Cerca

Pagine

sabato 21 gennaio 2017

Storia breve degli NPL di Montepaschi

Nel precedente post mostravo come l'incremento aggregato dei crediti problematici (NPL) del sistema bancario italiano abbia subito una prima accelerazione nel 2008 a seguito dell'esplosione della bolla dei sub-prime e quindi un'ulteriore progressione a partire dal 2011.
Sulla base anche di un breve studio del Fondo Monetario Internazionale ipotizzavo che tale dinamiche non fossero da collegare in particolare al comportamento fraudolento di questo o quel mutuatario deciso a non restituire i denari ricevuti, quanto piuttosto agli effetti devastanti della crisi del settore manifatturiero del nostro Paese (aggravata dalle aggressive politiche di austerità del governo Monti e dei suoi epigoni) e al c.d. credit crunch imposto alle banche dal rispetto dei vincoli europei. Il tutto, aggravato dalla Direttiva BRRD (che, introducendo il bail-in, aumenta in modo esponenziale i deflussi di capitali dalle banche a rischio) e dalla gestione scriteriata delle prerogative di vigilanza da parte della BCE (che prima ha imposto una valutazione particolarmente bassa degli NPL delle quattro banche risolte a dicembre, quindi ha suggerito - nel quadro delle trattative per la fusione di Banco Popolare e Popolare di Milano - valori di copertura delle stesse assai più elevati della media di sistema, infine ha imposto a Mps di liberarsi entro pochi mesi del proprio fardello di sofferenze).
Tuttavia, data per buona questa ricostruzione, mi è stata posta una domanda molto interessante. E cioè: poiché i meccanismi sopra ricordati hanno agito per tutte le banche del Paese, perché proprio Montepaschi si trova in questa difficile situazione, mentre altri player italiani no (o, quanto meno, in misura comunque inferiore, vedi Unicredit)?

In altri termini: nel disastro Mps, quanto c'è di sistemico, quanto derivante da mala gestio (De Benedetti & C., diciamo), quanto invece di collegato allo sciagurato acquisto di Antonveneta (e dal relativo esborso)?
La risposta non è facile, perché imporrebbe una conoscenza del portafoglio crediti delle varie banche che io, evidentemente, non posso avere. Posso però riportare qualche dato che mostra quanto meno la genesi di questi NPL. Un piccolo contributo che serva da base per ulteriori analisi, o quanto meno più informate congetture.

Iniziamo con un grafico semplice semplice che mette a confronto Montepaschi, Unicredit e Intesa Sanpaolo (i dati sono espressi in migliaia di Euro, dunque l'intervallo fra una riga e l'altra della griglia è pari a 100 miliardi).


L'immagine mostra chiaramente come le varie banche siano state tutte interessate da una stagnazione, o addirittura riduzione, del credito erogato (fenomeno noto anche come deleveraging, che però significa riduzione del debito: infatti, al contrario di quanto ritengono certi pittoreschi soggetti che pascolano nelle lande del web, per prestare i soldi una banca deve per prima cosa procurarseli). Chi più chi meno, ovviamente: Unicredit e Montepaschi tagliando - rispetto ai picchi del 2008 e del 2009 - più del 15% degli impieghi, Intesa meno della metà. Rispetto agli altri grandi gruppi italiani, in sostanza, ISP ha potuto mantenere stabile la propria capacità erogativa (l'incremento tra 2006 e 2007 non fa testo, perché deriva semplicemente dalla fusione con il Sanpaolo di Torino) grazie a una migliore capitalizzazione, derivante - tra l'altro - anche dall'importante aumento di capitale varato nel 2011.

Le dinamiche degli impieghi agiscono anche sul rapporto fra NPL e crediti complessivi (soprattutto se il deleveraging è attuato mediante riduzione dei flussi di nuovi finanziamenti e non tramite write-off di poste inesigibili o cartolarizzazione di portafogli in sofferenza). Il grafico che segue mostra una crescita costante dei crediti problematici dal 2008, con una accelerazione tra 2011 e 2012. Da quest'ultima data, però, il trend di Mps diverge da quello di UCG e ISP (la spezzata diviene infatti assai più ripida rispetto a quelle dei competitor).


Quanta parte di questa divergenza può essere imputata all'effetto ottico derivante dal deleveraging di cui si è detto sopra? Proviamo a produrre un altro grafico che misura la variazione percentuale annua dei crediti lordi totali e degli NPL delle banche.


La "distanza" tra Montepaschi e gli altri due Istituti - depurata delle dinamiche relative agli impieghi - è minore, ma tuttavia ben chiara, soprattutto nel triennio 2012-2014 (per poi andarsi a chiudere piuttosto velocemente nel 2015). Il gap più ampio, in particolare, si riscontra tra 2013 e 2014, quando Mps non ha goduto di un rallentamento degli NPL, di cui invece hanno goduto sia Intesa Sanpaolo, sia anche Unicredit.
Inoltre, come si vede dalle tabelle che seguono, riguarda in misura pressoché costante un po' tutti i tipi di impieghi.


Ricapitoliamo. Tutte le banche del Paese hanno visto un peggioramento della qualità del credito a seguito delle politiche di austerity che si sono innestate su un contesto economico già deteriorato dalla crisi del 2008. Mps, però, più delle altre, per cause che - da quanto abbiamo visto sopra - non possono essere ricondotte né alle dinamiche degli impieghi (calati certo presso Mps, ma non aumentati in ISP o in UCG) né al break-down degli stessi (la percentuale di crediti lordi su impieghi relativamente alle diverse modalità di impiego è sostanzialmente costante).

E allora? Intanto depuriamo i dati di un ulteriore variabile.
Come si vede dal grafico che segue, Mps ha tradizionalmente una percentuale di cancellazioni dei crediti inesigibili assai inferiore a quella dei suoi competitor.


Questo dato mostra dunque che, fino alla crisi del 2008, in linea di principio la qualità degli impieghi di Mps fosse migliore di quella di Intesa o di Unicredit, dal momento che i tre Istituti avevano un rapporto fra NPL lordi e totale crediti sostanzialmente analogo. Negli anni successivi, però, il ridotto numero di cancellazioni, unito al progressivo peggioramento della situazione economica del Paese, ha reso Mps molto più esposta degli altri player.
Ma cosa sarebbe successo se Mps avesse tenuto la stessa politica di cancellazioni tenuta da Intesa? In altri termini: a parità di recuperi e write-off, come si sarebbero mossi gli NPL delle tre banche prese in considerazione? Più o meno come nel seguente grafico.


Concludiamo.
I guai "veri" di Mps iniziano nel 2012-2013 e escono dal controllo nel 2013-2014. E cosa è successo tra 2013 e 2014? C'è stata la prima Asset Quality Review (AQR) della BCE, dei cui risultati devastanti dà conto anche il bilancio di Mps.

In particolare, la Banca ci informa che: (i) le esposizioni non performing sono individuate in modo assai più rigoroso che in passato, mediante l'utilizzo di criteri sia mutuati dall'AQR stessa (ma non previsti dai principi contabili internazionali) sia richiesti dai nuovi standard di Basilea (che introduce il concetto di "forborne exposures", cioè di  esposizioni creditizie per le quali siano state concesse modifiche delle condizioni contrattuali o un rifinanziamento, totale o parziale, a causa di difficoltà finanziarie del debitore, che potrebbero determinare (ma non hanno ancora determinato) una perdita per il finanziatore; (ii) una più stringente valutazione delle sofferenze mediante applicazione di scarti significativi sulle garanzie immobiliari, al fine di rendere il valore di perizia più allineato al valore di presunto realizzo, in un contesto di mercato caratterizzato da attese di ulteriori variazioni negative dei prezzi degli immobili; (iii) svalutazioni puntuale (non forfetarie) delle esposizioni scadute e degli sconfinamenti; (iv) soglie minime per la determinazione delle svalutazioni sulle sofferenze chirografarie.
Sempre la Banca specifica che "i suddetti aggiornamenti delle metodologie e dei parametri utilizzati nella classificazione e valutazione dei crediti hanno comportato rettifiche per 4.195 milioni di Euro nell'esercizio 2014" che "la maggiore entità delle rettifiche anzidette rispetto a quelle emerse in sede di AQR... (pari a 2.196 milioni di Euro) è dovuta alla circostanza che la Banca ha provveduto all'applicazione delle nuove metodologie e dei parametri aggiornati all'intero perimetro delle esposizioni creditizie e non solo ai portafogli oggetto di valutazione durante l'AQR (Large SME, Large Corporate, Real Estate related).

Questi i fatti. Restano le domande.
Il Monte, negli anni precedenti all'inizio della vigilanza della BCE, aveva nascosto troppa polvere sotto i tappeti, sia per prestiti sconsiderati sia perché derivanti dalla disastrata Antonveneta? Molto probabile. Ma se così fosse, le responsabilità di Banca d'Italia andrebbero ben al di là del via libera all'acquisto dell'Istituto veneto, dal momento che la vigilanza - anzi: la mancata vigilanza - si sarebbe resa connivente con una politica oggettivamente volta ad "abbellire" i bilanci del Monte. Responsabilità che, tra le altre cose, si estenderebbe facilmente a tutte le altre banche (escluse le due maggiori qui prese in considerazione) che hanno situazioni non dissimili da quelle di Mps.
Oppure i parametri utilizzati per l'AQR sono stati particolarmente severi rispetto alle peculiarità del sistema bancario italiano? Ma, se le cose stessero così, come mai Intesa e Unicredit si sono difese meglio di Mps (o di Carige, o delle venete)? La rivisitazione degli haircut sulle garanzie immobiliari, tradizionalmente uno dei punti di forza di Mps, secondo me possono spiegare una parte del fenomeno. Non a caso, gli anni 2012-2014 sono proprio quelli caratterizzati dalla esplosione della bolla immobiliare, sia a causa della pessima situazione economica del Paese (che ha azzerato - in molte zone d'Italia - il valore dei capannoni e di altri edifici commerciali), sia della fortissima tassazione sugli immobili inaugurata col governo Monti.
Come al solito, la conclusione è in chiaroscuro.
Il Monte dei Paschi è stato sicuramente amministrato molto molto male ed ha subito una fortissima emorragia di liquidità a seguito dell'acquisto di Antonveneta, banca peraltro con un pessimo credito pregresso (scrive la BCE ad esito dell'AQR del 2014:"la qualità degli attivi della Banca è ancora influenzata dalla politica espansiva adottata in anni recenti (2008-2010), dalla scarsa qualità (sotto la media) del portafoglio crediti della ex-Antonveneta, dal basso livello degli standard di erogazione del credito verso parti correlate e il territorio di riferimento").
Tuttavia, se l'economia italiana avesse beneficiato di politiche anti-cicliche che ne permettessero un'uscita rapida dalla crisi del 2008, sicuramente Mps avrebbe trovato i capitali e le forze per risolvere la questione degli NPL, soprattutto laddove i governi degli ultimi anni per un verso (introduzione del bail-in) e l'Autorità di Vigilanza per l'altro (obbligo di cessione di tutti gli NPL entro termini strettissimi, lettere random ai vari Istituti del Paese con richieste di sempre maggiore copertura delle sofferenze) non avessero pre-costituito un sistema legale particolarmente avverso al risanamento della Banca.
Tuttavia, se i governi che si sono succeduti avessero preso immediatamente in considerazione le vicende del Monte, senza baloccarsi in Monti bond (con vari numerali anteposti), ugualmente oggi non parleremo più di una situazione che mette a rischio l'intero sistema finanziario italiano.
Antonveneta c'entra (ma gli acquisti di Intesa o Unicredit di quegli anni sono di poco migliori; hanno avuto però il vantaggio di essere fatti sempre carta contro carta. E questo è l'unico vero peccato imputabile alla "senesità" del Monte).
Il credito allegro c'entra (ma, anche in questo, Mps è in buona compagnia).
Monti, Letta, Renzi, Saccomanni, Padoan molto di più.

giovedì 12 gennaio 2017

I cento nomi

In questi giorni si è sollevato un polverone mediatico sui debitori di Montepaschi. Tutti i giornali, di destra centro e sinistra, addirittura l'ABI di Patuelli (cioè del Vice Presidente dell'epoca Mussari), per non parlare di deputati e senatori alla ricerca di una commissione di inchiesta, hanno richiesto a gran voce che fossero resi noti i cento principali morosi della banca.
Normalmente, quando c'è questa consonanza di amorosi sensi fra giornalisti (compreso il Financial Times), banchieri e politici, la cosa un po' puzza. Nel caso di specie, poi, il giochino è addirittura banale. Dire che Montepaschi è sommerso dagli NPL (cioè dai non performing loans, crediti in sofferenza o incagliati) perché gli affidati non hanno restituito quanto ricevuto non solo è tautologico, o al massimo banale (ove sottintendesse che il frazionamento del rischio di controparte riduce il rischio medesimo), ma ha oggettivamente una funzione di intorbidamento dei termini reali della crisi finanziaria, sistemica, che attanaglia il nostro Paese.
Da un lato vi sono i banchieri, che tentano di ridurre tutto il problema del sistema bancario italiano a qualche cattivo pagatore che - magari continuando a girare in Ferrari, signora mia! - ha messo in difficoltà alcuni Istituti, e is dimenticano totalmente dei loro Comitati crediti, degli uffici di audit, del ruolo che dovrebbe svolgere Banca d'Italia. Sono orbi che - coerentemente - così come accusano solo e soltanto la Grecia delle sue disgrazie (d'altronde la colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol), ugualmente se la prendono col debitore moroso, tralasciando invece di concentrarsi anche sul creditore non troppo diligente.
Dall'altro, specularmente, stanno i tanti Giannino a piede libero, secondo i quali questi orrendi figuri che mandano in default le banche sarebbero tutti imprenditori decotti sponsorizzati dalla politica, foraggiati da amministratori collusi e senza scrupoli, per cui a fallire sono sì banche private (che fino a venti anni fa erano pubbliche e floride), ma evidentemente non abbastanza private. Un salvataggio con i soldi del contribuente non è, per loro, un danno che si aggiunge alla beffa; è - peggio! - un sacrilegio (trattandosi di qualcosa contrario alla loro fede).
Tutti presi dal sacro fuoco della denuncia dei furbetti del quartierino in versione remix, alcuni esponenti della carta stampata si lanciano anche in tre, quattro lievi imprecisioni a paragrafo, tanto tutto fa brodo (il brodo del sensazionalismo, intendo), confondendo controllante e controllata, soci e creditori, eventi avvenuti prima ed altri successi dopo, e così via. Nessuno invece, che rifletta sul messaggio che Borghi e Bagnai ripetono ormai da anni (giusti son due, e non vi sono intesi) e che - quando non faceva comodo dire altrimenti - era esposto senza tanti giri di parole anche da Banca d'Italia: "negli anni più recenti l'economia italiana ha registrato una notevole contrazione [a causa sia della crisi mondiale sia, soprattutto, delle politiche volutamente deflazionistiche di Monti: N.d.R.]. Tra il 2007 e il 2012 il PIL è diminuito complessivamente di 7 punti percentuali in termini reali. La produzione industriale è diminuita del 25%. Tale congiuntura ha dato luogo ad un marcato incremento dei crediti deteriorati, la cui incidenza sul totale degli impieghi del sistema bancario è passata dal 4,5% di fine 2007 al 12,3% del giugno 2012".
Il "marcato incremento" lo vedete nel grafico qui sopra, che mostra anche l'ulteriore esplosione negli anni successivi. L'altro grafico, qui accanto, evidenzia altresì come la maggior parte di NPL sia rappresentato non da crediti scaduti o incagli, quanto piuttosto da sofferenze, cioè crediti del tutto inesigibili perché, per lo più, connessi a situazioni di fallimento o comunque concessi a società coinvolte in procedure concorsuali.
Cioè a imprese che versano in una profonda, gravissima crisi economica.
Perché?
Secondo i giornali italiani, perché - più o meno dal 2008 - hanno iniziato a chiedere prestiti alle banche italiani De Benedetti e la Marcegaglia, cui dal 2012 si sono aggiunti le coop rosse, Menarini e Caltagirone.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, invece, nel Sud Europa in generale e in Italia in particolare il credito alle imprese rappresenta oltre l'80% degli impieghi dell'intero settore bancario e di questo grandissima parte è rivolta alle piccole e medie imprese, che nel nostro Paese formano il fondamentale tessuto produttivo. Le PMI, a loro volta, per vari motivi (sia storici sia normativi) hanno tassi di indebitamento molto alti rispetto alla media europea. Bene: una struttura di questo genere, secondo il FMI, non poteva reggere a una "severe recession" come quella che non ci abbandona dal 2008 (grazie alle politiche volute dal FMI, ma questo è un altro discorso). Di nuovo, è quello che da anni strillano Borghi e Bagnai, i quali evidenziano anche che quell'alto indebitamento è dovuto anche a tassi di interesse drogati al ribasso, per troppi anni, dall'Euro.
Il che non significa, ovviamente, che non vi siano grandi debitori morosi, rispetto ai quali tutte le procedure di esecuzione devono essere esperite. Però, le cifre vanno contestualizzate. Gli NPL lordi di Mps ammontano a circa 47 miliardi di Euro, più o meno 24 miliardi di Euro netti. Il vergognoso scandalo di Sorgenia - società riconducibile a quel simpaticone che, dalla Svizzera, discetta e fa discettare dell'Italia tramite un noto giornale - è costato al Monte la folle cifra di 600 milioni, che però rappresentano l'1,3% dei crediti problematici complessivi (ammesso che vi appaiano, essendo stati trasformati in partecipazione azionaria, ma lasciamo perdere).

Morale. La crescita esponenziale degli NPL delle banche italiane deriva essenzialmente dalla crisi economica mondiale, fortemente aggravata nel nostro Paese dalle politiche di austerità imposte dell'adesione all'Unione Economica e Monetaria, che ha agito su un contesto economico in cui il credito alle imprese rappresenta la principale attività degli Istituti di credito.
Poi, se si vuole sottolineare l'inefficienza, per non dire lo scandalo, di banche che entrano nel capitale di imprese industriali e quindi le finanziano (ha fatto il giro d'Italia in questi giorni la vicenda della Fabbrichina di Colle), così che - laddove le cose vadano male - diventano debitrici di se stesse, facciamolo pure, ma ricordiamoci che il divieto di partecipazione in imprese industriali previsti dal testo Unico Bancario del 1936 fu rimosso, come di consueto, su impulso di una Direttiva Europea, e non per caso.

Se la finissimo qui, però, il discorso non sarebbe completo. Fra le varie distorsioni portate dall'Euro stanno anche anni di tassi esageratamente bassi, sia - fino al 2008 - per motivi di errata percezione del rischio di controparte, sia - negli ultimi anni - per gli effetti del quantitative easing messo in atto dalla Bce per salvare quel poco che restava della baracca. Tassi bassi, anzi addirittura negativi, significano assottigliamento della forbice del margine di interesse, cioè - per le banche tradizionali - la riduzione drastica dei profitti. E siccome un dividendo a fine anno va comunque staccato, ecco che gli Istituti hanno reagito riducendo sia gli accantonamenti su crediti, sia - soprattutto - i c.d. write off (cioè la cancellazione pura e semplice dei crediti non più recuperabili). E infatti...
Questo comportamento, se è giustificato nel breve periodo, si ritorce contro la banche nel medio. Alte sofferenze, infatti, deprimono la redditività della banca e limitano nuovi prestiti. Dal lato delle entrate, le sofferenze generano interessi passivi, perché non producono ricavi ma richiedono di essere finanziate a tassi di mercato (per quanto ciò possa sembrare strano a quei simpatici zuzzurelloni secondo cui le banche "creano denaro dal nulla"). Da quello dei costi, richiedono risorse umane per la gestione delle pratiche, oltre a spese legali e amministrative che sottraggono capitali a nuovi investimenti più redditizi. A questo si aggiunge - ed è il problema maggiore - che, in mancanza di adeguati accantonamenti, le sofferenze assorbono capitale della banca di valore, non permettendo pertanto di sostenere nuovi prestiti.

Ma il rapporto fra NPL e impieghi è, appunto, un rapporto: se da un lato il sistema economico e finanziario in cui ci troviamo comporta la progressiva erosione del margine di interesse (dovuta alle politiche di QE e NIRP), che a sua volte impone ai banchieri di ridurre accantonamenti e cancellazioni dei crediti inesigibili, dall'altro le regole prudenziali imposte dall'Unione Bancaria rendono necessaria - in questo contesto - una progressiva opera di deleveraging, cioè di riduzione dell'erogazione del credito. L'aumento dei numeratore che impone la riduzione del denominatore è una miscela esplosiva.

Terza questione. Sono anni che Montepaschi è oberato da una massa enorme di Npl. Però proprio quest'anno il problema è diventato improcrastinabile. Perché?
Perché la Bce ha inviato un ultimatum, immediatamente finito su tutti i giornali d'Europa, per la cessione di tali crediti problematici entro un termine minimo. Perché adempiere a quest'obbligo avrebbe comportato per la banca la necessità di un enorme aumento di capitale, anch'esso da realizzare in pochissimo tempo. Perché, grazie alle sciagurate regole sul bail-in non assistite da una garanzia tipo EDIS, non appena il pubblico si è reso conto del pericolo e dell'immobilità di un governo tutto preso a battagliare su un referendum già perso, si è verificato uno dei maggiori casi di bank-run che si ricordino in Occidente. Perché la riduzione dei depositi ha ingenerato una situazione di tensione finanziaria che ha reso l'aumento ancora più impellente e di dimensioni ancora più imponenti...
Torna al primo perché e ricomincia.

E Concludo.
Se il Monte è in questa situazione è colpa della politica? Sì, ma non perché ha permesso il credito allegro, ma perché ha imposto al nostro Paese, via Euro e Unione Bancaria, una spirale recessiva di cui non si vede il fondo e una crisi di debito privato quasi inarrestabile, la quale si scarica sul sistema bancario reso particolarmente fragile dalle regole sul bail-in.
Io, che sono un coglione, quando da Bruxelles straparlavano di debito pubblico fuori controllo e di risparmio privato troppo elevato, subito pensavo a maggiori tasse, anche patrimoniali. E questi geni, invece, se ne vengono fuori con l'esproprio via fallimento degli Istituti di credito.
Sono davvero un passo avanti.
Non dire tutto questo, per buttarla invece in caciara, è un tipico esempio di fakenews, altro che le bufale sul web. In questo caso, però, l'attivissimo sbufalatore di corte non interverrà. Pare troppo occupato a debunkare le notizie di Lercio.



P.S.: Andate andate a vedere sofferenze e incagli del Monte. Poi mi dite dove trovare i crediti inesigibili cancellati e quelli oggetto di ristrutturazione senza perdite contabilizzate.
Ah già, ma voi siete furbi...

mercoledì 4 gennaio 2017

Mps: un po' di chiarezza sull'aumento di capitale

Il D.L. n. 237 del 2016, al capo II, disciplina eventuali "interventi di rafforzamento patrimoniale" delle banche, cioè - nella pratica - di Mps.
Si tratta di un Decreto Legge, che dovrà dunque essere convertito entro febbraio, non tanto con le modifiche che vorrà il Parlamento (la cui sovranità è ormai inesistente), quanto con quelle che saranno imposte dalla Commissione UE.

Vista la sciatteria normativa che contraddistingue il testo, temo anzi che sarà l'occasione, per la burocrazia dell'Unione, di assestare un terrificante ceffone al governo italiano in generale ed a Padoan in particolare (che ultimamente, in particolare per colpa di Renzi, non ha rispettato le promesse fatte prima del referendum ai propri partner).
Ad andarci di mezzo, presumo, coloro che, in queste ore, stanno festeggiando un testo di legge che disattende, in toto, la disciplina comunitaria in materia di ricapitalizzazione bancaria nel rispetto delle norme sugli aiuti di Stato.
Se così non fosse, l'Unione Bancaria sarebbe morta e sepolta. Lo spero, ma ne dubito.

I. Premessa: breve riassunto del D.L. n. 237 del 2016

Il D.L. pone, per l'applicabilità del Capo II, una condizione oggettiva ed alcune soggettive.
Il Mef può - entro fine 2017- sottoscrivere nuove azioni o acquistare azioni già in circolazione di banche italiane, ma solo "al fine di evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell'economia e preservare la stabilità finanziaria", e comunque a condizioni di mercato, senza favorire l'emittente.
Dal punto di vista delle condizioni soggettive, invece, la banca:
- deve aver tentato di ricapitalizzarsi sul mercato, senza successo;
non deve aver compiuto irregolarità tali da giustificare la revoca dell'autorizzazione all'esercizio della propria attività,
- non deve aver subito o rischiare di subire "perdite patrimoniali di eccezionale gravità", tali da privarla "dell'intero patrimonio o di un importo significativo del patrimonio",
- non deve essere insolvente neppure prospetticamente.
In tutti questi casi, infatti, l'Istituto si considera in dissesto, e si impone la procedura di bail-in
Infine, la banca coinvolta in una ricapitalizzazione statale non deve diluire ulteriormente il proprio capitale, staccando dividendi, ricomprando azioni proprie o titoli ibridi, acquisendo nuove partecipazioni, e così via (art. 47, Comunicazione Commissione CE sulle banche del 31 luglio 2013).
Qui si pone il primo problemino.
Le Autorità di Vigilanza stanno conducendo una nuova ispezione dentro Mps, per cui - in caso in cui sia richiesta la ricontabilizzazione a sofferenze di notevoli quantità di incagli - il fabbisogno della banca potrebbe essere molto più elevato di quello calcolato sulla base degli stress test dello scorso luglio (5 miliardi di capitale, ovvero 8,8 considerando anche la sostituzione degli ibridi i quali, trasformati in capitale, non garantiscono più una quota aggiuntiva di fondi propri nel calcolo del Total Capital Ratio di Montepaschi).
Non solo: l'introduzione delle regole sulla risoluzione di cui alla Direttiva BRRD ed il mancato intervento dello Stato nei mesi scorsi, unitamente ai timori che 20 milioni di Euro non siano assolutamente sufficienti a mettere in sicurezza il sistema, hanno provocato una significativa emorragia di depositi da Mps, emorragia che - immagino - non terminerà qui.
Non vi è dunque alcuna certezza che, da qui a febbraio, Mps sia ancora prospetticamente solvibile.
A questo problema dovrebbe rispondere il Capo I del D.L. n. 237 del 2016: "al fine di evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell'economia e preservare la stabilità finanziaria... il Mef è autorizzato, fino al 30 giugno 2017 (cioè, in pratica, fino al termine della GACS), a concedere la garanzia dello Stato su passività delle banche italiane..." (art. 1, c. 1).
Tuttavia, anche in questo caso le condizionalità sono molte, tra cui l'impossibilità di concedere la garanzia - di norma - a passività che superino i fondi propri della banca a fini di vigilanza (Mps dovrebbe rastrellarne una quindicina entro un paio di mesi).
Poniamo comunque che tutte le condizioni di cui sopra siano rispettate. Il procedimento di ricapitalizzazione impone un'istanza della banca coinvolta al Mef, alla BCE e alla Banca d'Italia(art. 15), cui fa seguito la fissazione entro due mesi, da parte della BCE, dell'ammontare della ricapitalizzazione (art. 16).
A questo punto (art. 18), il Mef - d'intesa con Banca d'Italia - pubblica due D.M., l'uno con cui si dispone "l'applicazione delle misure di ripartizione degli oneri", cioè il burden sharing, l'altro con cui si regolano i prezzi e le modalità di sottoscrizione delle nuove azioni. Il primo D.M., tuttavia, presuppone una "positiva decisione della Commissione europea sulla compatibilità dell'intervento con il quadro normativo dell'Unione europea in materia di aiuti di Stato applicabile alle misure di ricapitalizzazione delle banche nel contesto della crisi finanziaria".
E qui sta il punto vero.
Il D.L. n. 237 del 2016, è compatibile con la legislazione europea?

II. Ulteriore premessa: modalità di applicazione del burden sharing al caso Montepaschi

L'art. 22, c. 2, del D.L. n. 237 prevede l'ormai consueta "cascata" nella ripartizione dei costi di salvataggio di una banca. In primo luogo, si ha la "conversione, in tutto o in parte, in azioni ordinarie di nuova emissione... degli strumenti di capitale aggiuntivo di classe 1..." (cioè gli ibridi tipo Fresh), quindi - "ove la misura... non sia sufficiente" - la "conversione in tutto o in parte, in azioni ordinarie di nuova emissione... degli strumenti e prestiti computabili come elementi di classe 2..." (cioè i subordinati), infine - sempre soltanto qualora ve ne sia bisogno - la "conversione... degli [altri] strumenti e... prestiti... il cui diritto al rimborso del capitale è contrattualmente subordinato al soddisfacimento dei diritti di tutti [gli altri] creditori...". Vi è infine la clausola di salvaguardia prevista dalla stessa BRRD: "nessun titolare degli strumenti e prestiti... [può] ricevere, tenuto conto dell'incremento patrimoniale conseguito dall'Emittente per effetto dell'intervento dello Stato, un trattamento peggiore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione dell'Emittente, assumendo che essa avvenga senza supporto pubblico".
Tutto bene fin qui.
Il punto è però che la disposizione non affronta la questione fondamentale, rinviata ad apposito allegato tecnico. E cioè: quale valore avranno le azioni di nuova emissione oggetto della conversione? O, da altro punto di vista: a quante azioni di Mps avranno diritto coloro che si vedranno convertire i propri subordinati? La domanda si interseca con un'altra: a quale valore saranno concambiati i subordinati stessi? Al nominale? Al mercato?
La scelta del legislatore è nel senso di proteggere il più possibile i creditori di Mps (ancorché, come vedremo, molto male). Tuttavia, è innegabile, che proprio per questo motivo, è anche assolutamente confliggente con le disposizioni comunitarie.
Vediamo perché.
Iniziamo dal fondo: ai sensi dell'art. 23, "il valore economico reale da attribuire alle passività... emesse" da Mps è fissato  - per legge - pari o al 75% o al 100% del loro valore nominale, con esclusione del Fresh, prezzato al 18% del nominale. In sostanza, si tratta di un premio, rispetto ai correnti valori di mercato, tra il 50% ed il 100% (non a caso, i subordinati di altre banche "chiacchierate", tipo Carige, hanno segnato incrementi spettacolari negli ultimi giorni). Chi ha comprato bond da risparmiatori presi dal panico, magari intorno alla data del referendum costituzionale (presentata da Renzi e dai giornaloni come una specie di Armageddon), potrà dunque immeritatamente godere di una cospicua plusvalenza, anche in caso di trend ribassista piuttosto significativo sull'azione post aumento di capitale.
Ora, questa disposizione - oltre a rischiare di portare a risultati paradossali quando non del tutto iniqui, soprattutto laddove si verificassero casi in cui potrebbe rimanere non del tutto fugato il dubbio di utilizzo di notizie riservate - pare soprattutto in contrasto, tra l'altro, proprio con la Comunicazione sulle banche della Commissione del luglio 2013, espressamente richiamata dal D.L., dal momento che integra - per via normativa - una sorta di deflusso di fondi propri, vietata ai sensi dei punti 47 e 48 della citata Comunicazione.
Non solo: ai sensi dell'art. 19, c. 2, "entro 60 giorni dalla... pubblicazione del D.M...., il Ministero, in caso di transazione tra l'Emittente... e i [nuovi] azionisti..., può acquistare le [nuove] azioni... se ricorrono cumulativamente le seguenti condizioni: a) la transazione è volta a porre fine o prevenire una lite avente a oggetto la commercializzazione degli strumenti coinvolti nell'applicazione delle misure di ripartizione degli oneri... con esclusione di quelli acquistati da controparti qualificate...; b) gli azionisti non sono controparti qualificate...; c) la transazione prevede che l'Emittente acquisti dagli azionisti in nome e per conto del Ministero le azioni... e che questi ricevano dall'Emittente, come corrispettivo, obbligazioni non subordinate emesse alla pari dall'Emittente o da società del suo gruppo, per un valore nominale pari al prezzo corrisposto dal Ministero..., [aventi] durata comparabile alla vita residua degli strumenti e prestiti oggetto di conversione e rendimento in linea con quello delle obbligazioni non subordinate emesse dall'Emittente aventi analoghe caratteristiche..."
Tradotto: gli obbligazionisti retail che assumano di non aver avuto sufficiente contezza dei rischi insiti negli strumenti acquistati (in particolare, i 2 miliardi di Euro di Tier 2 emessi al momento dell'acquisto di Antonveneta) se li vedranno scambiati in obbligazioni senior, garantite dallo Stato, aventi scadenza 2018, tasso in linea con gli attuali standard di mercato, nominale pari a quello del subordinato stesso, al netto degli haircut di cui all'art. 23.
Notare che non si prende in considerazione, in alcun modo, la fondatezza della lite. In sostanza, più che di condivisione degli oneri si tratta di appropriazione dei guadagni (eventualmente - in caso di corso non significativamente rialzista dell'azione nei mesi successivi - a spese del contribuente).
Questo per quanto riguarda i bond holders.
Ma anche i vecchi azionisti non sono messi male.
L'Allegato al D.L. 237 del 2016 prevede infatti una complessa formula per la determinazione del prezzo di emissione delle nuove azioni, complessa formula che però, come per magia, nel caso in cui l'aumento di capitale superi di 10 volte la capitalizzazione di borsa dell'emittente (come, secondo le indiscrezioni di stampa, è il caso di Mps) si semplifica di molto: le nuove azioni saranno infatti emesse ad un prezzo pari alla media dei prezzi di chiusura delle vecchie azioni nelle trenta sedute di borsa precedenti al D.M. di cui all'art. 18 del Decreto Legge.
A oggi, se ho fatto i conti correttamente, circa 21 Euro, cioè più o meno il prezzo di chiusura del 16 dicembre e quasi il 40% in più dell'ultimi dato disponibile, del 22 dicembre (da questa data a oggi, il FTSE MIB settoriale banche ha fatto poco più del 2%). Poniamo anche che abbia fatto qualche errore di calcolo ed abbia ragione Equita SIM a stimare un valore dell'azione di 17,4 Euro, il discorso cambia poco: si tratterebbe comunque di un aumento a premio (non a sconto) del 16%.
Se poi si considera che il valore di borsa delle vecchie azioni Mps, fin quando è stato quotato, incorporava anche il fair value della tranche junior degli NPL che sarebbe stata assegnata gratuitamente ai soci, si ha l'esatta misura di quanto poco diluitivo (rispetto alle attese, cioè in termini relativi) sia l'aumento disegnato dal governo.
Al di là del caso concreto, poi, vi è l'ulteriore assurdità di una formula che prevede un fattore di sconto significativo, per le azioni di nuova emissione, rispetto al prezzo di borsa delle azioni già in circolazione, il quale tuttavia, oltre a non avere alcuna giustificazione teorica per quanto attiene la sua determinazione, a un certo punto addirittura si azzera per legge, senza possibilità di attestarsi a valori intermedi.

III. In soldoni. Cosa succederà poi.

Chiaro fin qui? Spero di sì.

Primo problema.
La richiesta di ricapitalizzazione statale deve passare per la preventiva "positiva decisione della Commissione europea sulla compatibilità dell'intervento con il quadro normativo dell'Unione europea in materia di aiuti di Stato applicabile alle... banche nel contesto della crisi finanziaria".
Quanto sopra, invece, è a mio avviso assolutamente in contrasto con la disciplina prevista dalla Commissione UE sin dal 2013 perché:
(i) non comporta alcuna perdita ulteriore per i vecchi azionisti rispetto a un "comune" aumento di capitale, anzi prevede un meccanismo di emissione delle nuove azioni a "premio" che di fatto permette un guadagno implicito a favore degli attuali soci, indipendentemente dai corsi di borsa del Monte dopo l'aumento;
(ii) è sostanzialmente premiale per tutti gli obbligazionisti subordinati, i quali patiranno il maggior prezzo delle azioni di nuova emissione (v. sopra) ma potranno contare su valori di conversione dei loro bond significativamente superiore ai corsi di mercato degli stessi;
(iii) il regime ulteriormente premiale di cui all'art. 19 per i possessori retail di titoli Tier 2 è giustificato dal fatto che gli stessi siano stati venduti in violazione delle norme a protezione degli investitori non specializzati, ma non impone - prima della sua attivazione - alcuna verifica della fondatezza di eventuali lagnanze da parte del singolo bond-holder.
Dunque, le cose sono due: o la Commissione impone una riscrittura in peius del D.L., oppure l'Unione Bancaria finisce qui. Poiché una delle due soluzioni è palesemente impossibile nelle condizioni date, si verificherà di necessità l'altra. Forse tu non pensavi ch'io loico fossi!

Secondo problema.
Il bond retail da oltre 2 miliardi è stato emesso da Mps nel 2008 e, da quella data, è passato di mano innumerevoli volte. Ora, obiettività vorrebbe che la clientela indennizzabile fosse quella in possesso del titolo al 12 giugno 2014 (data di entrata in vigore della normativa BRRD) così come previsto per i bond-holder di Banca Etruria.
Chi ha acquistato dopo da altri privati, ancorché non operatore professionale, ben sapeva in quale contesto si sarebbe mosso. Per non parlare poi di chi magari ha comprato a 50 centesimi a ridosso del referendum del 4 dicembre e che ora pregusta una succosa plusvalenza determinata soltanto dalla modifica in corsa del contesto normativo.
Ma il meccanismo sopra descritto implica, chiaramente, che le obbligazioni senior di nuova emissione siano attribuite al possessore attuale del bond subordinato. Per cui, delle due l'una: o saranno ammessi alla procedura soltanto possessori di "vecchia data" che non hanno ceduto il titolo, con buona pace di coloro che, presi dal panico, lo hanno svenduto un mese fa; oppure saranno ammessi tutti i retail attualmente in possesso dei subordinati, per cui chi lo ha svenduto un mese fa non solo subirà il danno, ma dovrà anche assistere alla beffa.

IV. Conclusione

Il solito pasticciaccio, le cui colpe affondano nel passato di tanti governi, ma che soprattutto devono essere imputate a chi ha sottoscritto gli accordi sull'Unione Bancaria (Letta e Saccomanni) ed a chi li ha resi effettivi nell'ordinamento dall'oggi al domani (Renzi e Padoan).
Della demenzialità di questo atteggiamento, in un contesto come quello italiano in cui i risparmiatori sono da sempre - al contrario che in altri Paesi - detentori di titoli bancari, è stato denunciato da Alberto Bagnai e da Claudio Borghi già anni or sono.
Oggi, meglio mai che tardi, si aggiunge anche Zingales, evidentemente infine di ritorno dagli Stati Uniti.


A questo post manca un ulteriore paragrafo, relativo alla cessione delle sofferenze. Di Atlante, come si vede, non si parla di più: si fanno addirittura tre ipotesi, ivi compresa una bad bank come quella più volte già vietataci dalla UE. Per ora però mi fermo qui: è talmente palloso quello che ho scritto che mi sono annoiato da solo.

Finirà, per forza, molto male (in attesa di Unicredit, Carige, e su su per li rami fino a Intesa, che pensa di essere al riparo dalla burrasca, ma sbaglia).