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martedì 30 gennaio 2018

Votare Borghi contro Padoan per dare una svolta alla politica italiana

A Siena, come al solito, vanno di moda i sepolcri imbiancati. La formula, che richiama tristi episodi di una quarantina di anni or sono, è quella secondo cui Padoan non può certo essere votato (per questi motivi e questi motivi), ma neanche gli altri candidati devono essere presi in considerazione.
Non sarebbero big: cosa significhi una frase del genere, visto che il centro-destra nell'uninominale candida addirittura il responsabile economico della Lega, nonché consigliere regionale più votato alle ultime elezioni, sembrerebbe un mistero.
In realtà, la spiegazione di tali contorcimenti logici va ricercata nel male atavico di questa meravigliosa e disgraziata città, cioè l'incapacità di molti dei suoi cittadini di rendersi conto di avere in mano un cannocchiale, ma di utilizzarlo regolarmente al contrario.
Allora può succedere facilmente che anche il miglior candidato alle elezioni nazionali, se può tirare la volata ad un aspirante sindaco inviso a questo o quel suggeritore politico, deve essere azzoppato. Se poi quel candidato è della Lega e si chiama Borghi, cioè non è nato sulle lastre, allora anàtema! Come se a Siena, negli ultimi vent'anni, tra i protagonisti politici ci fosse stato anche solo un senese uno.
Andiamo al punto, per una volta, vi prego.
Comprendete che l'elezione di questo o quel sindaco potrà forse incidere sulle piccole carriere di qualcuno, o potrà vellicare il senso di vendetta di qualche altro, ma non cambierà di certo le sorti di Siena, né dei suoi figli... dei nostri figli. Le sorti della Banca si decidono altrove (e la candidatura di Padoan, al di là delle dietrologie, è un chiaro ricatto, visto che si tratta di eleggere chi, domani, potrebbe decidere dove fissare la direzione generale del Monte, o se farne uno spezzatino da offrire ai migliori offerenti), quel che resta della Fondazione (suicidatasi nel 2011 in spregio al suo stesso Statuto, mentre le sentinelle della senesità erano in altre faccende affaccendate) non lo sa - evidentemente - gestire nessuno.
I vostri figli, i miei figli, potranno continuare a vivere in questa città - bella e dannata -, potranno continuare a vivere in Italia, soltanto in caso di un cambio radicale di classe dirigente a livello nazionale. Finché il potere resterà in mano a patetici turbo-liberisti proni ai dettami dell'UE, asserviti ai desiderata tedeschi e francesi, incapaci di comprendere che uno Stato non è una famiglia che deve comprare lo scooter, il nostro Paese è condannato ad una lenta ma inesorabile involuzione.
Dire: non voto Padoan ma neppure Borghi (a meno di non pensare di poter seriamente votare il trader da newsletter grillino - d'altronde a Firenze e Orvieto il M5s ha candidato piddini DOC - o il Mancuso di Libero e Uguali) significa - in una provincia rossa come la nostra - di fatto schierarsi per la conservazione.
Il PD deve essere distrutto, deve cioè prendere meno del 20% a livello nazionale. Punto. Tutte le altre chiacchiere stanno a zero.
Pensateci. Vi supplico.

martedì 9 gennaio 2018

La nuova normalità europea, cioè la fine della democrazia

Per una volta torno all'antico e rispolvero il blog. Per certe quisquilie un po' pedanti, non mi pare il caso di imbrattare Il Format.
Nei mesi scorsi, a proposito dei poteri del governo Gentiloni, si è letto la qualunque: addirittura, si è visto un accademico, il prof. Bin (quando un professore diventa renziano, immediatamente dimentica qualsiasi senso della misura), scagliarsi addirittura contro un semplice quanto incomprensibile articolo del Fatto Quotidiano.
Niente di male, anche perché il timore sotteso a quelle polemiche - l'approvazione "a camere sciolte" dello ius soli - era evidentemente rivolto ad una circostanza assolutamente irrealizzabile. Di recente, però, la questione si è riproposta sotto un punto di vista più inquietante.


In sostanza, qualora il risultato elettorale non fosse chiaro, ma nel complesso non favorevole alle forze europeiste (in pratica, se ci fosse una vittoria del centrodestra con un ottimo risultato della Lega), l'establishment - auspice o complice il Presidente della Repubblica - potrebbe seriamente ripiegare sul tentativo di creare uno stallo alla formazione di un nuovo governo, lasciando così l'esecutivo in mano a Gentiloni.
Vale dunque la pena di fare un po' di chiarezza sulle norme rilevanti.

Primo: ai sensi dell'art. 61, Cost., "le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti" e "la prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni" (nel nostro caso, il 24 marzo). "Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti", le quali "possono essere convocate [anche] per la conversione dei decreti-legge" (art. 77, c. 2, Cost.). Dunque, le Camere - ancorché sciolte - fino a convocazione delle nuove agiscono in regime di prorogatio con poteri che, se non pieni salvo il limite di cui all'art. 85, c. 3, Cost. (tesi di Balladore Pallieri), neppure sono quelli della mera ordinaria amministrazione (Mortati), dovendosi piuttosto sposare una teoria intermedia, che faccia leva su un concetto ampio di tale "ordinaria amministrazione", oltre che sulle situazioni di "urgenza" (Paladin, Elia). Caso tipico: il riesame di leggi rinviate dal Capo dello Stato (si ricorda la vicenda che vide su fronti opposti il Parlamento del 1992 e l'allora Presidente Cossiga).

Secondo: anche il governo in carica al momento dello scioglimento delle Camere parrebbe restare in carica con poteri (sostanzialmente) pieni. Ad esempio, ai sensi delle stesse disposizioni costituzionali, può emanare decreti legge, mentre - secondo la prevalente dottrina - può chiedere alla Corte dei conti la "registrazione con riserva" (cosa per esempio preclusa a un governo sfiduciato). D'altronde, non si può pensare che non valga per il governo in carica al momento dello scioglimento delle Camere quel che vale per il governo in attesa di fiducia, i cui pieni poteri sono stati per esempio riconosciuti da Cons. Stato, 4 luglio 1956, n. 713 (per una analisi critica della questione, Paladin, Diritto costituzionale, Padova, 1995, 386 ss.). Proprio per ovviare a questa circostanza, vissuta in passato come un "inconveniente", è maturata la passi costituzionale per cui il Presidente del Consiglio, allo scioglimento delle Camere, debba presentarsi dimissionario al Presidente della Repubblica, che lo "invita a rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti". Queste dimissioni sono ritenute da alcuni costituzionalisti opportune, da altri obbligatorie; nessuno, però, prende neppure in considerazione il caso che non vi siano (cfr. Mazzoni Honorati, Lezioni di diritto parlamentare, Torino, 1997, 82). Invece Gentiloni non si è dimesso, per cui il riferimento agli "affari correnti" è, nel suo caso, del tutto incongruo; la pienezza dei poteri, sia pure in eversione del sistema costituzionale come si è consolidato nel periodo repubblicano, mi pare difficilmente contestabile. Il che, ovviamente, non vieta che comunichi le dimissioni davanti alle nuove Camere appena riunite, secondo una prassi che parte della dottrina ritiene non solo corretta, ma addirittura costituzionalmente dovuta (Biscaretti di Ruffia).

Terzo: il prof. Bin dà un po' troppo per scontato che il governo già in carica si presenti alle Camere per la fiducia entro 10 giorni dalla loro convocazione, facendo interpretazione estensiva dell'art. 94, c. 3, Cost. (cosa comunque accaduta, per onore di verità, almeno una volta: nel 1948, col governo De Gasperi). Alla tesi di Bin si potrebbe infatti obiettare che: (i) in punto di diritto, la disposizione è in realtà pensata per i nuovi governi guidati da un presidente incaricato, non per un esecutivo preesistente, il quale - dunque - ha già ottenuto la fiducia, ancorché dalle precedenti Camere (si veda p.e. Pizzorusso, Sistema istituzionale del diritto pubblico italiano, Napoli, 1992, 213; la questione non è espressamente trattata neppure in Bin - Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2003, 155); (ii) in punto di fatto, se è chiaro che il governo che non ottiene la fiducia debba dimettersi (arg. ex art. 94, c. 3), c'è incertezza tra i costituzionalisti sia sulla sanzione da comminare al governo che non si presenti nei termini alle Camere, sia su quale soggetto debba comminare questa sanzione (presumibilmente, proprio il Presidente della Repubblica che, nel caso di specie, potrebbe rimanere silente e inerte).

In conclusione. La "nuova normalità europea" - quella del Belgio, della Spagna, dell'Olanda, della Germania - potrebbe essere davvero importata anche in Italia. Un nuovo passo verso lo svuotamento di questo simulacro di democrazia: se nella legislatura appena terminata i partiti hanno appoggiato "governi del Presidente" al di fuori di un effettivo mandato popolare, nella prossima il mandato popolare (cioè il risultato elettorale) potrebbe semplicemente essere ignorato per un lungo lasso di tempo. Il risultato non potrebbe che essere un'ulteriore disaffezione degli elettori, con aumento continuo dell'astensione. Una ulteriore esternalità "positiva", cioè, per chi ritiene la democrazia "un rischio".

D'altronde, come chiosò Mario Draghi proprio alla vigilia delle elezioni di cinque anni fa, indipendente dal risultato resta attivo il "pilota automatico"...