate che a Leptis. In questo c’è uno iato notevole fra sculture e architetture. Non c'è nulla, nell'architettura, che possa paragonarsi al sovvertimento plastico che rivela il trattamento delle pieghe della scultura palmirena. L’infrazione più grave è il fatto che le colonne, tutte indistintamente, portino una mensola al bel mezzo dell'entasis. E le mensole dovevano recare statue: di mercanti, di capocaravana soprattutto. Era una fiera delle vanità come neppure le nostre elezioni eguagliano. Il corpus, delle iscrizioni palmirene ce ne dà esempi notevoli. E certo più ci si pensa alla vita di questa città emporio, collocata in un deserto e tuttavia ricchissima, potentissima, non sembra vero, si direbbe una favola: ma è là, Palmira, con le sue rovine, ad attestare che fu vero. Queste colonne con la mensola sarebbero state impensabili per i greci, ma dovevano essere barbare anche per i romani: tuttavia, se il nesso plastico indubbiamente è vizioso, finiva però per accentuare il parallelismo del vano esterno col vano interno, in quanto che le sporgenze delle mensole e delle statue rappresentano un addentellato del vuoto libero della strada o del cortile alle strutture piene dell'architettura. E una specie, insomma, di felix culpa, se si riguarda sotto l’aspetto della progressiva presa di coscienza di dove la disgregazione della forma classica doveva finire per parare.
Così mi ero seduto all'ombra di una colonna, investito a tratti da una folata di sabbia e di vento, ma fresco, sotto il sole ardentissimo e ormai a picco. Di tanto in tanto passava un cammello con un beduino accovacciato sopra. Attraversava le rovine con quella indolenza pari alla grazia che ha il cammello quando cammina: bestia che non si sa mai di quante bestie sia fatta. E ha la testa da uccello, e il collo da serpente, e le gambe come di trampoliere: ma di brutto, solo i piedi, non già la gobba che è come un frammento di paesaggio trasferito sul dorso. I piedi invece sono grandi, patatosi, come quelli di un vecchio cameriere, e la cura con cui li discendono sul suolo è proprio di chi si vorrebbe levare le scarpe e ristorarsi coi saltrati. Eppure io non capisco perché non mettono anche in Italia. Non mangiano nulla, vivono veramente di niente. C'è tante isole e isolotti dove starebbero benissimo, sarebbero un’attrazione: e con quel che costa la lana di cammello diverrebbero una fonte di ricchezza. Non esiste poi zona arida dell’Appennino dove non trovassero cento volte di più da pascolare che nel deserto: e sono bestie mansuete, e con quel sorriso di presa in giro che lì per lì sconcerta. Passò un branco di pecore con la testa, nera, un asinello con un ragazzo che teneva stretto al petto il fratellino: era tutto il movimento di Palmira. Ormai dovevo muovermi, bisognava mangiare e pensare al ritorno. Mentre mi avvio all'albergo che è stato costruito margini della zona, quasi davanti al piccolo Tempio di Baal, vedo che sono stati fatti nuovi scavi: da una parte e dall'altra del tempio sono venuti alla luce due grandi cortili porticati e stanno rimontando delle colonne così basse e tozze che sembrano sacchi di grano. Saranno forse giuste? Non era meglio cominciare a mettere un po' d’ordine nella Via colonnata? Così pensavo, e alla fortuna -  per Palmira – che sia abbastanza lontana per impedire che la Fiera di Damasco si trasferisca là per qualche musica di fortuna.
Una sola musica vorrei sentire io qua, sebbene non ci abbia nulla a che fare, visto che ha perso da tempo anche il titolo che giustifica il mio desiderio. Nel piccolo teatro vorrei sentire la sinfonia dell'Aureliano in Palmira, che è poi quella del Barbiere. Certo la musica di Rossini così scherzosa e liquida, perennemente fresca, qui in questo deserto rovente non troverebbe eco, la beverebbe tutta la sabbia, neanche un suono arriverebbe agli orecchi. Nulla di meno romano, di meno archeologico, di meno storicamente evocativo della tremenda punizione che Aureliano inflisse alla città, dopo che per la seconda volta Zenobia s'era rivoltata. Dunque è un desiderio insensato il mio e la Sinfonia del Barbiere è ormai quella del Barbiere e giustamente di Palmira se n'è cancellato anche il nome. Non importa. Quella sinfonia è l’ultimo appello poetico della distrutta Palmira: il resto è storia, archeologia, è sapere. La sinfonia non è sapere, e Palmira ci sta dentro allo stesso diritto che il Vesuvio nella Ginestra.
Il ritorno, cominciato nell'ora più torrida, popolò l'orizzonte di bellissimi miraggi. Continuamente si aprivano golfi e laghi, c’era acqua dappertutto. E quel che vuol dire l'insensibilità al paesaggio, la mancanza di un abito all'osservazione: risultò che il conducente non se n’era mai accorto. Quando di fronte al più spettacolare di questi miraggi io volli fermarmi un momento e guardare col binocolo, per quanto non capissi quello che diceva, una volta forzato a vedere anche lui. divenne tutto elettrizzato e parlava fitto fitto al bambino. Si vedeva uno di quei serbatoi dell’oleodotto che si rifletteva in pieno, e dato che era bianco e perciò più appariscente, l’illusione dell'acqua era assoluta anche a occhio nudo. Questi miraggi continuarono fino a una certa or. del pomeriggio, quando rinfrescò smisero. E invece i monti presero allora una tinta più accentuala di malva, con una nitidezza che hanno solo le cose a portata di mano.
Era buio ormai, quando si ritrovò la strada: il cielo tornava quello del mattino allorché si era partiti, e ritrovandolo non mi pareva vero che solo un giorno fosse passato, o quasi che il giorno l'avessi trovato forando un’unica notte, in fondo alla quale, come in fondo al tunnel della storia, stava sola, integra e distrutta, Palmira.

Comunque, per chi non lo sapesse, o non lo ricordasse, la sinfonia è questa.



martedì 17 maggio 2016

Brexit

I giornali sono meravigliosi.
Prendiamo la Brexit. Ti fermi ai titoli oppure alle prime venti righe dell'articolo (anche perché, se continui, rischi gravi disfunzioni epatiche) e ti fai l'idea che, se la Gran Bretagna esce dall'Unione Europea (o dall'Euro, se sei presidente del consiglio), arriveranno le sette piaghe di Albione: crisi economica, cancro e il risveglio di Godzilla.
Alcuni pacati editoriali:
Ovviamente, il problema maggiore tra quelli di cui sopra è quello dei calciatori. Abramovich e gli sceicchi del Manchester City sono allarmatissimi.
Anche i politici hanno mostrato grande onestà intellettuale.
Poi c'è la questione voli low cost, le cui tariffe - in caso Brexit - potrebbero allo stesso tempo aumentare, o diminuire, o aumentare in futuro. Conseguenza, ovviamente, l'apertura di un buco spazio-temporale che risucchierebbe la terra.

Il lettore medio si prende paura e si schiera compatto con la finanza continentale (soprattutto se è moderato), quello un po' più scafato resta basito da tanta cialtroneria, ma finisce lì.

Poi però a volte capita di leggere qualche altra riga e allora la verità, almeno qualche brandello di verità, viene fuori. Sì, perché la verità è come l'acqua: puoi cercare di canalizzarla, di impermeabilizzare, ma poi quella una crepa, un passaggio li trova sempre, e ti ritrovi daccapo, con la sorgente che testarda zampilla. Non potest civitas abscondi supra montem posita, neque accendunt lucernam et ponunt eam sub modio.
In una lunga intervista di Italia Oggi, ci dice Massimiliano Danusso, partner di Bonelli Erede, che "la questione più importante è... legata al problema della libertà di stabilimento, considerato che i cittadini UE potrebbero, quanto meno momentaneamente, dover richiedere e ottenere permessi di lavoro e visti per potersi trasferire e lavorare nel Regno Unito...".
Ma senti.
Dunque le multinazionali con base a Londra - per pura filantropia e amicalità anglosassone: le basse imposte sulle società sono un dettaglio - sono preoccupate in particolare di non poter fare scouting a prezzo di saldo in mezza Europa (indovinate quale metà), questione che (legittimamente) esse si pongono, ma che, al britannico medio, credo importi il giusto.
Non solo.
"Importanti ricadute sono attese anche sul fronte del diritto finanziario", ivi compreso "il tema dell'impatto che Brexit porterebbe sulla normativa approvata di recente in materia di resolution bancaria [che sarebbe il bail-in: N.d.R.], dato che gli istituti inglesi non sarebbero più soggetti a quella normativa con significativo vantaggio competitivo sui concorrenti europei".
Ma... ma... ma... Come... come... come...? ((c) del "bocconiano pentito" Fabio Dragoni)
Quindi il bail-in penalizza gli istituti che lo applicano? Ma davvero? E io che ricordavo che invece doveva stabilizzare i sistemi finanziari.
E invece pare proprio che il problema della Brexit - dal punto di vista finanziario - sia più un problema per chi resta, piuttosto che per chi se ne va.
Ma non finisce qui.
In mezzo alla solita teoria di "impatti regolatori", "difficoltà nella libera circolazione degli avvocati", perdita di centralità nei lodi arbitrali di contratti internazionali (cosa che mi sembra probabile: per esempio, le cause relative ai prossimi derivati OTC saranno tutte deferite a giudici del Bozambo), conseguenze negative sul mercato azionario, la valuta e la futura crescita economica tutto insieme (questo lo deve aver detto un legale ancora fautore del gold standard, presumo), e così via sclerando, ecco che viene fuori un terzo tema piuttosto serio.
"Al di là del tema del referendum, i rischi sono legati all'effetto a catena che si potrebbe generare nel Vecchio Continente. I rischi sono grandi per il nostro Paese nel caso in cui fosse il primo passo verso il disgregamento dell'Unione, commenta Dante De Benedetti, partner di MDBA". Il quale - dopo questa considerazione un tantino poco democratica (perché, parliamoci chiaro, il significato recondito è che la Brexit è pericolosa perché potrebbe far vedere agli altri schiavi, ancora un po'  tenuti a freno dallo schiacciamento della Grecia la scorsa estate, che invece liberarsi è possibile) - ha comunque un sussulto di sincerità: "l'eventuale scioglimento della UE, infatti, potrebbe portare a situazione difficili da gestire... Nell'ipotesi in cui la fine della UE portasse invece a un rilancio dell'economia... le conseguente potrebbero essere virtuose, portando a... una ripresa degli investimenti dei fondi di private equity per la rinnovata liquidità".
Bontà sua.

Ricapitoliamo.
Ecco i terribili danni alla Perfida Albione della Brexit: minor competizione sul mercato del lavoro (cioè stipendi più alti); maggior competitività delle banche inglesi sul mercato finanziario (solo molto parzialmente compensato da un probabile reflusso di alcune SGR verso il Lussemburgo); possibile ripresa economica.
Piaghe bibliche proprio.
Poi, in ultimo ma non da ultimo (si parla di Gran Bretagna, d'altronde), c'è il punto focale, che è un punto (non economico, bensì) tutto politico.
Chi sta fuori, comanda il gioco: verso l'Europa, ma soprattutto oltre l'Europa (ogni riferimento al TTIP non è assolutamente casuale).
Matteo NON vuole uscire.

sabato 14 maggio 2016

Perché no!

PREMESSA.

Dunque, proprio ora che i Testimoni di Geova hanno smesso di suonare a tutti i campanelli (almeno dalle mie parti, hanno iniziato a mettere nelle piazze innocui gazebo, come un Passera qualunque), pare che dovremo resistere agli indemoniati del "Sì" al referendum costituzionale di ottobre, sguinzagliati su e giù per lo Stivale dal nostro Matteo preferito.
Chi legge questo blog - gli happy few, se posso - probabilmente utilizzerà le scuse classiche ("non c'è nessuno!", "ho la diarrea fulminante!", "la signora non è in casa!"). Io, per esempio, ho deciso che apro solo se viene Lei in persona.

Tuttavia, un referendum non si vince in 50, né in 500 e neppure in 5.000. Tanto più che, al di là delle dichiarazioni di facciata, credo che - forse per motivi diametralmente opposti - gli establishment di Forza Italia e M5s aiuteranno Renzi per quanto potranno. E lo stesso, ma non c'è neppure di dirlo, faranno i media, giornaloni e TV generaliste in testa.
Dunque, da qui a ottobre, sarà necessario (se sarà anche sufficiente, lo dirà il tempo) rispondere colpo su colpo, argomento su argomento.
È un compito molto difficile, anche perché la riforma - o deforma - costituzionale è stata costruita come la maggior parte delle legge renziane: alcune norme di contorno rispondenti al sentire comune di quel determinato momento, per lo più volte a titillare sentimenti pre-razionali di antipolitica (un caso per tutti: l'abolizione del CNEL); operazioni di ingegneria istituzionale propagandate come taumaturgiche per le magnifiche sorti e progressive del popolo italico, grazie all'utilizzo - nella narrazione nazionalpopolare - delle due paroline magiche, sempre le stesse (riforma, semplificazione); un impianto, non immediatamente percepibile, ma ben ponderato, volto al contrario allo svuotamento di spazi di democrazia e autodeterminazione.
Potremmo fare esempi importanti (il Jobs Act, di cui si sbandierano gli effetti sulla stabilizzazione del lavoro, ma sotto la vigenza del quale vi è stata la più ampia esplosione dell strumento dei voucher) o meno importanti (la bozza di legge sul Terzo Settore, talmente sul Terzo Settore che mette in concorrenza le cooperative sociali e le società vere e proprie).
E questo modus operandi si riverbera, ovviamente, anche sugli stessi nomi affibbiati - ufficialmente o a livello giornalistico - alle proposte di legge (si pensi all'Italicum contrapposto al Porcellum), nonché da ultimo, e di conseguenza, sul tenore del prossimo quesito referendario (il cui scandaloso testo trovate qui). Cosa che, in alcuni, ha scatenato un qualche comprensibile fastidio.
Ad altri, reminiscenze di un tempo che si pensava passato.
A questo giro la cosa si fa ancora più complicata, visto che Renzi - non proprio tranquillissimo sul risultato finale - ha trasformato la consultazione in una specie di plebiscito sulla sua persona. Cosa preoccupante, come si legge nelle considerazioni critiche di ben 56 professori di diritti costituzionale: "siamo... preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare... anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo".
Così che, da questo punto di vista, credo di dover fare una cosa che mi capita assai di rado, cioè dare ragione a quello che dice - qui accanto - Salvatore Settis.
Infatti, il punto è proprio questo: scovare, pazientemente, "cosa va e cosa non va in questa riforma", comprenderlo e farlo comprendere, con chiarezza, senza gli slogan dementi del Ministro Boschi, ma neppure con aridi tecnicismi.
Ora, secondo me questo lavoro deve essere portato avanti su due piani: quello dell'analisi complessiva della riforma, dei suoi obiettivi a lungo termine per così dire, e quello della verifica minuziosa delle disposizioni.
L'analisi complessiva è infatti necessaria per veicolare, con chiarezza, i motivi profondi del "No!" a quello che, di fatto, è un tentativo di liquidazione dell'interno del sistema politico, sociale  e valoriale nato con la Costituzione del 1948, l'acribia interpretativa per rispondere, a tono, alla propaganda delle varie Maria Medici che incontreremo.

LIQUIDAZIONE DALL'INTERNO.
L'Appello di Indipendenza e Costituzione (cliccate, leggete, scrivete al Comitato, firmate!) spiega molto bene come sta la questione: "quello che rende inaccettabile questa riforma costituzionale è la legge elettorale che vi si affianca. È una legge  pensata per avere un parlamento i cui membri siano designati dalle oligarchie dei partiti, invece che dal voto dei cittadini. Una legge che contiene un premio di maggioranza al fine di consentire governi di minoranza".
Si tratta dello stesso punto di vista dei "56 professori" citati sopra: "si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo... In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti... anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch'esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario".

Tradotto per i non cattedratici: chi vince le elezioni (eventualmente al ballottaggio, un voto in più del secondo) prende tutto, parlamento, governo, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale.
Per di più, in un contesto istituzionale in cui anche la periferia perde sensibilmente di potere rispetto al centro (le Regioni sono private di molte delle attuali competenze legislative, le province sono del tutto abolite).
Quelli fichi la chiamano stabilità. Gli altri usano termini più desueti. 

Questo è il punto vero.
Non è per risparmiare denaro (se ne risparmierà assai poco, e comunque "il costo maggiore della politica sono le decisioni sbagliate"), non è per velocizzare un sistema legislativo che, quando vuole essere rapido, lo sa essere anche più che in regimi monocamerali (leggete qui accanto, o qui per esteso, cosa ne pensa il prof. Pasquino), non è per nessuna delle motivazioni che saranno strombazzate nei prossimi mesi.

PERCHÉ NO!
Ciò detto, resta comunque un interrogativo che non può essere aggirato.
Perché?
Per quale ragione Matteo Renzi avrebbe addirittura messo a rischio la propria carriera politica per una riforma che, in primo luogo, dovrebbe esorbitare dalle attribuzioni del Governo per essere competenza specifica del Parlamento e che, inoltre, nel suo impianto autoritario rischia di rivoltarsi anche contro i suoi interessi, ove a vincere le successive politiche fosse una forza diversa dal PD (p.e. il M5s)?
La risposta è trieste ma univoca.
Perché questo governo non fa né gli interessi del Paese, né i propri, ma è subordinato alle volontà delle élites finanziarie mondiali, che ne dettano agenda e contenuti.

Riporto ancora dall'Appello di Indipendenza e Costituzione: "la nostra Costituzione ha... parecchi nemici aperti e nemici coperti che non vedono l’ora di celebrarle un frettoloso funerale... I nemici della Costituzione Italiana, vogliono anzitutto annullare nella pratica i primi 12 articoli della Costituzione, che il Parlamento non può modificare perché sanciscono solennemente gli orientamenti di fondo che devono informare tutta la vita sociale della Repubblica".
Per farlo hanno essenzialmente un grimaldello, che è quello di un sistema politico-istituzionale che si renda cinghia di trasmissione sempre più efficace del sistema iper-liberista insito nei Trattati Europei. Non a caso, è stato "un parlamento prono ai diktat della Banca Centrale Europea", nel periodo (pseudo)emergenziale del Governo Monti, ad introdurre in "Costituzione l’obbligo di pareggio di bilancio, smentendo nei fatti l’orientamento della Costituzione tutta, che si fonda sulla difesa e sulla promozione del lavoro".
Essenzialmente grazie all'Euro ed alle distorsioni economico-finanziarie che sono insite in tale progetto, "l’Unione Europea si è [infatti] arrogata [e vieppiù si arroga] il diritto di dettare i comportamenti dello Stato italiano come se fosse uno Stato a sovranità limitata,  trattandolo  come l’URSS di Breznev trattava i paesi satelliti: per chi non si allinea, c’è la 'correzione fraterna', con le manovre monetarie, le letterine della BCE, la minaccia di sanzioni".
Dopo la riforma (deforma) costituzionale, non ci sarà il problema di dover ricorrere, con le scuse più improbabili, a governi tecnici. Basterà il monocolore di volta in volta vincitore alle elezioni (cui, per inciso, parteciperà un elettorato sempre più ridotto, stante la progressiva omogeneizzazione della proposta partitica): infatti, è pensabile che chi è stato beneficiato dall'elezione in Parlamento grazie alle liste redatte dal Capo, poi gli si ribelli, perdendo il treno per un altro giro?

Non ci credete? No? Leggete questo, allora.
L'articolo - che rimanda a questa fantastica ricerca (tra gli autori della quale figura anche un italiano) - sottolinea soprattutto alcuni passaggi.
I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia).
Non commento, Commentate voi.

mercoledì 11 maggio 2016

Indipendenza e Costituzione. Un appello fondamentale.

Referendum Costituzionale: l’Unione €uropea contro la Costituzione democratica

NO allo stravolgimento della Costituzione

1. In autunno si terrà il referendum sulle cosiddette riforme costituzionali di Renzi-Boschi-Verdini. È un momento cruciale per la nostra storia: passata e futura.

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Ne va di noi.

lunedì 9 maggio 2016

Imprenditori in vendita (il diritto al tempo degli NPL).

Dunque, facciamo un po' il punto. Sì, perché il governo, nel tentativo di acquietare il "mercato" e mettere qualche pezza al settore bancario, si sta muovendo in continuazione, confusamente, come un tonno preso nella tonnara.
Ah, il "mercato", quest'idolo neo-pagano che, come i draghi medievali, richiede vittime incolpevoli in sacrificio per restare tranquillo e non sterminare popoli.
Forse, allora, la fine del tonno, più che il governo, la faremo noi.
D'altronde, dai nostri rappresentanti non c'è molto da sperare.
L'altro pomeriggio al Senato si è tenuta una nuova seduta della Commissione finanze, impegnata nella "indagine conoscitiva sulle condizioni del sistema bancario e finanziario italiano e la tutela del risparmio, anche con riferimento alla vigilanza, la risoluzione delle crisi e la garanzia dei depositi europei". Parlava il Ministro Padoan.
Ora, di Padoan si potrà pensare qualsiasi cosa, ma non che non sia una persona preparata, competente ed equilibrata. Bene, si è trovato di fronte al bar sport: ha dovuto subire interventi che confondevano incagli e sofferenze, esposizioni lorde e nette, che partivano per la tangente dello sbattipugnismo comunitario, e via delirando in un crescendo rossiniano.
Ora, io non dico che l'universo mondo debba saper distinguere all'interno dei crediti problematici (come non deve saper compiere un'operazione a cuore aperto, discettare di teoria quantistica, tirare un muro a piombo), ma magari coloro che siedono in Senato e che sono stati destinati alla Commissione finanze (finanze!) un minimo di applicazione potrebbero mettercela.
Ma tant'è. Forse ce li meritiamo (?).
Dunque, Padoan ha parlato di vari argomenti. Di Atlant(id)e, di cui si è già detto diffusamente qui e qui, dei finti rimborsi ai truffati delle quattro banche risolte a dicembre (ne abbiamo discusso qui), delle nuove disposizioni volte ad accelerare ancor di più le procedure esecutive (per chi non si è ancora annoiato, v. qui e qui).
Mettiamo ordine.

ATLANTE.
Nonostante che qualche dubbio in proposito serpeggiasse, è stato sdoganato dall'ineffabile Vestager, che ne ha sancito la compatibilità con la disciplina europea sugli aiuti di Stato.
Prima considerazione: lo stesso Commissario che ha vietato a novembre di utilizzare, per le quattro banche, il Fondo interbancario di tutela dei depositi (notare: fondo; notare: interbancario), ora ci dice che Atlante (notare: un fondo; notare: sottoscritto quasi unicamente da banche) è strumento legittimo, avente natura privata.
Il simpatico Titano si è presentato con l'acquisto a prezzi stracciati della Popolare di Vicenza, con connesso genocidio dei piccoli azionisti. Un miliardino e mezzo su quattro e un grosso sospirone di sollievo per le volpi di Unicredit che avevano garantito l'aumento.
Seconda considerazione: ora Atlante la Popolare di Vicenza la dovrà rivendere, e ci sarà comunque di che ridire. Se la vende bene, resterà il dubbio di un'operazione opaca, orchestrata fuori dal mercato e in situazione di grave asimmetria informativa. Se la vende male, saranno soldi persi dal sistema bancario nel suo complesso (il che, più o meno mediatamente, significa da noi). In altri termini:
Intanto, a fine mese ci sarà l'altro fantastico aumento, quello di Veneto Banca. Siccome Atlante ha sgravato Unicredit a Vicenza, giustamente deve anche sgravare Intesa a Treviso.
Terza considerazione: questo fondo, nato per sostenere il sistema bancario, in sostanza serve a tappare un paio di buchi ed evitare un filotto di bail-in. Normativa che, detto per inciso, secondo Banca d'Italia prima bisognava "fare presto" ad introdurre, perché volta a stabilizzare i sistemi finanziari (!), poi ripensare, infine - quando il guano ha passato il livello di guardia - rivedere. Volpi. Davvero.
Tra l'altro, siccome sono scienziati, la cura che propongono è anche peggiore del male. È il MES. Cioè la Troika. Cioè la fine della Repubblica fondata sulla Costituzione.
Quanto serva Atlante è chiaro. Aggiungo solo che l'altra mattina è stato confermato che le operazioni su NPL saranno fatte a prezzi di mercato: il che significa che, coi soldi rimasti, il fondo ci compra al massimo una metà scarsa degli NPL di Mps, magari sottoscrivendo il conseguente aumento di capitale da un miliardino, e poi chiude.
Dopo, siamo pari pari a punto e capo.
Però... c'è - ci potrebbe essere - un però. L'art. 7 del D.L. 59 del 3 maggio scorso, invero poco considerato dalla stampa, ha nazionalizzato presso il Ministero dell'Economia la Società per la Gestione di Attività S.p.A. (detta SGA), bad bank ante litteram nata per il recupero delle sofferenze del Banco di Napoli al momento del fallimento e connesso salvataggio di questo (all'epoca si poteva fare) che, gestita da Intesa, ha non solo recuperato gli attivi affidati, ma ha fatto anche 500 milioni di Euro di profitti (più 200 milioni di crediti ancora esigibili).
SGA potrà "acquistare sul mercato crediti, partecipazioni e altre attività finanziarie". Potrà, cioè, fare quello che fa Atlante. E infatti, già si parla di un investimento importante di SGA nel fondo, come - secondo Reuters - "riferisce una fonte governativa". Padoan, dal canto suo, ha spiegato in Senato che è in corso di studio "il possibile utilizzo di queste risorse aggiuntive", aggiungendo però che nessuna decisione è stata ancora presa.
Mi sorge un dubbio: se in Atlante ci investe CDP, e poi SGA, e poi Atlante utilizza GACS, e poi chissà cos'altro, siamo sicuri che Margrethe non cambi idea?

RIMBORSI AI TRUFFATI DELLE QUATTRO BANCHE.
Secondo Renzi, nella conferenza stampa di presentazione del sullodato D.L. 59, gli investitori in titoli subordinati delle quattro banche sapevano in fondo a cosa andavano incontro, visto che lucravano interessi ben più alti di quelli di conto corrente.
Fosse stato per lui, sembra di capire, non avrebbe indennizzato nessuno.
E infatti...
Saranno rimborsati senza arbitrato gli obbligazionisti che hanno acquistato i bond prima del 12 giugno 2014 (cioè prima della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee della Direttiva BRRD), purché abbiano un reddito lordo 2015 inferiore a 35.000 Euro oppure un patrimonio mobiliare a fine 2015 sotto i 100.000 Euro.
Qui le considerazioni da fare sono molte.
Oppure nessuna, perché questi ti tolgono veramente le parole.
I.
Le cose sono due: o gli acquirenti di obbligazioni subordinate delle quattro banche sono fini speculatori che hanno scommesso coscientemente su titoli fortemente a rischio ed allora non devono in nessun caso essere rimborsati (ma, se così fosse, perché non le hanno vendute nel 2014, quando soprattutto Banca Etruria iniziava a scricchiolare?), oppure sono normali risparmiatori cui sono stati offerti strumenti finanziari di cui è stato magnificato il rendimento e sottostimato il rischio e allora devono essere risarciti, ricchi o poveri che siano.
Marco Palombi lo spiega molto bene qui.
II.
Secondo il governo Renzi, non si è ricchi se si guadagnano meno di 35.000 Euro, purché questo accada nel 2015. Il che comporta che un top manager da milioni di Euro che ha lasciato l'incarico a ottobre 2014 e si è preso un anno sabbatico nel 2015 è povero, mentre un impiegato statale a fine carriera è ricco.
Non si è ricchi neppure se si hanno meno di 100.000 Euro in banca. Indipendentemente dal fatto che ce li abbia il coniuge, oppure la società di cui si possiedono le azioni (che magari hanno un costo di carico molto basso rispetto al loro valore). Indipendentemente dal fatto che, legittimamente, uno possa avere pochi spiccioli presso i nostri esimi istituti di credito e possedere invece un portafoglio immobiliare esagerato.
Anche il concetto di "reddito lordo" lascia perplessi. Si presume che si tratti di quello di cui al rigo RN1 di Unico, cioè - detto in soldoni - la somma di tutti i redditi esclusi quelli soggetti non solo a tassazione separata (giusto: se uno proprio quell'anno ha preso la liquidazione, mica è colpa sua), ma anche ad imposta sostitutiva (dividendi e cedole). Pertanto, chi guadagna dal proprio lavoro 36.000 Euro lordi non è degno di rimborso, chi ne guadagna 34.000, ma becca 2.000 Euro di cedole da investimenti finanziari sì.
III.
Sul fatto di porre una data ad minchiam come quella della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (Gazzetta Ufficiale!)  delle Comunità Europee (Comunità Europee!) della Direttiva BRRD (la Direttiva BRRD!), stendo un velo pietoso.
Guardatevi solo questo...
Sed de hoc satis.
Andiamo avanti. Anche i pochi eletti che saranno rimborsati, quanto beccano?
L'80% del prezzo di acquisto dei titoli (dunque il 20% è già andato a priori) meno il differenziale tra il tasso di rendimento dei titoli medesimi e quello dei BTP (il che, a occhio, comporta un ulteriore taglio del 15-20%). Un altro modo per dire che chi ha comprato i subordinati delle quattro banche speculava, e chi specula a volte perde i soldi.
Anche qui, una sommessa considerazione.

MA LO VOLETE CAPIRE CHE LA TRUFFA NON L'HANNO FATTA LE BANCHE, MA IL GOVERNO CHE HA CAMBIATO LE REGOLE IN CORSA, RENDENDO POSSIBILE CIÒ CHE IN PASSATO NON ERA NEMMENO IMMAGINABILE, CIOÈ IL DEFAULT DI UNA BANCA ITALIANA? E LO VOLETE CAPIRE CHE, STANDO COSÌ LE COSE, DOVETE RIPAGARE TUTTI E ANCHE UN PO' VERGOGNARVI? 

Speriamo che abbiano capito. Ma dubito.

PEGNO NON POSSESSORIO E PATTO MARCIANO.
Il D.L. 59, infine (anzi: all'inizio), tratta di pegno non possessorio. Già il nome è un insulto, dal momento che il pegno nasce - già nel diritto romano - come istituto basato sul possesso scisso dalla proprietà (in contrapposizione alla fiducia, che corrisponde alla compravendita).
Ma la potenza del diritto anglosassone, tutto informato degli interessi della grande finanza, passa sopra i corpi dei vivi, figurarsi sopra le Pandette.
Molti lo hanno presentato come un'innovazione che apre spazi di credito per le piccole e medie imprese; a mio avviso è l'ultimo passo prima del baratro.
Chi deciderà di impegnare i propri macchinari, le proprie scorte, i propri prodotti? Evidentemente, aziende che non navigano in ottime acque. Ad alcune, forse, andrà bene. Altre avranno ancora maggiori difficoltà. In questo caso le banche potranno portare via beni produttivi e semilavorati, per venderli o affittarli, con ciò: (i) rendendo impossibile il prosieguo dell'attività; (ii) quindi, imponendo l'immediato licenziamento dei dipendenti per giusta causa e rendendo impossibile l'affitto di azienda; (iii) in sostanza, decretando la morte di quella impresa.
Ottimo affare.
Ma non basta.
Il simpatico imprenditore che si trova in cattive acque, infatti, rivolgendosi alle ancor più simpatiche banche per avere un finanziamento, potrebbe sentirsi richiedere non soltanto il pegno dei macchinari, ma anche l'ipoteca, a scelta, sul capannone o sulla seconda casetta al mare (o anche su tutti e due, perché essere timidi?).
Dopo il D.L. 59, peraltro, vi è il non trascurabile particolare per cui, in caso di 3 rate mensili non pagate da almeno sei mesi da parte del succitato imprenditore, i beni ipotecati passano direttamente alla banca (o alla REOCO appositamente costituita) che li valorizza e poi li rivende. Dando l'eventuale prezzo in più al debitore, mi raccomando, così la foglia di fico del rispetto del divieto di patto commissorio resta intatto.
Se poi, disgraziatamente, l'imprenditore ha dato in pegno anche le azioni dell'impresa, la banca gli vende pure quelle, e tanti saluti. (Sì, perché ai sensi dell'art. 4, D. Lgs. n. 170 del 2004, "il creditore pignoratizio ha facoltà... di procedere... alla vendita delle attività finanziarie oggetto del pegno... o... all'appropriazione delle attività finanziarie oggetto del pegno...").

TI VENDO I MACCHINARI. TI VENDO IL CAPANNONE. TI VENDO ANCHE LE AZIONI DELL'IMPRESA (CHE, PERALTRO, ORMAI NON VALE NULLA). FILOTTO.

Queste disposizioni - insieme a quelle (art. 4 del D.L.) volte a ridurre il tempo dell'esecuzione e delle aste - dovrebbero ridurre, più che dimezzare secondo il Governo, i tempi di recupero degli NPL da parte degli istituti di credito. Non sono in grado di fare previsioni così precise. Sono abbastanza certo che ridurranno, forse dimezzandola, la vita media delle imprese.