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domenica 26 marzo 2017

Ancora su Mps (Cicero pro domo sua)

Il precedente post relativo agli ultimi dieci travagliati anni di vita di Montepaschi ha suscitato una certa eco, soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra economia e politica in generale e il ruolo della Fondazione Mps in particolare. Nel frattempo, per un caso fortuito, la materia è stata trattata, con un articolo a tinte forti da un noto blog di approfondimento senese.
In sostanza, la posizione è questa: "la responsabilità principale del disastro della Banca... va ricercato nel ruolo della Fondazione e nel Ministero del Tesoro di allora. Se la Fondazione opponeva un no alla volontà di Mussari di proseguire con l’operazione Antonveneta, la Banca non si troverebbe nelle condizioni attuali e la Fondazione non avrebbe dissipato il suo patrimonio. Chi ha dato l’autorizzazione alla Fondazione per l’indebitamento? Il Ministero del Tesoro... Stefano Scaramelli, attuale consigliere regionale del PD toscano..., ha detto candidamente di aver partecipato a una riunione del PD senese, con la presenza dell’allora presidente della Fondazione... Mancini, per mettere ai voti l’adesione della Fondazione all'aumento di capitale della Banca... Renzi... [dovrebbe] azzerare il gruppo dirigente nazionale e locale del PD e chiedere scusa per le macerie lasciate... con la gestione di Banca Monte dei Paschi...".
L'articolo è assolutamente apprezzabile quando sottolinea sia le responsabilità del Ministero del Tesoro (che ha preferito sacrificare la stabilità economica della propria vigilata, e mediatamente di una intera comunità, sull'altare di considerazioni attinenti all'evoluzione del sistema bancario nazionale, che avrebbero invece dovuto essere piuttosto di competenza di Banca d'Italia), sia la innegabile continuità tra la dirigenza dei DS con quella del PD renziano (con buona pace dello story telling della rottamazione, che tuttora - dopo tre anni di governo fallimentare - Renzi pare voler ancora alimentare), sia - infine - quando mostra come l'idea di un "Partito della Nazione" abbia avuto nel "Groviglio armonioso" il proprio padre ideologico (non a caso, uno dei principali "ispiratori" del Groviglio è anche l'ideatore del Patto del Nazareno).
Tuttavia, a mio avviso, un paio di precisazioni devono essere fatte.

In primo luogo, è a mio avviso necessario (anche per evitare certe tentazioni revanchiste) che nel dibattito senese si faccia largo la consapevolezza che il peccato originale della classe politica locale (cioè del PD e dei suoi antenati) non è stato l'acquisto di Antonveneta, bensì l'idea di poter creare un autonomo polo del credito saldamente in mano alla città.

Secondariamente, che la responsabilità principale della classe politica nazionale nella vicenda Mps (e, in generale, per quanto attiene il sistema finanziario del Paese) non si rintraccia in questa o quella influenza più o meno indebita, ma nell'aver supinamente accettato, quando non addirittura patrocinato, un sistema legale - di ispirazione comunitaria - esiziale per i nostri Istituti.

I. La città
Dare adito a ricostruzioni controfattuali, a mio avviso, non è un esercizio produttivo, perché geneticamente semplificatorio. Se la Fondazione avesse detto "no" a Mussari, è impossibile sapere cosa sarebbe successo, sia perché non è chiaro quali accordi - eventualmente vincolanti per la Banca - erano già stati presi dal suo Presidente con Santander, sia perché non è possibile ricostruire (neppure probabilisticamente) il destino di un Monte troppo grande per essere banca regionale e troppo piccolo per essere player nazionale.
Qui, il punto vero è un altro, e cioè la necessità di sottolineare l'assurda volontà dei responsabili politici senesi (in altri termini: del PD senese e dei suoi antecedenti)di mantenere la maggioranza assoluta del terzo gruppo bancario del Paese in mano a una singola fondazione, onde rendere la Banca non contendibile. Posta così la questione, è allora sì possibile fare un ragionamento controfattuale che abbia un minimo di logica:
- se la Fondazione non avesse detenuto oltre il 50% di Banca Mps, avrebbe subito un danno assai inferiore dal disastro derivante dall'acquisto di Antonveneta;
- se la Fondazione non avesse detenuto oltre il 50% di Banca Mps, avrebbe potuto dire di "no" non tanto all'acquisto di Antonveneta, quanto all'aumento di capitale del 2011, che ha invece sottoscritto quasi obbligata per motivi di tenuta del sistema bancario italiano.

I.a  Il mantenimento della maggioranza assoluta in Banca Mps
Come prima cosa, devo dare conto delle affermazioni di cui sopra. Perché la volontà di mantenere il controllo di Bmps è Siena sarebbe assurda? In fin dei conti, si tratta di una banca costruita su secoli di laboriosità della comunità senese.
Vero. Il problema che, a metà anni Duemila, si verifica una terrificante convergenza di eventi: (a) la definitiva liberalizzazione dei sistemi bancari europei; (b) un'abnorme facilità di reperimento di denaro a debito da parte degli Istituti.
La faccio molto breve. La despecializzazione introdotta col Testo Unico Bancario del 1993, la nascita dell'Euro (diciamo dal 1996, quando sono fissate le parità), le privatizzazioni di fine anni Novanta, le direttive 2000/12/CE e 2006/48/CE che riducono in modo assai significativo i poteri discrezionali delle Autorità di Vigilanza dei vari Paesi (per tutti questi fenomeni, cfr. Costi), unitamente alla grande frammentazione del sistema bancario del nostro Paese, che più tardi degli altri - e in misura minore - ha conosciuto vasti fenomeni aggregativi, oltre che alla enorme liquidità a disposizione delle banche (forti della crescente finanziarizzazione dell'economia e delle regole lasche di Basilea I) per operazioni con fortissima leva (in relazione alle quali rimando alla critica di Bagnai al "ragionamento der Biretta"), hanno comportato un'invasione massiccia del mercato italiano da parte dei colossi globali del credito, i quali (senza adeguati strumenti normativi) non potevano essere fermati. È la globalizzazione, bellezza!
Tanto più che alcune di quelle banche (le tedesche e le francesi) avevano l'ulteriore interesse, a investire in Italia, di controllare direttamente il flusso di risparmio che dai Paesi del Nord stava affluendo (sempre per colpa dei bassi tassi di interesse) al Sud per l'acquisto di beni di consumo. Fino alla crisi, ovviamente.
Nel vortice di queste potentissime forze giuridiche ed economiche, qualche Istituto ha - almeno per un po' - resistito fondendosi (Unicredit e Banca di Roma, Intesa e Sanpaolo). Qualche altro si è concesso al nemico (BNL, Cariparma). Montepaschi ha tentato di rimanere da sola ed è finita, per forza di cose, in mezzo al guado.
Ma l'opinione pubblica senese non avrebbe accettato fusioni!
Non è quello il problema.
Il problema è l'impreparazione della classe dirigente (che non discende dall'impreparazione della cittadinanza, ma al limite la determina). La possibilità per Fmps di scendere al 30%, cioè a una soglia di assoluta sicurezza (in quanto corrispondente alla soglia allora vigente per lo scattare dell'Opa obbligatoria), veniva direttamente dal neonato governo Berlusconi del 2006, il quale benediceva il c.d. "Emendamento Eufemi", cioè la proposta di “sterilizzazione del diritto di voto delle Fondazioni di origine bancaria nelle assemblee ordinarie e straordinarie delle società bancarie conferitarie per le azioni eccedenti il 30% del capitale”. Sarebbe bastato al Sindaco dare la colpa a B. brutto e cattivo, alzare un po' gli occhi al cielo come un San Sebastiano del credito, tranquillizzare tutti sul mantenimento del controllo de facto, quindi vendere a prezzi assai vantaggiosi una buona metà dell'interessenza in Montepaschi.
E invece no. Si scatena il fuoco di sbarramento, non solo a Siena, ma anche a Roma da parte di quella stessa Associazione che, qualche anno dopo, si sarebbe fatta vanto di aver concluso col Ministero delle Finanze un Protocollo all'interno del quale figura anche il divieto di esposizione - nei confronti di qualsivoglia soggetto finanziario - superiore a un terzo del patrimonio di ciascuna fondazione. Bravissimi a chiudere la stalla a buoi ampiamente scappati. Alla fine la Fondazione Mps (ma anche CR Firenze e Carige) vince la battaglia, grazie soprattutto ai buoni uffici di Giuseppe Guzzetti e dell'allora Governatore di Banca d'Italia, Mario Draghi.
(...le vittorie di Pirro...).
(...c'è un motivo se l'ACRI si schiera perinde ac cadaver con Montepaschi. Qualche anno prima, siamo nel 2001, Tremonti avrebbe voluto incrementare il peso degli enti locali nelle Fondazioni, soprattutto avrebbe voluto ridurre il peso della Fondazione Cariplo, che si poneva come un vero e proprio "contro-potere" anti-leghista in Lombardia. Si sarebbe trattato di un primo passo verso una ri-pubblicizzazione delle fondazioni. Più o meno quello che chiede - ora - il Sindaco di Siena. Ovviamente, la Fondazione Mps, che a quell'epoca aveva 12 membri su 16 nella Deputazione Generale nominati da Comune e Provincia, si straccia le vesti come se fosse messa in dubbio la propria autonomia, e segue le altre fondazioni sulla strada giudiziaria, fino al ricorso alla Corte Costituzione. Che produce le sentenze 300 e 301 del 2003. Dalla penna di Zagrebelsky, lo stesso del 'no' al referendum. Ma questo è tutto un altro discorso...).
Ceteris paribus, se la Fondazione avesse avuto il 30% di Montepaschi e non oltre il 50%, oggi avrebbe un patrimonio di un paio di miliardi di Euro. La Banca l'avrebbe persa lo stesso, e se la ricomprasse di nuovo la riperderebbe: purtroppissimo Sienina è in Italia e l'Italia è nell'UE, per cui... (ricordiamolo).

I.b  Le scelte del Tesoro
Ripeto: stante l'attuale framework giuridico e le connesse dinamiche economiche, una grande banca nazionale indipendente controllata dalla Fondazione Mps era ed è impossibile.
Di contro, una Fondazione forte e ricca, che agisce anche in ambito finanziario ma che soprattutto si concentra sullo sviluppo del proprio territorio, avrebbe potuto esistere.
Quello che, però, a Siena spesso non è chiaro è che il punto di discrimine fra ciò che è e ciò che sarebbe potuto essere non deriva dall'acquisto di Antonveneta, né dal relativo aumento di capitale, bensì dal successivo del 2011, quando la Fondazione - per mantenere la propria quota - raggiunse oltre un miliardo di Euro di indebitamento.
La domanda, giustissima, che tutti si pongono, attiene ovviamente a come sia stato possibile, per il Tesoro, autorizzare una follia di questo genere.
A spiegarlo è direttamente Vittorio Grilli al PM di Siena, così come è possibile leggerlo in un bell'articolo di Camilla Conti: "quanto al secondo aumento di capitale del giugno 2011, che fa indebitare ulteriormente l’ente senese con un pool di 11 banche, Grilli aggiunge: «l'autorizzazione è stata data per l’importanza di finalizzare un aumento di capitale a salvaguardia dell’integrità della banca stessa e quindi dell’investimento stesso della Fondazione [da «e quindi...» la frase è una scusa postuma, anche poco riuscita visti gli sviluppi successivi, N.d.R.]. Non essendo contra legem era poi nel giudizio della Fondazione considerare bene i rischi. Questo non pregiudica l’opportunità che la Fondazione, procedesse a una diluizione e a una maggiore diversificazione degli investimenti» [Se la scelta fosse o meno contro la legge - in particolare contro gli artt. ...., ...., e ... dello Statuto della Fondazione, lo stabilirà presto un giudice civile, N.d.R.]. Morale: l’autorizzazione alla partecipazione all'aumento di capitale dal punto di vista del Tesoro rafforzava sia la banca sia l’investimento della Fondazione. Perché, conclude Grilli, «la preoccupazione del Tesoro era anche quella di salvaguardare il sistema finanziario italiano». A ogni costo.".
Anche la Fondazione, all'epoca dei fatti, sposava questa tesi: "qualcuno ha criticato la necessità, per una fondazione (con conseguente autorizzazione del Ministero) di mettere a rischio la propria attività erogativa futura in nome della difesa della proprietà di Banca Mps, stravolgendo di fatto la natura stessa di un Ente che, per definizione, non dovrebbe contrarre debito rilevante. Ma la difesa della senesità di Montepaschi è un nostro fine statutario così come l'attività filantropica... La verità e che il debito della fondazione è servito a garantire il successo della ricapitalizzazione della terza forza del sistema bancario italiano, con in pancia, come le più importanti banche del nostro Paese, notevoli quantità di debito pubblico italiano. Un Interesse nazionale con la I maiuscola, e ciò il Ministero, che aveva spinto per il rafforzamento patrimoniale della Banca, lo ha capito molto bene. Forse nessuno se ne è accorto, ma nei giorni scorsi a Siena si è compiuta, con pieno successo [sic!, N.d.R.], un'operazione che rimarrà nella storia della finanza [in effetti..., N.d.R.], per la sua importanza nel sistema bancario italiano".
Non ci vuole Pico della Mirandola a capire due cose: (i) che si tratta dell'ammissione, da parte del Ministero, di aver sacrificato i risparmio plurisecolari di una comunità sull'altare della stabilità finanziaria del Paese (un bail-in anzitempo, che ha riguardato una città intera), per cui - se Fmps non avesse proposto di aderire - probabilmente il Mef l'avrebbe imposto; (ii) qualora la Fondazione avesse avuto una quota molto inferiore, il Tesoro non si sarebbe mai sognato di approvare una operazione di quel genere.

II. La politica nazionale
Che i politici romani si siano molto interessati a Mps, come a tutte le banche, è vero. Che il PD ed i suoi antenati vi abbiano spadroneggiato (più Veltroni, Bassanini, Amato, Berlinguer, che D'Alema, a onor del vero) è un fatto. Che Forza Italia fosse "stampella del sistema" lo stesso. Ugualmente, è patrimonio comune che le nomine nel C.d.A. dell'Istituto si facessero in accordo con Roma, prima con le riunioni, poi con WhatsApp.
Ma il problema, o almeno il problema più importante, non è questo.
L'attuale classe dirigente, in particolare quella del PD, è responsabile del disastro del Monte soprattutto per aver approvato norme che l'hanno (se non prodotta) quanto meno assai aggravata, rendendola poi - con l'inerzia renziana - sostanzialmente incurabile.
A cosa mi riferisca l'ho già detto, in parte, sopra. Ma lasciamo pure da parte gli antecedenti "di fondo" (a partire dalle due scelte perniciose del "divorzio" fra Banca d'Italia e Tesoro e quindi dell'adesione, a un cambio palesemente sopravvalutato, all'Euro) per concentrarci solo su alcune specifiche decisioni e sui loro terribili effetti.
Il governo Ciampi - padre di tutti i tecnici e di tutte le "Grandi Coalizioni" - appronta, a settembre 1993, il nuovo Testo Unico Bancario, che riprende le spinte delle prime due Direttive in materia della Commissione e porta sia alla definitiva liberalizzazione della proprietà. degli Istituti di credito (cioè alla abolizione dell’obbligo del controllo pubblico sulle banche trasformate in S.p.A.), sia al definitivo superamento della specializzazione "per legge" (cioè alla ammissione nel nostro ordinamento della "banca universale"). Il triennio 1992-1994 è d'altronde quello delle grandi privatizzazioni, quanto meno dal punto di vista formale. Saranno poi i governi Prodi e D'Alema, tra 1998 e 1999, a mettere a punto la riforma che farà nascere le fondazioni bancarie.
Come ho cercato di dimostrare, proprio tutte queste modifiche normative, unitamente al progredire dell'integrazione europea e all'introduzione dell'Euro, sono alla base del processo di consolidamento del settore bancario italiano nella prima metà degli anni Duemila, fino alla crisi del 2008 che interrompe in modo violento il trend.
Eh, direte voi, ma il consolidamento è un bene! Mica è colpa dei nostri politici se la finanza italiana non era pronta a competere con i colossi europei.
Il discorso, in realtà, va ribaltato.
Un ceto politico che ha a cuore le sorti del proprio Paese non lo getta nei marosi quando sa che quel bambino non può ancora nuotare; prima gli insegna, quindi, quando è pronto, lo fa competere. Questa è la colpa storica - la gravissima colpa storica - di chi ha governato l'Italia da Mani Pulite (del 1992, et pour cause...) ad oggi.
Sì, ad oggi.
Perché non consolidare le banche al momento opportuno per rispettare ridicoli vincoli di bilancio, per di più rendendole ancora più vulnerabili a causa della perseguita distruzione della domanda interna (Monti), accettare l'Unione Bancaria senza l'introduzione dell'EDIS (Letta e Saccomanni), infine esserne l'esecutore attuando in Italia - senza se e senza ma - la normativa sul bail-in (Renzi) è appunto questo: pretendere di far competere un pesce e una gazzella, ma soltanto dopo aver alluvionato la pianura.

Questa è la verità. Questa è la colpa vera del PD. Parlare del resto, di tutto il resto - sì ma Verdini, sì ma la corruzione, o (a Siena) sì ma Banca 121, sì ma le nomine - è un modo per distrarre, dunque per fare, oggettivamente, il gioco dell'avversario. Perché prendersela con questo quell'esponente di un partito permette di cambiare esponente e salvare il partito, quando invece è la stessa ideologia dominante che deve essere modificata in radice.
Altrimenti, tutto cambierà. Per non cambiare nulla. Un'altra volta.

venerdì 17 marzo 2017

Una storia italiana (dieci anni di Mps dall'acquisto di Antonveneta)

Pare che - dopo qualche settimana di incomprensioni - finalmente la BCE abbia abbassato le proprie pretese su Montepaschi (ricapitalizzazione da 6 miliardi e mezzo invece che quasi 9) al fine di rendere l'intervento statale compatibile, secondo la visione della Commissione, con le norme sugli Aiuti di Stato. Siccome nulla è gratis, il minor apporto di risorse statali dovrebbe essere controbilanciato da una significativa riduzione degli attivi di Mps, riduzione che si traduce - ovviamente - anche nel ridimensionamento della rete e, dunque, del numero dei lavoratori.
I possibili esuberi sono stimati addirittura in 5.000.
Questa "cura dimagrante", tra l'altro, sarebbe funzionale alla successiva cessione del Monte dallo Stato ai privati (altro dogma della Commissione UE, soprattutto in caso di banche del Sud Europa), sia che del Monte si faccia uno spezzatino, sia che qualche grande player non ne acquisisca la totalità (cosa che, peraltro, a mio avviso, è assai poco probabile).
In ogni caso, cinquecento anni di storia di chiudono qui, dopo dieci anni di patimenti.
In Parlamento sono state presentate alcune proposte per la costituzione di una Commissione di inchiesta sul sistema bancario italiano in generale e su Mps in particolare. A mio avviso, c'è poco ancora da scoprire (a meno di non far finta di non vedere).
Qui di seguito i fatti, come li conosce - o li dovrebbe conoscere - il pubblico.

ANTEFATTO 1: IL RISIKO BANCARIO

Negli anni Novanta l'Italia, soprattutto sotto la spinta della sempre più massiccia legislazione di origine comunitaria (Testo Unico Bancario e Testo Unico della Finanza) e interna (p.e. Decreto delegato sulle fondazioni bancarie), la crescente volontà dei governi di dismettere l'ingente patrimonio industriale pubblico, la forzata integrazione dei sistemi finanziari dei Paesi dell'Euro, si pongono le basi per il successivo lustro di risiko bancario (che culmina con le fusioni fra Intesa e Sanpaolo nel 2006 e fra Capitalia e Unicredit nel 2007), spinto anche - evidentemente - dalla bolla speculativa che esploderà con gli esiti che sappiamo in USA con la crisi dei subprime.
È in questo clima che - siamo nella primavera del 2005 - si sovrappongono alcuni fatti che avranno conseguenze pesantissime per tutto il Paese: (i) la banca spagnola BBVA, che possiede il 15% di BNL (che controlla, in patto di sindacato con Della Valle e Generali), lancia un'Ops sulla banca romana; (ii) ABN Amro - che l'anno precedente era salita al 20% di Antonveneta - lancia l'Opa su BAV; (iii) Banca Popolare di Lodi, che detiene il 15% di Antonveneta, lancia un'Offerta pubblica di scambio su Antonveneta in concorrenza con quella di ABN Amro; (iv) a luglio Unipol lancia un'Opa su BNL, in concorrenza con l'Ops di BBVA.
In sostanza: i colossi stranieri cercano di fare shopping in Italia, alcuni player del nostro Paese cercano, sia pure con limitate munizioni, di opporsi. Il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, cerca di aiutare - per quanto di sua competenza - le imprese nazionali, in oggettiva difficoltà (la Popolare di Lodi è più piccola di Antonveneta, che vorrebbe acquistare; Unipol è una società di assicurazioni, e per di più cooperativa); D'Alema - sebbene a posteriori smentirà - vede con favore l'attivismo di Fazio (Gnutti è uno dei "capitani coraggiosi"), il resto dei DS - di comprovata fede europeista (Amato, Visco) - no; Berlusconi, come di consueto, non sa che pesci prendere.
Come di consueto, la situazione è risolta dalle Autorità sedicenti indipendenti e dalla magistratura, ovviamente a favore dei concorrenti stranieri.
Fiorani, che al timone della Popolare di Lodi è riuscito a rastrellare la maggioranza assoluta di BAV insieme a Unipol, a Hopa ed a quelli che sono poi passati alla storia come "furbetti del quartierino", viene prima obbligato a un'impossibile Opa su Antonveneta, quindi è iscritto nel registro degli indagati insieme a Gnutti, Ricucci, Coppola, Consorte e tutta la compagnia per aggiotaggio (avrebbero fatto salire i titoli di BAV sopra il valore di Opa di ABN) e svariati reati societari (connessi al ruolo di Fiorani in BPL). Nell'estate del 2005, la solerte procura di Milano sequestra le azioni di BAV detenute dagli indagati, poi - accusandolo addirittura di associazione a delinquere - arresta Fiorani. Come si sul dire, "l'inchiesta si allarga", fino a dicembre 2005 quando si dimette Antonio Fazio. Il tutto si è poi risolto nel 2012 in Cassazione: Fazio è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione e Fiorani a un anno, per i reati di aggiotaggio, appropriazione indebita e ostacolo all'autorità di vigilanza (non per associazione a delinquere).
Comunque, questo non è importante, perché il risultato è raggiunto: il 3 gennaio 2006, "a seguito dell'acquisto del 25,9% del capitale precedentemente in mano a lodi, ABN Amro acquisisce definitivamente il controllo di Antonveneta arrivando al 55,8% del capitale e si prepara a lanciare entro il mese l'OPA obbligatoria sull'intero flottante dell'istituto di credito alle stesse condizioni dell'offerta promossa nel luglio precedente, andata deserta per l'opposizione della Popolare di Lodi e dei suoi alleati di allora" (cfr. Wikipedia; ABN Amro spende 8 miliardi di Euro).
Veniamo a BNL. Unipol, il 18 luglio 2005, acquista il pacchetto azionario di Caltagirone e degli altri "immobiliaristi" e lancia un'Opa da quasi 5 miliardi di Euro, cui pochi giorni dopo aderisce anche il BBVA (è il famoso: "abbiamo una banca!"). Il 23 settembre, però, Consorte è sentito in Procura a Roma. A fine anno è indagato insieme ai suoi collaboratori, agli "immobiliaristi" (con cui avrebbe concluso - con gli auspici del governatore della Banca d'Italia, per dirla con la sentenza di primo grado - un Patto di sindacato non dichiarato, volto a non aderire all'Ops di BBVA e cedere a Unipol le azioni detenute), a Fiorani (che gli avrebbe reso in BNL il favore prestatogli in Antonveneta), a Fazio. Andranno tutti assolti.
Comunque Banca d'Italia, tolto di mezzo per via giudiziaria Fazio, blocca l'Opa il 3 febbraio 2006: lo stesso giorno, ma sarà un caso, BNP Paribas rileva il 48% di BNL e lancia l'Opa definitiva. BBVA (la banca "laica" di Spagna, rispetto al Santander "banca cattolica": ricorderete Mussari in pole position per la guida dello IOR) lascia il mercato italiano.

ANTEFATTO 2: LA BELLA DI CAMPIGLIA

A inizio del nuovo Millennio, come detto, inizia il risiko bancario. Il Pds, in particolare D'Alema, Visco, Amato (all'epoca Ministro del Tesoro), spingono per un'aggregazione fra Mps e BNL. L'allora sindaco di Siena Pierluigi Piccini dice di aver incontrato proprio D'Alema nell'estate del 2000 e di aver avuto "scontri molto duri" sulla questione con Antonio Fazio. Piccini è infatti fautore di "un progetto alternativo di natura aggregante... elaborato assieme a Goldman Sachs, secondo cui Mps avrebbe potuto essere un polo di attrazione per istituti medio-piccoli a forte vocazione locale che avrebbe consentito a Siena di ampliare la propria rete commerciale su tutto il territorio nazionale, un modello molto simile a quello di alcune grandi casse di risparmio tedesche". In questo modo, il controllo sarebbe rimasto a Siena, non a Roma.
È patrimonio comune, a Siena, che il famoso "Decreto Visco" (Ministro del Tesoro, Giuliano Amato presidente del consiglio) sia stato poi emesso ad personam, come ritorsione volta ad evitare l'elezione del medesimo Piccini a Presidente della Fondazione Mps. Al suo posto va Giuseppe Mussari, che insieme a Ceccherini e Ceccuzzi rappresenta l'ala meno senese-centrica del partito. Mussari, però, è a suo modo un personaggio shakespeariano ed agisce in modo meno lineare del previsto.
Ora, riguardo a come siano andate le cose, circolano due versioni.
La prima (tesi "Piccini"). Al contrario di quanto ci si attende, Mussari in sostanza non persegue una fusione che avrebbe fatto perdere alla Fondazione Mps la maggioranza assoluta del nuovo Istituto e sfrutta abilmente le resistenze del management di BNL per far naufragare, a fine 2002, qualsiasi possibile integrazione. La stessa volontà di preservazione della "senesità" di Mps lo porta a negare aiuto a Unipol nella scalata del 2005 a BNL (una ricostruzione a mio avviso buona di quel progetto si trova qui).
La seconda (tesi "Bassanini"). I vertici della Fondazione raggiungono un accordo con BNL e con il BBVA, secondo cui prima Mps si sarebbe fusa con BNL, in modo da far scendere il BBVA al 18% della "nuova" Mps e la Fondazione a circa il 35%, quindi la "nuova" Mps si sarebbe addirittura fusa con lo stesso BBVA, creando un gruppo mondiale di cui la Fondazione Mps sarebbe stata il primo azionista con circa il 9% (per una ricostruzione che armonizza le due in un pastiche incredibilmente tendenzioso, v. qui). Di contro, Mussari e Ceccuzzi - nel frattempo meno dalemiani e più veltroniani (Veltroni nel 2007 diviene il primo segretario del PD) - si opposero fortemente a fare i "portatori d'acqua", come si disse, alla finanza (rossa sì, ma) bolognese, arrivando addirittura a non far vendere a Consorte la quota di Mps in BNL.
Non ho informazioni in materia, ma la seconda tesi mi sembra assai più verosimile.
Dunque, niente BNL e niente BBVA.
Ecco allora che sembra entrare in gioco il Sanpaolo di Torino. Tutti gli ingredienti di un matrimonio ben riuscito ci sono: scarsa sovrapposizione territoriale, stesse "simpatie" politiche, necessità impellenti di rafforzamento (come detto sopra, Santander era un "socio scomodo" di Torino), addirittura lo stesso avvocato. Se ne parla e, secondo alcune fonti giornalistiche, si raggiunge anche un accordo. "D'Alema va in vacanza sicuro" dell'operazione. Poi, di colpo, tutto cambia e Sanpaolo si accasa da Intesa. Grandi architetti dell'operazione: Prodi, Guzzetti e Bazoli. Finanza cattolica 1, Finanza rossa 0. E palla al centro.
Montepaschi resta sola, come la Bella di Campiglia. In attesa del Santander, il suo Galeotto. Da quel giorno più non vi lesse innante.

LA VICENDA MPS

L'8 novembre 2007 Mps dà l'annuncio dell'acquisto di Antonveneta, da Santander. per 9 miliardi di Euro.
Il prezzo appare immediatamente eccessivo, nel senso che incorpora - secondo le stesse ricostruzioni dell'Istituto acquirente - la massima estrazione di valore possibile dall'acquisizione anche in termini di sinergie ed efficientamento di procedure. In borsa - anche in considerazione del fatto che Santander aveva pagato la banca italiana, allora di proprietà di ABN Amro 6,6 miliardi di Euro a maggiore dello stesso anno - Mps perde l'11% in una seduta.
Come spesso accade in queste circostanze, i numeri riportati nei comunicati, sulla stampa, dagli analisti, non sono del tutto perspicui.
Intanto, va chiarita la significativa differenza fra il "prezzo" di acquisto di BAV e "l'esborso" monetario di Mps, pari a circa 17 miliardi di Euro. Infatti, ai citati 9 miliardi di Euro si devono aggiungere quasi 1 miliardo tra interessi e commissioni relativi all'operazione, e la sostituzione con linee di credito proprie dei finanziamenti da cpl. 7,5 miliardi che Santander aveva accordato ad Antonveneta per migliorarne la liquidità. Tra il 30 maggio 2008 (data del perfezionamento dell'accordo fra le parti) e il 30 aprile 2009, partono da siena 8 bonifici, di cui uno da 9,3 miliardi di Euro a favore di ABN Amro, 5 per oltre 5,2 miliardi di Euro a favore di Santander, infine 2 - uno da 2 miliardi e mezzo, l'altro da 123 milioni - alla Abbey National Treasury Service di Londra (una controllata di Santander). Il perché di quest'ultima scelta resta ancora, diciamo, un mistero. Non è un mistero, invece, che Botin avrebbe riferito ai membri del proprio C.d.A. di aver avuto la netta sensazione che Mussari non avesse la più pallida idea dei debiti di Antonveneta nei confronti della propria controllante.
Ugualmente, è errato dire che Santander ha comprato BAV da ABN Amro a 6,6 miliardi di Euro: in primo luogo, perché si tratta di un valore contabile, più che di una transazione; secondariamente, perché in realtà a quella data Santander non aveva comprato alcunché. La vicenda è illuminante del modo di fare banca dell'epoca. ABN Amro è una delle prime vittime illustri della crisi, tanto da giungere, nella primavera del 2007, sull'orlo del fallimento: si sfidano allora per rilevarne gli asset Barclays da una parte e un consorzio formato da RBS, Santander (interessato alle attività brasiliane del colosso olandese) e Fortis (interessato alle attività in Belgio e Olanda) dall'altro. Il consorzio vince, grazie a un'offerta da 71 miliardi di Euro, di cui quasi il 28%, cioè quasi 20 miliardi, a carico di Santander. Di questi, 6,6 miliardi sono contabilizzati nei libri della banca iberica come afferenti l'acquisto di Antonveneta, ma solo a fini di bilancio.
La peculiarità di quella che fu definita "l'Opa del secolo" è che, tuttavia, nessuno degli acquirenti aveva il becco di un quattrino: RBS, che finanzia a debito l'operazione pur in un contesto di altissimo rischio di liquidità (Rutigliano, L'analisi del bilancio delle banche, Milano, 2012, 228), a seguito del blocco dell'interbancario connesso con il fallimento di Lehman Brothers deve essere salvata dal governo del Regno Unito (tra fine 2008 e 2009, ma con riflessi persistenti ancora oggi); Fortis va in crisi di liquidità ancora prima, a settembre 2008, dopo che alcuni tentativi di acquisto-salvataggio si scontrano con 40 miliardi di crediti a rischio (subprime, derivati, commercial paper), e viene smembrata, in modo che le attività olandesi sono acquistate dallo Stato de L'Aja (il quale le riporta sotto il brand di ABN, che dunque come un'araba fenice rivive sotto il controllo statale, tuttora in essere). Santander, invece, si salva con una serie di operazioni ai limiti dell'incredibile: (1) enorme plusvalenza su una piccola partecipazione in Sanpaolo (quasi 600 milioni); (2) furto con destrezza ai danni dei risparmiatori spagnoli (un convertendo da 7 miliardi di Euro che alla data di conversione, nel 2012, aveva perso metà del suo valore: Santander è stata condannata a pagare 17 milioni di Euro per condotta fraudolenta); (3) vendita a prezzi da capogiro di BAV (Mps versa diretta a ABN Amro i 9 miliardi del prezzo, alleviando così della metà il peso dell'acquisto della banca olandese che Santander avrebbe dovuto sostenere).
Perché Mussari fa questo? Perché la Banca d'Italia, con a capo Draghi e Anna Maria Tarantola, non obietta nulla?
1) Perché o Mps cresce dimensionalmente o è un pesce abbastanza piccolo da essere mangiato dalle grandi banche europee (il Titanic del sistema finanziario globale è pronto per affondare, ma nel 2007 l'orchestrina sul ponte suona ancora a tutto volume). E questo, a Siena, ma anche in certi ambienti del PD romano, non si vuole permetterlo.
2) Perché all'interesse di Siena si aggiunge l'interesse di Madrid (che vuole togliersi di torno una banca che, già si sa, non brilla per qualità del credito). E Botin andava pure indennizzato, in qualche modo, delle porte in faccia appena ricevute in Sanpaolo.

Interludio 1. Commenti preveggenti.
Prodi: "La cosa in sé della creazione del terzo gruppo bancario italiano è certamente da vedere con occhio positivo. Dal punto di vista strategico ne ho un'impressione positiva".
Ceccuzzi: "Antonveneta? Un capolavoro della banca senese, che è sempre più solida".
Cenni: "Si tratta di una grandissima operazione che fa crescere la banca. Un'operazione fatta senza rumors e senza clamore, nello stile di Montepaschi".
Claudio Martini: "Questa acquisizione fa del Monte una delle principali realtà bancarie del Paese e consentirà di svolgere un ruolo ancora più importante a sostegno della crescita dell'economia toscana e nazionale".
A posteriori, il prof. Di Tanno, allora presidente del Collegio Sindacale di Mps, dichiarò che Antonveneta valeva meno di 2 miliardi e mezzo di Euro e che Mps aveva comprato un Istituto senza alcuna seria due diligence.

A maggio 2008, cioè alla vigilia dell'alluvione di bonifici a favore di Santander, Mps lancia con successo: (i) un aumento di capitale da quasi 5 miliardi, di cui la Fondazione Mps sottoscrive quasi 2 miliardi e 900 milioni di Euro; (ii) un ulteriore aumento di capitale, da 950 milioni, sottoscritto da JP Morgan, a servizio di un convertibile da 1 miliardo, emesso da Bank of New York, noto come Fresh (Fmps se ne assicurerà 490 milioni tramite tre derivati); (iii) un subordinato upper tier 2 da 2 miliardi collocato alla clientela retail (di cui parleremo).
Il Fresh è uno strumento molto complicato, che però ha il vantaggio di raccogliere denaro sul mercato considerandolo capitale proprio (come le azioni) ma senza diluire, almeno nell'immediato, i soci attuali dell'Istituto (si tratta di una specie di coco bond, come quelli emessi da Unicredit, Deutsche Bank e... Santander). Sia come sia, la Vigilanza richiede espressamente a Mps, sin dall'emissione, di assicurare che le relative strutture contrattuali siano coerenti con la natura di "qualità primaria" assegnata allo strumento e di garantire il pieno trasferimento a terzi del rischio di impresa: a tale fine, il regolamento del bond prevede che non siano pagate le cedole in caso di perdita d'esercizio e poi, dopo le modifiche del 2009 volute da Banca d'Italia, anche in caso di utile non distribuito. Qui, però, nasce l'inghippo, perché pare che - senza dire nulla alla Vigilanza - Mps sottoscriva tre side letter le quali, di fatto, garantiscono in ogni caso il pagamento delle cedole a favore di JP Morgan, Bank of New York e alcuni fondi. Inoltre, per non far scattare la clausola, Mps distribuisce, a valore sul bilancio 2009, soltanto un misero centesimo a ciascuna delle azioni di risparmio: a fronte di poche centinaia di migliaia di Euro di dividendi, si legittima il pagamento di decine di milioni. Attenzione, perché quel bilancio chiude in utile grazie ad alcuni artifici di cui parleremo in seguito.
Metà del Fresh è sottoscritto dalla Fondazione.
Anche in questo caso, è interessante (rispetto a quello che si dirà in seguito) notare come: non direttamente, bensì mediante tre swap che, in sostanza (essendovi il tacito accordo fra le parti di regolare il derivato mediante consegna fisica dei titoli e non per cash settlement), si risolvono in un acquisto tramite finanziamento (la banca B acquista fisicamente il titolo; B e la fondazione F concludono un total return swap; in base allo swap: (i) B si impegna a cedere il titolo a F, a una certa data, al suo prezzo di acquisto, e - correlativamente - F si impegna a comprare; (ii) B gira sin dal principio le cedole del Fresh, incassate in quanto proprietario del bond, a F; (iii) F, fino ad acquisto del bond, paga un certo tasso di interesse fisso a B calcolato sul nominale del Fresh stesso).
Ma la Fondazione sottoscrive anche metà dell'aumento di capitale.
Per fare questo liquida quasi per intero le proprie gestioni patrimoniali esterne (circa 3 miliardi) e concentra - con un'interpretazione un po' eccentrica dei principi di "sana e prudente gestione" e di "diversificazione del patrimonio", previsti dalla normativa di settore - la maggior parte delle proprie risorse nella sola Banca Mps.
Si tratta di un passaggio molto importante, che rappresenta la genesi delle successive difficoltà della Fondazione Mps in particolare e della città di Siena in generale. Non a caso, ecco cosa dice il Comunicato della stessa Fondazione del 18 luglio 2014, "la Deputazione Generale... ha esaminato il parere reso dal prof. Giorgio De Nova..., [che], esclusa la sussistenza di altri profili di responsabilità, si esprime per la sussistenza di profili di responsabilità in capo ai componenti degli Organi della Fondazione e a terzi connessi all'adesione della Fondazione agli aumenti di capitale... del 2008 funzionali al reperimento dei fondi necessari per l’acquisizione... di Antonveneta. Ad esito della riunione la Deputazione Generale ha ritenuto sussistere i presupposti per l'esercizio dell'azione di responsabilità con riferimento all'operazione esaminata a carico dei componenti della Deputazione Amministratrice allora in carica e degli advisor che hanno rilasciato la fairness opinion sul prezzo di acquisto di... Antonveneta".

Il 15 settembre 2008 fallisce Lehman Brothers e il mondo (non solo finanziario) cambia.

Ad aprile 2009 Mps - il cui capitale in rapporto alle attività ponderate per il rischio si è ridotto al di sotto dei limiti previsti dall'Autorità di vigilanza, stante l'incremento delle attività derivante dall'acquisizione di BAV, non adeguatamente compensate da operazioni di rafforzamento patrimoniale (sull'aggregato, infatti, influiva negativamente il significativo avviamento - cioè la quota-prezzo pagata a fronte di nulla - derivante dall'operazione di acquisto di BAV, circa 6 miliardi, oltre che il filtro prudenziale del 50% posto da Banca d’Italia sul beneficio fiscale netto iscritto a conto economico derivante dal trattamento contabile dell’imposta sostitutiva per l’affrancamento fiscale dell’avviamento medesimo, delicato regalo del governo Berlusconi) - annuncia di voler richiedere i c.d. "Tremonti bond" per 1 miliardo e 900 milioni (Banco Popolare ne richiederà 1 miliardo e 450 milioni; Banca Popolare di Milano 500 milioni; Credito Valtellinese 200 milioni). Costo dell'operazione stimato: 160 milioni all'anno, per 4 anni.
Le cose iniziano ad andare male. Il bilancio 2008 chiude con un utile di 923 milioni di Euro derivante dalla contabilizzazione delle minori imposte rivenienti dall'affrancamento dell'avviamento di BAV per oltre 1 miliardo di Euro; il successivo, relativo al 2009, riduce l'avanzo a 220 milioni, riveniente da circa 240 milioni di Euro incassati dalla vendita di una quindicina di sportelli; a fine 2010 - si tratta del bilancio del centesimo, di cui si è detto sopra - l'utile di 628 milioni è ottenuto principalmente (580 milioni in tutto) dalla cessione di immobili (Casaforte: v. sotto), di 72 filiali, nonché di Prima SGR a di AM Holding.
Il 2008 e il 2009 sono anche gli anni di Santorini e Alexandria.
Santorini è una società-veicolo costituita da Mps e Deutsche Bank (DB) nel 2002, quindi posseduta interamente da Mps nel 2006, che detiene un - più volte ristrutturato - equity swap su azioni Sanpaolo IMI (poi Intesa Sanpaolo). Nel 2008, al calare improvviso dei corsi di borsa delle azioni delle banche italiane, il derivato, già precedentemente negativo, espone Mps a una perdita significativa, pari a oltre 300 milioni. A compensazione, DB predispone due fasci di tre total return swap (o TRS), ciascuno contenente un derivato esplicito su tassi di interesse (IRS) e un derivato implicito sul rischio-Paese Italia (CDS): il primo fascio, sottoscritto da Santorini, da chiudersi nel 2008; l'altro, sottoscritto da Mps, tale da produrre effetti nel tempo. I due fasci di derivati (contabilizzati "a saldi aperti" da Mps, cioè come se non fossero in realtà operazioni complesse di assicurazione di DB contro il rischio-Paese Italia, bensì più accordi separati aventi cause economico-giuridiche diverse) sono identici, salvo che nella determinazione dei tassi da corrispondere a DB: in questo modo, i derivati da chiudere entro fine anno assicurano un provento da quasi 365 milioni di Euro a Santorini, mentre quelli stipulati da Mps espongono la Banca a una minusvalenza implicita (ove contabilizzati "a saldi chiusi", cioè come un'unico derivato) di almeno 430 milioni. A rendere sostanzialmente certi i calcoli, la circostanza che gli indici in base a cui effettuare i calcoli sono gestiti direttamente dalla stessa Deutsche Bank.
Parentesi importante: ciò che rende questi contratti, di fatto, un unico CDS sul rischio Italia è - oltre la presenza di tutta una serie di peculiari clausole pattizie - la circostanza che il loro sottostante (che è tra l'altro oggetto di puntuali disposizioni fra le parti) è rappresentato da 4 miliardi di Euro di BTP con scadenza prima al 2020 e poi, dal 2009, al 2031. Questi BTP, secondo la Procura di Milano, sono stati venduti a Mps dalla stessa DB tramite una società interposta (Abaxbank), ricevuti indietro da Mps in forza dei TRS, quindi da DB rigirati alla società interposta. In sostanza: non sono mai stati di proprietà né di DB, né di Mps, sebbene figurassero nel bilancio di Montepaschi. Solo per questo (operazione circolare c.d. cash neutral) la contabilizzazione a saldi aperti è ingiustificabile.
Alexandria è un veicolo di Mps che, nel 2005, acquista 400 milioni di un "CDO squared" (cioè un titolo tossico infarcito di subprime) da Dresdner Bank, e più precisamente da Raffaele Ricci, che poi lascia la banca tedesca per approdare a Nomura. Nel 2009, con la crisi finanziaria in corso, le notes rischiano di dover essere svalutate fino a zero, così che in Mps si inizia a pensare a una struttura simile (sebbene ancora più complessa) a quella utilizzata per Santorini. JP Morgan, interessata della questione, tuttavia rinuncia, ritenendo che i derivati conclusi tra le parti dovessero essere contabilizzati da entrambi i sottoscrittori "a saldi chiusi", clausola che Montepaschi, evidentemente, non poteva accettare. Ecco che, allora, interviene Nomura, che accoglie i termini essenziali dell'operazione e li sottoscrive nel quadro del c.d. mandate agreement, segretissimo accordo che - guarda un po' il caso - un bel giorno Viola (qualche mese dopo l'ispezione di Banca d'Italia finita a marzo 2012...) troverà nascosto a sua insaputa nella cassaforte del suo stesso ufficio. Per farla breve: Nomura acquista a 220 milioni di Euro (valore di bilancio del veicolo) Alexandria, in modo da evitare perdite a Mps; Mps entra in una complicatissima operazione con Nomura, ai sensi della quale: (i) Mps concede a Nomura una linea di finanziamento da oltre 3 miliardi di Euro volta a garantire Nomura dal rischio di doppio default di Mps e della Repubblica Italiana; (ii) Mps acquista da Nomura, in base a un contratto di asset swap, i medesimi 3 miliardi in BTP al 2034 (anche in questo caso, la vendita dei titoli è del tutto fittizia), paga alla controparte un differenziale tasso fisso (pari alla cedola del BTP) contro tasso variabile, accetta che l'eventuale default della Repubblica Italiana sia causa di scioglimento del contratto; (iii) Nomura acquista da Mps sempre gli stessi 3 miliardi di BTP, ferme in pratica le medesime clausole del punto precedente (leggermente più favorevoli per Mps), in modo che - alla fine - Mps ha venduto a Nomura protezione (credit default swap) per 25 anni sul BTP 2034 a un tasso molto al di sotto di quello di mercato.
Riassumendo: DB e Nomura si accollano perdite di Mps che avrebbero gravato sui bilanci 2008 e 2009 della Banca. Per fare questo, creano complesse strutture in derivate che, alla fine, grazie a clausole contrattuali particolarmente ardue da ricostruire, - cfr. per esempio qui e qui - si sostanziano nella vendita, da parte di Mps, di un credit default swap (cioè un'assicurazione sulla solvibilità dell'Italia) a prezzi molto inferiori a quelli di mercato. L'unica possibilità per Mps di non portare le perdite implicite nel credit default swap era quella di non riconoscere l'operazione come tale ("a saldi chiusi"), bensì come una serie di operazioni diverse, fra loro sconnesse ("a saldi aperti").
Queste operazioni sono oggetto di procedimenti penali.
Ma anche l'altra trovata di quel periodo, nota come Casaforte, non è male.
Siamo sempre nel 2009 e Mps concepisce un'operazione di sale and lease back delle filiali del Gruppo (circa 700 immobili, valutati 1 miliardo e 700 milioni di Euro). A luglio, Mps (banca) concede a Mps (immobiliare) un mutuo ipotecario di 1 miliardi e 670 milioni; nel frattempo, Mps (immobiliare) affitta a Mps (banca) gli immobili in questione con contratti di 24 anni. A questo punto gli immobili, insieme al loro bel mutuo ed ai contratti di affitto, vengono tutto conferiti al "Consorzio Perimetro Gestione Proprietà Immobiliari", costituito appositamente sempre da Mps. La Consob un po' si innervosisce e così la plusvalenza (oltre 400 milioni di Euro) è portata a bilancio solo nel 2010, quando Mps scende a meno del 10% in Perimetro (di cui fanno parte, tanto per dire, Mediobanca, Axa che è socia di Mps, una controllata di Sansedoni che è la partecipata della Fondazione Mps, Beni Stabili, e così via). Mps, comunque, si riserva il diritto di riscattare le azioni degli altri soci dal 2020 in avanti, mentre i soci hanno un’opzione di vendita alla data del 31 luglio 2033.
A questo punto entra in gioco Casaforte, una S.r.l. detenuta da una fondazione olandese (!) che, con 100.000 Euro di capitale emette obbligazioni ABS (cioè garantite da immobili) per oltre 1 miliardo e mezzo di Euro, obbligazioni che, manco a dirlo, sono quasi interamente collocate al retail di Mps, nonostante che scontino forte rischio emittente (in sostanza Mps), abbiano duration lunghissima (il 2040), prevedano tassi variabili non particolarmente appetibili. Comunque, con i soldi incassati dalla vendita delle obbligazioni, Casaforte paga Mps (banca), che gira alla medesima Casaforte il mutuo sugli immobili acceso da Mps (immobiliare) e poi girato a Perimetro.
Si chiude il cerchio: Mps paga gli affitti e commissioni per 180 milioni all'anno in media; con gli incassi degli affitti, Perimetro paga le rate del mutuo a Casaforte; Casaforte, dal canto suo, gira il denaro ricevuto ai sottoscrittori delle obbligazioni, ignari di essere, in pratica, i proprietari di un pezzettino di qualche filiale del Monte.
Senonché... il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Per essere cedute al retail, le obbligazioni avrebbero dovuto avere un mercato liquido; pertanto, Mps Capital Services  si è impegnata a sostenere la liquidità dei bond attraverso prezzi di riacquisto predeterminati slegate dai movimenti dello spread creditizio dell’emittente al rialzo o al ribasso. Se, quindi, i flussi di disinvestimento della clientela di Mps non venissero controbilanciati da contestuale ricollocamento presso altri clienti Mps (cosa non facile, trattandosi di prodotto non molto redditizio), il Monte potrebbe dover portare perdite importanti in bilancio. Se poi Mps non avesse i soldi per il riacquisto, allora... be', la perdita se la intesterebbero i sottoscrittori. Non a caso, Consob ha multato i vertici della Banca per il collocamento dei bond.
Accanto a queste assurde operazioni, ecco la ciliegina sulla torta. I tassi di rifinanziamento, all'epoca, risultavano già molto bassi, soprattutto rispetto ai ritorni dei titoli di Stato italiani. La cosa ha tre effetti: (1) riduzione della forbice che sostiene il margine di interesse, che si comprime creando quei problemi strutturali di redditività che a tutt'oggi la Banca non riesce a risolvere; (2) necessità di una significativa espansione dei volumi degli impieghi, con connesso peggioramento della qualità del credito al di là degli episodi amicali segnalati - anche troppo - dalla stampa (si pongono, in sostanza, le basi per l'esplosione degli Npl); (3) decisione, da parte dei vertici del Monte (ma con il beneplacito di Banca d'Italia e addirittura l'entusiasmo del Tesoro), di fare significative operazioni di carry e lucrare sul differenziale fra tassi di indebitamento a breve e ritorni dei Titoli di Stato italiani, ignorando in sostanza non solo il mismatch delle scadenze, ma anche e soprattutto il rischio Italia rispetto al quale, addirittura, aveva già venduto protezione sia a DB, sia a Nomura. Quando scoppia la crisi del debito sovrano, Montepaschi ha 26 miliardi di Euro di titoli italiani. Le perdite potenziali sono inimmaginabili.

In questo quadro, già a luglio 2010 si inizia a parlare fortemente, almeno sui giornali, di un aumento di capitale di Mps. Mps smentisce e, purtroppo, la Fondazione Mps ci crede. In realtà, già da agosto la Banca d'Italia chiede a Mps un aumento di capitale da almeno 2 miliardi per portare il coefficiente patrimoniale (Core Tier 1) al 9%, così come richiesto dalla normativa europea. Nello stesso periodo Banca d'Italia, ad esito di una ispezione, si rende conto di una terribile (e all'epoca poco spiegabile) crisi di liquidità dell'Istituto: il problema, come detto sopra, origina della marginazione nei confronti di Nomura e Deutsche Bank dei derivati a suo tempo sottoscritti e dall'enorme quantità di BTP detenuti (la situazione esploderà del tutto dall'estate 2011). Nell'ottobre dello stesso anno scatta anche una sorta di "commissariamento dolce" della Banca, con una richiesta di aggiornamenti quotidiani della liquidità presente nel gruppo. In questo quadro, Mps annuncia ad aprile, e perfeziona a luglio 2011, un aumento da quasi 2 miliardi e 200 milioni, che però arriva troppo tardi (a maggio 2011 si sono tenute a Siena le elezioni amministrative): la crisi dello spread ha infatti reso la marginazione - cioè la prestazione di denaro a garanzia - nei confronti di Deutsche Bank e Nomura quasi insostenibile, tanto che, nell'autunno 2011, si rendono necessarie da parte della Banca d’Italia operazioni di prestito titoli al fine di consentire alla banca di ampliare il ricorso al rifinanziamento della Banca Centrale Europea.
Le toppe (Fresh e relative side letter, Santorini, Alexandria, Casaforte...) si sono rivelate di gran lunga peggiori del buco. La strategia di carry addirittura una voragine.

Interludio 2. La "strana" posizione di Banca d'Italia.
Versione 1 di Banca d'Italia: a marzo 2012 si chiude l'ispezione presso Mps. "Nel rapporto ispettivo vengono nuovamente esaminate le operazioni in repo strutturati... Viene contestato a Mps di non aver sottoposto, anche a seguito dei rilievi che la Banca d’Italia aveva mosso in occasione della precedente ispezione, tali operazioni a revisione critica in termini di costi/opportunità. Vengono inoltre contestate irregolarità segnaletiche sfociate in sottostime delle esposizioni derivanti dai repo. Si trasmettono alla Consob appositi riferimenti che approfondiscono la transazione con Nomura, mettendo in luce l’operazione di ristrutturazione della nota “Alexandria” in contropartita con la stessa Nomura e approfondendo le modalità del trattamento contabile dell’operazione realizzata da Mps. Contemporaneamente, il rapporto ispettivo viene trasmesso all'Autorità Giudiziaria". Al di fuori del linguaggio paludato: è stato scoperto il collegamento fra la ristrutturazione delle notes e le altre operazioni con Nomura; è plausibile che sia stato scoperto anche l'ulteriore, piccolo, dettaglio, per il quale questi 5 miliardi di Titoli di Stato, Mps non li ha mai posseduti.
Versione 2 di Banca d'Italia. In risposta alla questione della Commissione di inchiesta della Regione Toscana, relativa al perché "nella comunicazione datata 25 giugno 2012... con la quale Banca d'Italia attivava la procedura degli Aiuti di Stato a Monte dei Paschi di Siena, [si dichiarava] che il deficit di capitale per il quale venivano chiesti gli aiuti era riconducibile alle valutazioni ai prezzi di mercato dei Titoli di Stato italiani detenuti in portafoglio, nonostante Banca d'Italia avesse dimostrato di sapere dal 17 aprile 2012 che tale deficit si doveva a derivati nascosti nel bilancio", l'Autorità di Vigilanza chiosa: "ad aprile 2012 si era appena conclusa un'ispezione... Come ormai noto, in quella occasione gli ispettori della Banca d’Italia hanno sottoposto ad analisi la (sola) operazione strutturata Alexandria, esprimendo forti riserve in ordine alle scelte contabili di Mps, nel presupposto che l’operazione fosse piuttosto assimilabile a un derivato creditizio (Credit Default Swap - CDS). La cura e la profondità dell'analisi degli ispettori si sono scontrate tuttavia con l'opacità di MPS, che non ha consentito loro di disporre di tutti gli elementi informativi e documentali rilevanti. È noto che l’occultamento del mandate agreement relativo all'operazione Alexandria è oggetto di un procedimento penale a carico di alcuni degli ex esponenti aziendali di MPS: con sentenza del 31 ottobre 2014 – per la quale è pendente l’appello – il Tribunale penale di Siena ha condannato l’allora Presidente Mussari, il Direttore Generale Vigni e il responsabile dell’area finanza Baldassarri, alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione... per il reato di ostacolo all'attività di vigilanza... In mancanza di tutti i necessari elementi, il rapporto ispettivo rappresenta pertanto il frutto di sforzi ricostruttivi importanti ma inevitabilmente non supportati adeguatamente a livello documentale e, comunque, connotati da margini di opinabilità".
In sostanza: se si imputa a Banca d'Italia di non aver vigilato, risponde di averlo fatto sin dal 2012 (ultimamente, si è scoperto che - almeno per quanto riguarda Santorini - si potrebbe tranquillamente risalire addirittura al 2010); se si imputa invece a Banca d'Italia di non aver preso adeguati provvedimenti proprio nel 2012, risponde che a quella data non poteva controllare. Nel frattempo, il mandate agreement con Nomura giace, tomo tomo cacchio cacchio, in una cassaforte. Ma va bene così.

A questo punto, come si comprende, Montepaschi è completamente distrutta. I bassi tassi di interesse, l'acquisto di Antonveneta a prezzi esorbitanti, la cattiva qualità del credito della Banca padovana che si aggiunge alla qualità del credito in peggioramento del Monte, gli effetti dei derivati con DB e Nomura l'hanno messa in ginocchio.
Ciò nonostante, la Fondazione sottoscrive oltre 1 miliardo di Euro dell'aumento, in modo da non perdere il controllo sull'Istituto (a Siena siamo sotto elezioni amministrative), e si condanna - in sostanza - al default.
La Fondazione Mps, dopo aver speso 3 miliardi di Euro nel 2008 nell'aumento di capitale di Montepaschi, da cui ha retratto limitatissimi dividendi negli anni successivi, nel 2011 non ha certo 1 miliardi di Euro cashEcco che allora prende a prestito da un pool di banche, capitanate dalla solita JP Morgan, 600 milioni di Euro. Insieme al Fresh, comprato con tre derivati nel 2008, fanno 1 miliardo e 100 milioni di Euro. Manco a dirlo, le medesime azioni del Monte sono, in vari modi, poste a pegno e dei derivati e del finanziamento. Però c'è un però: la Fondazione non può esporre in bilancio debiti finanziari per più di 1/5 del suo patrimonio, pari a circa 5 miliardi; pertanto, è costretta da un lato a non considerare "debito" i derivati con sottostante il titolo Fresh, dall'altro a non svalutare la partecipazione in Mps, iscritta a valori non più realistici a seguito della crisi bancaria successiva all'esplosione della bolla dei subprime.
Anche di questo risponderanno i vertici di allora dell'Ente. Così si esprime il Comunicato stampa di Fmps del 5 marzo 2014: "la Deputazione Generale... ha esaminato il parere reso dal Prof. Giorgio De Nova..., [che] si esprime sulla sussistenza di profili di responsabilità in capo ai componenti degli Organi Statutari della Fondazione e a terzi, connessi alla sottoscrizione da parte della Fondazione, in via indiretta, dell’aumento di capitale riservato della Banca MPS del 2008 [cioè sul Fresh, N.d.R.], nonché connessi alla contrazione di un debito per l’importo di 600 milioni di Euro funzionale alla sottoscrizione, da parte della Fondazione, dell’aumento di capitale ordinario della Banca MPS del 2011. Ad esito della riunione la Deputazione Generale ha ritenuto sussistere i presupposti per l’esercizio dell’azione di responsabilità con riferimento ad entrambe le operazioni esaminate...". Sia come sia, a novembre 2011 il valore delle azioni in pegno non basta più a garantire i veri debiti contratti, per cui la Fondazione deve iniziare a trattare coi creditori un accordo di ristrutturazione del debito, accordo finalmente sottoscritto soltanto l'anno successivo, a giugno 2012.

Il 12 gennaio 2012 arriva in Mps Fabrizio Viola, prima come DG, poi - da maggio - anche come Amministratore Delegato. Il 27 aprile 2012 Mussari lascia a Profumo la Presidenza di Mps. Il C.d.A. della Banca è rinnovato per intero. Nel 2013 Mussari si dimette anche anche dall'ABI. A giugno 2012 i nuovi vertici rinnovano il Business Plan e tentano di dare l'impressione di aver superato l'opacità dell'era Mussari.
Il 15 ottobre 2012, ad esempio, Mps comunica alla Vigilanza che il 10 ottobre precedente i nuovi amministratori della Banca hanno rinvenuto un contratto, con data 31 luglio 2009, tra Mps e Nomura, attinente alla ristrutturazione del titolo Alexandria. Si tratta del famoso mandate agreement di cui si è parlato sopra, che comprova il collegamento tra la ristrutturazione del titolo Alexandria e le operazioni di prestito titoli eseguite con Nomura e fornisce elementi circa le reali finalità delle operazioni (occultamento di perdite).
Dal punto di vista economico, i bilanci 2011 e 2012 espongono rettifiche su crediti per quasi 4 miliardi e 400 milioni di Euro, riduzione del goodwill derivante dall'operazione Antonveneta per oltre 5 miliardi e 900 milioni. Si tratta, in sostanza, dell'ammissione di aver speso 6 miliardi di troppo nell'acquisto di BAV, oltre che delle prime avvisaglie di una qualità del credito molto peggiore del previsto. Il bilancio 2012, inoltre, è oggetto di restatement, cioè di modifica per tenere conto dei maggiori oneri che i bilanci precedenti avrebbero dovuto incorporare nel caso in cui fossero stati inseriti non soltanto i vantaggi delle operazioni su Santorini e Alexandria, ma anche le perdite già programmate. Non solo: sempre dal bilancio 2012 Mps inizia a inserire in allegato anche lo Stato Patrimoniale e il Conto Economico pro-forma in caso di contabilizzazione "a saldi chiusi", cioè come un unico credit default swap, delle operazioni con Deutsche Bank e Nomura (cosa che, comunque, non impedisce a Consob di bollare come non conformi ai principi contabili internazionali sia il bilancio al 31/12/2014, sia la semestrale al 30/06/2015). Per evitare ulteriori problemi, finalmente Mps transa con DB (dicembre 2013) e con Nomura (nel 2015), chiudendo tutte le posizioni.

Nella prima parte del 2013, Mps si trova ad avere necessità di un ulteriore rafforzamento patrimoniale. Vengono così rimborsati i Tremonti bond ed emessi, per la sottoscrizione da parte dello Stato Italiano, 3 miliardi e 900 milioni di Monti bond. Deve essere una misura temporanea, anche perché Profumo ha in mente un aumento di capitale monstre da 3 miliardi di Euro per fine anno.

La Banca prova a voltare pagina e così fa la Fondazione che raggiunge coi creditori un accordo di ristrutturazione del proprio debito (Exposure Rebalancing Agreement, o ERA). Come prima cosa, vende immediatamente il 15% del proprio pacchetto azionario nel Monte, scendendo al 33% della Banca, quindi inizia un'operazione di dismissione quasi liquidatoria del proprio patrimonio, a partire dai "gioielli di famiglia" (la partecipazione in Intesa Sanpaolo, la partecipazione in Mediobanca - acquistata ai massimi di borsa per entrare nel "salotto buono della finanza" col proprio Direttore Generale e rivenduta ai minimi storici per l'esigenza di incrementare la liquidità -, l'interessenza in CDP, quote significative di fondi di private equity come Clessidra o F2i, e chi più ne ha più ne metta). Fmps - nonostante la dubbia legittimità delle delibere di autorizzazione alla stipulazione del finanziamento da 600 milioni, ben nota ai propri creditori - paga fino all'ultimo Euro quanto dovuto, liquidando completamente e con soddisfazione il pool di banche il 24 marzo 2014, cioè addirittura prima dei termini concordati.
Per fare questo, però, deve cedere quasi per intero la propria partecipazione in Mps a prezzi accettabili (in un contesto in cui l'azione di Montepaschi subisce un calo del 25% in un anno). Un aumento iper-diluitivo a fine anno sarebbe mortale per l'Ente di Palazzo Sansedoni. La presidente della Fondazione, Antonella Mansi, e Profumo si trovano in clamorosa rotta di collisione.

Siamo al 28 dicembre 2013: l'assemblea straordinaria di Mps vota - su proposta della Fondazione - di posticipare l'aumento di 3 miliardi (che poi diverranno 5 miliardi, per permettere la restituzione -sicuramente avventata: ma da questo dipendeva la possibilità di incrementare lo stipendio del management - di 3 miliardi di Monti bond). Profumo accusa neppure troppo velatamente la Fondazione di "conflitto di interessi"; Mansi - in un discorso molto bello e coraggioso - ribatte, parlando di "conflitto di doveri". La Fondazione vince la sua battaglia, l'aumento è rimandato a giugno 2014.

Interludio 3. Siena.
I Mussari e i Mancini, che hanno sfasciato un Ente fondamentale per il sistema senese, sono stati in Fondazione 10 anni; la Mansi, che ha salvato il salvabile nonostante condizioni veramente avverse, appena un annetto, prima di sentire crescere i mugugni intorno a lei e decidere dunque di togliere, elegantemente, il disturbo.
Sarà una considerazione semplicistica e moralistica. Ma spiega qualcosa.

Il 27 giugno 2014 si chiude l'aumento di capitale di Mps da 5 miliardi di Euro. L'offerta suscita non poche perplessità in quanto extra-diluitiva per i vecchi azionisti (fino al 97,7% del valore detenuto), crea problemi in borsa per la gestione dei diritti, fa scattare anche una certa apprensione in Consob (che infatti, dopo lunghe consultazioni, cambia le regole). Comunque, la Fondazione - per non vedere la sua residua quota polverizzata - sottoscrive il suo 2,5%, pari a 125 milioni di Euro. Sembra chiudersi un'epoca: i danni derivanti dall'incauto acquisto di Antonveneta, e soprattutto le toppe peggiori del buco degli esercizi successivi, paiono assorbiti.

E invece no. Il 26 ottobre 2014 sono pubblicati dalla BCE i risultati dell'AQR, cioè la asset quality review (verifica della correttezza delle contabilizzazioni di crediti e titoli, soprattutto di quelli con problemi, tipo incagli o sofferenze) e degli stress test (verifica in ordine alla solidità patrimoniale della banca sia in uno "scenario base", sia nel caso in cui sia "sottoposta a particolari eventi avversi"). Da un lato l'AQR comporta una "esplosione" delle sofferenze nell'esercizio (inizia a manifestarsi quello che sarà il "problema finale" della Banca, i famigerati NPL, in parte figli dell'acquisto di BAV, in parte dell'espansione esorbitante degli impieghi negli anni subito precedenti la crisi, in gran parte delle politiche violentemente deflattive del governo Monti e dei governi successivi), dall'altro lo stress test evidenzia - come conseguenza - una mancanza di capitale di 2 miliardi di Euro circa in caso di "scenario avverso". Le enormi rettifiche fanno sì che il Monte chiuda il bilancio al 31/12/2014 con una perdita ante imposte di quasi 7 miliardi di Euro e debba programmare l'ennesimo aumento di capitale. A febbraio 2015, la BCE - sulla base di tali risultanze - fissa il c.d. SREP di Montepaschi e richiede un aumento di capitale da 3 miliardi. Il 12 giugno 2015 si conclude l'aumento: la Fondazione sottoscrive altri 46 milioni di Euro. Mps in cinque anni ha richiesto al mercato aumenti di capitale, considerando solo quelli a pagamento, per più di 15 miliardi, di cui 4 miliardi e 250 milioni pagati dalla sola Fondazione. Difficile credere che esista ancora.

Nonostante questo, il 29 luglio 2016 Mps fallisce lo stesso lo stress test con "scenario avverso", che evidenzia un CET1 nel 2018 pari a -2,2% (a fronte di uno scenario "baseline" che mostra un CET1 nel 2018 al 12%): cfr. qui, pag. 27.
Nella stessa data Mps - in risposta a una richiesta specifica della BCE in questo senso - annuncia un piano per la dismissione in blocco di tutte le sofferenze del Gruppo, che ormai (dopo anni di sotto-identificazione e bassa copertura) sono diventate un enorme problema. Si tratta di oltre 26 miliardi di Euro (netti; 47 miliardi di Euro lordi) pari a oltre un quinto del totale dei crediti esposti in bilancio dalla Banca.
La situazione è assai critica. Man mano che passano i mesi nell'assoluta immobilità di un governo tutto concentrato soltanto nella preparazione dell'appunto referendario, e poi soprattutto nell'imminenza proprio del referendum costituzionale del 4 dicembre (cui Renzi, in modo assolutamente destituito di fondamento, attribuisce un ruolo chiave nell'intervento in Montepaschi del fondo sovrano del Qatar), Mps subisce un deflusso di liquidità di quasi 20 miliardi.
Questo deflusso esorbitante di depositi certifica la morte della Banca. Ecco il risultato della introduzione del bail-in: la fine della fiducia dei risparmiatori negli intermediari finanziari (che di quella fiducia vivono), con conseguenti fenomeni di bank run. Dentro all'Euro, non fuori, con buona pace dei leuropeisti de' noartri.
Non solo: lo stesso governo, del tutto inerte (quando non dannoso) dal punto di vista legislativo, è invece molto attivo nel voler imporre a tutti i costi il progetto di ricapitalizzazione proposto da JP Morgan, prima proposto nella forma di un aumento di capitale da 5 miliardi di Euro con diritto di opzione, quindi - con più miti consigli - in una serie di azioni che prevedono: (i) la conversione volontaria di parte dei bond subordinati (per almeno 2 miliardi); (ii) la cessione di una quota significativa di nuove azioni (per almeno 1 miliardo e mezzo) a uno o più azionisti rilevanti (detti anchor investors); (iii) il reperimento sul mercato della quota di capitale mancante, magari con una prelazione a favore dei vecchi soci.
L'aumento di capitale è da un lato prodromico, dall'altro necessitato, dalla prevista cessione in blocco dell'enorme stock di crediti deteriorati detenuti, valutati in bilancio ben al di sopra dei prezzi di mercato. L'operazione pensata prevede la cessione sul mercato della tranche senior della cartolarizzazione (assistita da GACS), l'assegnazione gratuita ai soci della tranche junior, l'acquisto a un prezzo molto significativo della tranche mezzanine da parte del Fondo Atlante.
Le operazioni sono collegate: se fallisce una non si fa nulla dell'altra. Addirittura, si costituisce consorzio di garanzia che però non garantisce nulla, se prima non si trova un accordo con Atlante sulla cessione degli NPL e con un investitore "forte" deciso a prendere le redini della Banca. Cioè, finché c'è qualcosa da garantire.
Comunque, tra settembre e novembre 2016, Morelli prende il posto di Viola (piuttosto tiepido in merito a certi passaggi della proposta di JP Morgan), mentre Tononi - che si dimette subito dopo Viola ma congela le proprie dimissioni fino alla successiva assemblea straordinaria - è sostituito da Falciai. Sempre a novembre 2016 i soci danno il via libera all'aumento di capitale ed inizia anche la conversione volontaria dei bond subordinati.
Il 23 dicembre 2016, nonostante l'ottimo successo della conversione volontaria dei bond (oltre 2 miliardi e 450 milioni di Euro), in mancanza di un anchor investor Mps prende atto del fallimento del proposto aumento di capitale e delibera di presentare un'istanza di sostegno finanziario straordinario e temporaneo da parte dello Stato, ai sensi dell'art. 32, c. 4, Dir. BRRD (quella del bai/-in). Inoltre, "in coerenza con le iniziative di sostegno adottate dal Governo della Repubblica Italiana, la Banca darà corso ad una proposta di transazione rivolta agli investitori retail per porre fine o prevenire liti aventi ad oggetto la commercializzazione delle obbligazioni subordinate" vendute nel 2008 per 2 miliardi di Euro (la proposta, in pratica, prevede uno scambio tra l'obbligazione subordinata ed una di nuova emissione, senior e garantita dallo Stato, avente analoga scadenza al 2018). Nella stessa data il Consiglio dei Ministri licenza il D.L. 237 del 2016, convertito a febbraio, il quale al Capo I disciplina le modalità con cui lo Stato può garantire obbligazioni bancarie (Mps, senza liquidità, solo nel 2017 deve emettere almeno 15 miliardi di Euro di bond), al Capo II le modalità con cui lo Stato può ricapitalizzare preventivamente una banca, fermo però il principio del c.d. burden sharing degli obbligazionisti subordinati (per Mps vi è un articolo di legge ad hoc).

Siamo nuovamente ad oggi, alla richiesta della Commissione di 5.000 esuberi. Lavoratori che, come al solito, pagheranno scelte folli di altri.
Poi, come sempre, si volterà pagina.

venerdì 10 marzo 2017

Motus in fine velocior (l'Europa a più velocità)

L'Europa a due velocità (o a "più livelli di integrazione", o basata sulla "cooperazione differenziata": sono quattro e non si accordano neanche su un'espressione tutto sommato banale) ha debuttato ufficialmente a Versailles la scorsa settimana, in un incontro fra Rajoy (per la Spagna, dove ha bersanianamente "non vinto" le elezioni), Gentiloni (per l'Italia, dove governa in sostituzione di Renzi che governava in sostituzione di Monti che era diventato Presidente del Consiglio per conto della Troika), Hollande (per la Francia, dove fra poco dovrà darsi alla macchia, tanto è apprezzato), Merkel (per la Germania, dove alle elezioni potrebbe essere battuta da un personaggio come Schulz, e questo grazie alla lungimirante politica dell'immigrazione presa pari pari da qualche puntata notturna di Gazebo). Perché sia stata scelta Versailles - luogo di pace e dialogo paritetico fra le nazioni del Vecchio continente, come ha finemente notato la Merkel - non credo che sfuggirà ad alcuno. La politica è anche simbolo e la potenza teutonica ama tornare là dove è stata umiliata. Tanto valeva andare a Compiègne.
Sull'incontro - il primo di una serie, in vista della Conferenza di Roma del prossimo 25 marzo, quando le élites europee si autocelebreranno facendo finta di celebrare il Trattato del 1957 e il popolo italiano, auspicabilmente, "di destra" e "di sinistra", le riporterà in modo forte e chiaro coi piedi per terra - si sono avuti vari pezzi giornalistici. La migliore sintesi mi sembra, però, proprio quella del nostro Primo Ministro, che ha relazionato sui colloqui alla Camera e al Senato.


(Immagini a disposizione con licenza Creative Commons CC-BY-NC-SA 3.0 IT)

(Immagini a disposizione con licenza Creative Commons CC-BY-NC-SA 3.0 IT)

In breve: l'Unione Europea ci ha dato pace (in realtà la pace ce l'ha data la Nato, o - per meglio dire - le migliaia di basi americane sul nostro Continente: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, direbbe Tacito, ma anche il Telegraph); l'Unione Europea ha aiutato alcuni Paesi come la Spagna, il Portogallo o la Grecia ad uscire da dittature fasciste ed altri, dell'est ad uscire da dittature comuniste (invero, la transizione alla democrazia dei vari Paesi mediterranei ha visto, in particolare, un attivismo tedesco - spesso in contrasto con gli Stati Uniti - più volto all'assicurazione di nuovi mercati di sbocco che alla costituzione di solidi regimi democratici: v. qui); l'Unione Europea è un modello di protezione sociale sia in termini di diritti individuali che in termini di welfare (non sto nemmeno a puntualizzare quanto questa affermazione sia in stridente contrasto con l'intera costruzione giuridica europea e in particolare, per restare a cose note, col fiscal compact), l'Unione Europea è una superpotenza commerciale grazie al suo mercato unico interno (basato su povertà e deflazione per molti, ma non per tutti) e così via.

Questo, per quanto riguarda i risultati. Poi c'è la parte più interessante, che attiene invece al futuro, o - per dirla all'inglese - all'agenda "dei prossimi dieci anni" (Gentiloni non sente il peso del tempo, evidentemente).

La banda dei quattro è divisa su moltissime cose, quasi su tutte (ad esempio: l'importanza di politiche di crescita economica; la ripresa degli investimenti e la difesa dei sistemi di protezione sociale; la gestione dei problemi migratori).
Però, mi sembra di capire che converge su due questioni. Primo: una sempre maggiore integrazione di una parte dei Paesi membri e una conseguente marginalizzazione di altri; secondo: questa integrazione deve avvenire anche e soprattutto sul terreno della sicurezza e della difesa.

1) Penso sia molto importante spiegare bene cosa significhi l'espressione - di per sé anodina -"Europa a due velocità".
Partiamo da un presupposto (ammesso dallo stesso Gentiloni): non tutti i Paesi membri dell'UE fanno parte dell'UEM, non tutti i Paesi membri dell'UE applicano Schengen, non tutti i Paesi membri fanno parte della NATO e così via. Dunque, l'Europa, cioè Leuropa, già oggi non è a una velocità, né a due, ma più propriamente a quattro, o cinque.
E allora? Allora va compreso che questa espressione implica la decisione - da parte delle classi dirigenti di alcuni dei Paesi membri dell'UE - di non cercare più né la condivisione delle politiche comuni né la connessa mediazione degli interessi dei diversi Stati (o di diversi gruppi di Stati) del Vecchio Continente, bensì di pre-fissare un'agenda economica, politica e (vedremo) militare, qualificando detta agenda, a priori, come "interesse comune", da portare avanti con chi ci sta, lasciando tutti gli altri ai margini.
Cosa c'è di sbagliato? Molte cose.
In primo luogo, il fatto che si tratta di una decisione non "difensiva", ma "aggressiva": non si tratta cioè di rispondere a resistenze o sabotaggi di alcuni Paesi rispetto alle decisioni già prese in modo condiviso (quello che qualcuno chiama l'acquis comunitario), bensì di forzare la volontà di alcuni Paesi mettendoli di fronte a un aut aut su questioni ancora da condividere fra i partner.
Secondariamente, che questo nuovo atteggiamento è il frutto di una reazione non tanto nei confronti di chi, legittimamente, ritiene di voler lasciare l'Unione, cioè la Gran Bretagna, bensì nei confronti di Stati membri a tutti gli effetti, che hanno il solo "peccato" di essere guidati da governi non omogenei a quelli espressione di certe élite dominanti. Mi riferisco, evidentemente, ai Quattro di Visegrád, in particolare alla Polonia. La più evidente conferma di questa interpretazione è data dalla riconferma alla Presidenza del Consiglio europeo di un politico di mezza tacca come Donald Tusk, voluta fortemente dai vertici dell'Unione proprio per umiliare il governo polacco (e nonostante che questo crei un serio problema di equilibri fra PPE e PS).
Infine, che l'Italia - nello stabilire da che parte stare - ha fatto la scelta sbagliata.
Da questo punto di vista, bisogna intanto prendere atto dell'assoluta impossibilità, da parte del nostro governo, di imporre una diversa politica economico-sociale all'Unione, posto che:
- il nostro governo non ha intenzione di fare battaglie in questo senso (risentite quanto ha detto Gentiloni: è necessario "rispettare le regole e [poi, eventualmente: N.d.R.] cercare di modificare le politiche, affinché l'Europa abbia un ruolo di accompagnamento e non di depressione della crescita economica"; "a Bruxelles deve essere molto chiaro che le riforme in Italia non si sono fermate né hanno rallentato il loro corso, questo sarà formalizzato nel Def");
- l'Unione è stata disegnata, a partire dalla lettera dei Trattati, in modo funzionale all'affermazione di una concezione iper-liberista del rapporto fra economica e politica, soggetti economici privati e Stati, e dunque non può essere riformata, perché se lo fosse sarebbe snaturata a tal punto da divenire altro rispetto agli obiettivi per cui è stata costituita;
- in questo quadro, cui si unisce il venire meno della flessibilità dei cambi a seguito dell'adesione all'Euro, le politiche mercantilistiche di alcuni Paesi che ora si vorrebbero candidare a "leader" dell'Europa a maggiore velocità comportano la rottura di qualsiasi principio di cooperazione all'interno del mercato unico, rendendo inesistenti i fantomatici "interessi comuni" richiamati da Gentiloni ed anzi rinvigorendo l'emergere di nuovi confliggenti "interessi nazionali" (tanto più che il concorrente europeo nel manifatturiero della Germania è proprio l'Italia: vedi qui).
Stando così le cose: qual è l'interesse del nostro Paese a lanciarsi, lancia in resta, in questa folle avventura stando sempre più avvinghiato a questo pseudo-alleato tedesco, soprattutto ora che la volontà tedesca e quella statunitense sembrano di nuovo in rotta di collisione?

2) Integrazione sul terreno della sicurezza e della difesa non vuol dire tanto incremento dei rapporti fra le polizie e le autorità giudiziarie dei vari Stati membri (materia sui cui il TFUE si dilunga già oggi in modo assolutamente soddisfacente agli artt. da 81 a 89 e che anzi ha portato alla creazione di un diritto penale e soprattutto penale processuale europeo che sta aggredendo in modo sensibile gli spazi di autonomia interni), significa creazione di un "esercito europeo".
Questo lo ammettono anche coloro che lo auspicano e lo stesso Gentiloni, che nel suo discorso qui sopra parla del recente "Comando europeo unificato per missioni non esecutive". Tra l'altro, mi sembra interessante notare che proprio nell'ambito della difesa la Gran Bretagna "sta lasciando la UE ma continua la cooperazione con i partner europei", tanto che "in questo mese invierà militari in Estonia e quindi in Polonia", oltre che aerei "in Romania" (così Fallon, Ministro degli Esteri di Sua Maestà).
Ora, in un'Unione unita solo nell'essere assolutamente divisa su qualsiasi questione di politica estera, come mai questo grande amore per un esercito comune? La spiegazione che spesso si legge sui giornali - e cioè del possibile disimpegno di Trump dalla Nato e la preoccupazione per un asserito imperialismo russo - non è evidentemente convincente (non foss'altro che quella di Trump è, in gran parte, ammuina, e l'imperialismo russo semplicemente non esiste). Ugualmente, l'esercito europeo contro il terrorismo interno e esterno è una bufala che, semmai, la dice lunga su quanto raffinate siano le menti - per dirla con Falcone - interessate a certi sviluppi. I motivi, a mio avviso, sono tre.
Primo. Un esercito europeo con lo Stato Maggiore a Bruxelles ma dislocato in tutti i Paesi membri diviene un'arma potentissima quanto meno di dissuasione nei confronti di eventuali governi non allineati, nei confronti dei quali - come ben si vede già oggi - sollevazioni multicolori, con o senza cappellini rosa, sono all'ordine del giorno. Pensa a un'Italia a guida leghista bloccata da manifestazioni di piazza femministe, antifasciste, sudiste, ecc. ecc., e un governo che non può utilizzare liberamente né la polizia né i carabinieri né l'esercito. Immagina, puoi.
Secondo. La Wille zur Macht delle élite tedesche che si sta spostando dal campo economico a quello militare in modo direttamente proporzionale alla sempre maggiore rimozione, anche per motivi di distanza storica, di quanto accaduto durante il Nazismo. Fino, addirittura, ad immaginare l'inimmaginabile, cioè la costruzione della bomba atomica. Che richiede, tuttavia, molto più tempo del mero passaggio di consegna dei codici delle bombe atomiche francesi (o anche inglesi, visto quanto sopra). La vicenda dell'Euro dovrebbe insegnare qualcosa su come la Germania intende il concetto di collaborazione, soprattutto rispetto alla Francia.
Terzo. Il mercantilismo tedesco vive di compressione della domanda interna ed espansione di quella estera, mediante esportazione massiccia soprattutto di beni manifatturieri. Da questo punto di vista, il mercato degli armamenti è perfetto. Non è un caso che proprio di recente sia stato presentato in pompa magna un libretto, redatto da noti economisti diciamo... europeisti, tutto teso a dimostrare la necessità di una più stretta integrazione in campo militare, anche e soprattutto per le ricadute economiche degli sforzi pre-bellici (e bellici).
Fantasie? Così scrive - per esempio - il Post.it: "circa il 15% delle esportazioni tedesche di armi... [nel] 2012 sono state inviate alla Grecia, e quasi il 10% di quelle francesi... Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, la Grecia ha continuato a comprare grandi quantità di armi da entrambi i paesi anche tra il 2010 e il 2014, gli anni peggiori della sua crisi economica. Durante questo periodo, il governo di Atene ha acquistato attrezzature militari per un valore pari a 551 milioni di dollari dalla Germania e pari a 136 milioni dalla Francia. Già nel 2010 un articolo sul Wall Street Journal sosteneva che Francia e Germania avessero imposto l’acquisto di sottomarini, navi, elicotteri e carri armati come condizione per sbloccare il piano di aiuti alla Grecia: non emersero prove e i governi smentirono rapidamente queste voci. Quello che è noto è che dal 2004 al 2009, durante il governo di Kostas Karamanlis del partito di centrodestra Nuova Democrazia, la Grecia acquistò dalla Germania 170 carri armati panzer Leopard per 1,7 miliardi di Euro e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la Difesa tedesca. Prima della fine del suo mandato Karamanlis ordinò anche 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp. Il successore di Karamanlis, il socialista Papandreou, congelò l’acquisto e rifiutò di farseli consegnare: dopo aver ordinato una perizia tecnica sui sottomarini, che evidenziò problemi strutturali, a marzo del 2011 fu costretto a trovare un accordo che impose l’acquisto di due sottomarini al prezzo di 1,3 miliardi di euro e di altri 223 carri armati panzer per 403 milioni di euro". Potrebbe essere un nuovo ramo, visto che il vecchio inizia ad apparire quasi irrimediabilmente tagliato, come dimostra in modo sufficientemente icastico il grafico qui accanto.

L'Unione Europea sta franando. Dal bunker di Bruxelles, tuttavia, si cerca di depredare il depredabile, prima dell'ovvia conclusione.
Il fatto che sia ovvia non la renderà né meno tragica né meno dolorosa.
Semmai, il contrario.