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giovedì 22 dicembre 2016

Il Jobs Act, ovvero del diritto ottocentesco applicato alle dinamiche sociali odierne (e un P.S. sul tradimento della CGIL)

Ponendosi in prospettiva storica, l'esperienza dei tre governi dell'offensiva neoliberista in Italia (Monti, Letta, Renzi) sarà simboleggiata essenzialmente dalla riforma del mercato del lavoro e di quello pensionistico, prima con la Legge Fornero e poi con il Jobs Act (che della Legge Fornero è sostanzialmente la continuazione e l'inasprimento).
Non ci vuole un particolare sforzo di fantasia nel pensare che i prossimi, invece, saranno gli esecutivi del taglio definitivo del welfare (a compendiarli, immagino una riforma complessiva del Sistema Sanitario Nazionale, che certo sarebbe stata assai più facile se al referendum costituzionale voluto da Renzi avesse vinto il fronte del "sì").
Mi sembra però opportuno spiegare perché il Jobs Act è un simbolo (il che, tra parentesi, ne avrebbe fatto l'idolo polemico ideale per chi, da destra o da sinistra, avesse voluto fare un'opposizione "costruttiva" al partito egemone, ritagliandosi a mio parere spazi elettorali significativi). Il Jobs Act è un simbolo perché - pur composto da una legge delega, da vari decreti delegati e da una pletora di D.M. attuativi - ha una straordinaria unità di intenti, è tutto percorso - dall'inizio alla fine - da un'unica "visione" della funzione del diritto, delle dinamiche economiche, potremmo dire delle modalità di interazione delle diverse forze sociali.
Mi spiego meglio.
In generale, la legislazione del lavoro a partire dallo Statuto del 1970 è stata informata al principio di "uguaglianza sostanziale" di cui all'art. 3, c. 2, della nostra Costituzione, quel principio - cioè - che "riconosce... come l'uomo sia strettamente condizionato, per quanto attiene alla sue effettiva posizione, alla situazione economica e sociale del suo ambiente e questa situazione non solo possa pregiudicare la pertinenza in concreto dei diritti astrattamente riconosciuti a tutti, ma possa essere ostativa del pieno sviluppo della persona umana" (Pera, Diritto del Lavoro, Milano, 1996, 61). Lo Stato deve dunque intervenire per abbattere i limiti di fatto alla libertà e uguaglianza dei cittadini, in primo luogo riconoscendo "a tutti i cittadini il diritto al lavoro" e promuovendo "le condizioni che rendono effettivo questo diritto" (art. 4, Cost.)
Senza lavoro non ci sono né libertà né uguaglianza né vera cittadinanza (con buona pace del relativo reddito), per cui la legislazione deve essere informata non soltanto all'obiettivo minimo di porre limiti ragionevoli alla facoltà di licenziamento da parte dell'imprenditore, ma anche all'ulteriore fine della realizzazione di una sostanziale parità negoziale - pur nella differenza dei rispettivi compiti - fra il datore di lavoro (evidentemente parte "forte" del rapporto) e il lavoratore (altrettanto evidentemente parte "debole").
Questa impostazione, se in altri settori del diritto si è tradotta in una predeterminazione legale della composizione degli interessi in gioco ritenuta ottimale (si pensi alla Legge sull'equo canone, per esempio), in ambito giuslavorista ha invece portato a un sistema che - una volta assicurate ai lavoratori determinate libertà (da, non di) e determinati diritti - ha comunque lasciato la composizione ultima del conflitto alla naturale dialettica delle forze in capo collettivamente considerate e organizzate. Il collegamento giurisprudenziale fra "paga base" del CCNL e "retribuzione proporzionata" di cui all'art. 36, Cost. ne è un esempio lampante.
In altri termini: ferme restando le guarentigie individuali e collettive di legge, la definizione di un negozio contrattuale fra datori di lavoro e lavoratori in tanto può essere effettivo (cioè non viziato nella volontà: libero e senza errori essenziali) in quanto stipulato fra soggetti equi-valenti aventi rappresentanza collettiva.
Il "riflusso" precarizzante degli anni Novanta e Duemila, iniziato con la Legge Treu, ha subito individuato in questo assetto normativo un limite forte a qualsiasi forma di deregulation, e lo ha attaccato cercando di incrementare in modo sempre più massiccio il ruolo della contrattazione di prossimità, rispetto a quella nazionale. Lo stesso Jobs Act dispone che, "salvo diversa previsione..., per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria" (art. 51, D. Lgs. n. 81 del 2015).
Nessuno, però, si era spinto a fare quello che è stato fatto all'art. 2103, c.c., il cui nuovo testo - in materia di mansioni - fra l'altro prevede che, in determinate "sedi protette", "possano essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita...".
Io ne ho già parlato, molto criticamente, qui e qui. Di recente, però, ne ha parlato con grande competenza e perspicuità il prof. Sitzia dell'Università di Padova (La (in)certezza del diritto nel Jobs Act all'italiana: mansioni e volontà individuale assistita, in Lavoro nella Giurisprudenza, 2016, 10, 845), il quale - entro un articolo che parla anche di molte altre cose e che consiglio vivamente di leggere a tutti coloro che ne hanno la possibilità - mette in primo piano proprio le radici filosofiche del provvedimento.
Nella sostanza, il legislatore... estende il novero delle fonti "sussidiarie" (in senso letterale) fino a ricomprendervi la stessa autonomia privata.Questo profilo è interessante. Dal punto di vista tecnico si può osservare che: a) l'estensione di cui si è detto non è espressamente prevista dalla legge di delega, che a chiare lettere limita l'individuazione di ipotesi di demansionamento ulteriori (rispetto a quelle, rimesse all'esercizio del potere direttivo...) alla sola contrattazione collettiva, di tal ché il comma 6 dell'art. 2103 c.c. sembra esporsi ad una censura di incostituzionalità per contrasto con l'art. 76 Cost.; b) la norma espone l'accordo individuale ad un controllo di sussistenza del presupposto legittimante a fini di validità.
(...). L'apertura verso la volontà individuale assistita intreccia quell'idea che parte della dottrina, in termini molto critici, ha definito della "glorificazione" del primato dell'autonomia dispositiva dei privati nel sistema delle fonti regolative, e segna, indubbiamente, un importante passo nella direzione di una sempre maggiore privatizzazione del conflitto nelle relazioni lavoristiche.
Il punto è questo: il comma 6 intende realizzare la semplificazione del sistema attraverso un recupero di attribuzioni all'autonomia privata, il tutto nella prospettiva della c.d. "flessicurezza", da intendersi come duttilità delle regole, che si muove nella logica mercantilistica della parità contrattuale.
(...). La funzione dell'organo pubblico sembra assumere natura privilegiata, catalogabile come atto di certazione.
Il comma 6 induce a riflettere sulla portata di un modello di flessibilizzazione delle regole realizzato attraverso l'apertura alla libera volontà delle parti. Il tema intreccia quello della certezza del diritto in quanto il miraggio della flessibilità e duttilità delle regole si pone come opposto rispetto alla triade inderogabilità, rigidità, fissità. Attraverso la flessibilizzazione delle regole la necessità empirica, l'imprevedibilità, portata, potremmo dire, dallo scambio contrattuale tra le parti, si viene a sostituire alla razionalità della coerenza sistemica, che, sarebbe per contro garantita dal predicato dell'inderogabilità in peius. (...).
Chiaro?
La certezza del diritto e l'uguaglianza sostanziale sono immolati sull'altare della privatizzazione dei rapporti giuslavoristici (o anche sociali in senso lato), in un'ottica ottocentesca e vetero-liberale dei rapporti giuridici tutti. 
È la concorrenza, la vittoria del forte sul debole in nome dell'efficienza (e qui mi fermo, rimandando a chi su questi temi ha riflettuto profondamente). È, potremmo dire, "il precipitato" di quel sistema politico-economico noto come Unione Europea, il cui cardine principale è rappresentato dalla Banca Centrale indipendente, smascherato da Alberto Bagnai e Luciano Barra Caracciolo.
In questo senso va letto anche il famigerato "contratto a tutele crescenti", il quale reintroduce nell'ordinamento il principio - anche questo di diritto potremmo dire "comune" - secondo cui a ciascun contratto a durata indeterminata si deve accompagnare a favore delle parti un diritto di recesso. Il contratto a tempo indeterminato come un abbonamento a Sky.
In quest'ottica, il fenomeno orrendo dei voucher si qualifica in sostanza come sintomo generico dell'infezione (la precarizzazione e deprofessionalizzazione), mentre l'attacco all'articolo 18, così come alla disciplina delle mansioni sopra ricordato, sono indizi specifico della malattia (diciamo, per comodità di definizione, il neoliberismo su cui si basa l'Unione Europea).
Un attacco peraltro lento, per ondate successive, ma che ha in sostanza avuto il suo coronamento con la Legge Fornero e quindi con il Jobs Act. Con risultati osceni anche dal punto di vista normativo, la cui alluvionalità è ben stigmatizzata dal prof. Sitzia.
[Stanti le premesse concettuali della Legge Delega], (...) occorre verificare se la riforma del 2014/2015 sia effettivamente veicolo di semplificazione e certezza, risponda al criterio della sussidiarietà, e, se mai, tuteli in qualche modo l'affidamento (criterio non dichiarato dal legislatore, ma, come si è visto, implicato dalla certezza).(...). Basti qui segnalare, in ogni caso, un dato generale di grande rilevanza ai fini della nostra riflessione. Tutte le norme introdotte o riscritte dalla riforma non hanno efficacia retroattiva. Questo comporta, come rilevato in dottrina, che "vigono contemporaneamente due, e a volte tre, regimi, in base alla data dei fatti costitutivi del diritto. L'incertezza dell'ordinamento continua a trionfare, come sempre nei periodi in cui il legislatore emana molte norme anche a fini di consenso elettorale".Caso emblematico è quello del licenziamento, dove vige un imbarazzante menu à la carte, caratterizzato da regimi sanzionatori differenti a seconda: a) della categoria di appartenenza del lavoratore (i dirigenti "godono" di una tutela differenziata, più favorevole rispetto agli altri lavoratori subordinati, nel caso di licenziamento collettivo giusta la nuova formulazione dell'art. 24, comma 1-quinquies, L. n. 223 del 1991 come introdotto dall'art. 16, comma 1, lett. b), L. n. 161 del 2014); b) della data di assunzione (art. 18 Stat. lav./art. 8 della L. n. 604 del 1966 oppure "tutele crescenti" se l'assunzione è avvenuta fino o dopo il 6 marzo 2015); c) dell'avvenuta "conversione" del contratto di lavoro a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato avvenuta successivamente al 6 marzo 2015 (art. 1, comma 2, D. Lgs. n. 23 del 2015); d) dell'eventuale intervenuta integrazione del requisito occupazionale a seguito di assunzioni a tempo indeterminato successive al 6 marzo 2015, che comporta l'applicazione delle "tutele crescenti" anche al licenziamento dei lavoratori assunti precedentemente a tale data (art. 1, comma 3, D. Lgs. n. 23 del 2015); e) della data del licenziamento (art. 18 Stat. lav. nella versione antecedente o successiva alla L. n. 92 del 2012 se il licenziamento è intervenuto prima o dopo il 18 luglio 2012).
Ecco allora che si entra nell'ultimo tema che mi proponevo di affrontare, cioè il referendum, voluto dalla CGIL, abrogativo di alcune parti del Jobs Act.
Cosa chiede il sindacato?
Di abrogare le norme sui voucher. Bene, anzi ottimo. Tant'è vero che, con ogni probabilità, il referendum non si terrà perché le disposizioni in questione saranno cambiate direttamente dal governo Gentiloni, che ritornerà ad una disciplina un po' più stringente (probabilmente, quella antecedente la Legge Fornero).
Di riproporre le sacrosante garanzie per il versamento dei contributi dei lavoratori in caso di subappalto di lavori. Perfetto. Anche in questo caso, ci penserà Gentiloni.
Di ripristinare un sistema di protezione del diritto al posto di lavoro simile, se non uguale, a quello previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori prima dello stravolgimento della Legge Fornero (e poi della franca abrogazione da parte del Jobs Act).
E qui casca l'asino.
Perché su questo punto, così qualificante, il PD - la maggioranza del PD - non ci sente. E non ci sente per un'impostazione filosofica nella valutazione dei rapporti sociali che è quella sopra ricordata. Da Rivoluzione Francese, diciamo.
Ecco allora che, come sempre, il Sindacato - che dovrebbe tutelare i lavoratori, ma finisce per tutelare solo i propri dirigenti - ne inventa una delle sue: non si limita a riportare indietro le lancette dell'orologio giuridico, togliendo di mezzo le riforme dell'ultimo quinquennio, ma si inventa una (tra l'altro assurda, sotto ogni punto di vista) estensione innovativa della norma di tutela anche alle aziende con meno di 15 dipendenti, ma più di 5.
In altri termini: costruisce il quesito per essere certa che sia bocciato dalla Corte Costituzionale, la cui giurisprudenza è ormai piuttosto costante sulle linee di valutazione in ordine alla ammissibilità dei referendum. Linee di valutazione peraltro molto ampie, tali da permettere e anzi incentivare i referendum manipolativi.
Così scrive Valerio Onida (Corriere Giur., 1995, 7, 765).
A mio parere i passaggi «fatali» di questa giurisprudenza, che hanno contribuito più di ogni altra cosa alla distorsione dell'istituto referendario, sono stati due. Il primo è quello con cui la Corte, apparentemente (ma solo apparentemente) sviluppando il requisito della «omogeneità» del quesito, a tutela della libertà di voto che sarebbe compromessa dalla proposizione in unico quesito di più domande diverse, ha affermato che il quesito deve essere anche «chiaro» e «coerente», e che a tale fine deve risultare palese il risultato che i promotori si propongono di raggiungere. Ora, il referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione, tende di per sé ad un unico risultato, che è la cancellazione di una o più norme. Quel che succede nell'ordinamento a seguito di tale cancellazione è vicenda ulteriore, che non riguarda se non indirettamente i promotori del referendum... Pretendendo invece dai promotori l'univocità in ordine agli scopi dell'abrogazione, la Corte ha avallato ed anzi ha indotto o addirittura reso necessaria la formulazione di quesiti complessi ed elaborati, e ha incentivato la tendenza a fare dei quesiti referendari uno strumento di proposta legislativa positiva. Il secondo passaggio è quello con cui la Corte, di fronte a quesiti referendari relativi a leggi che disciplinavano la formazione di organi costituzionali... ha affermato che l'ammissibilità è condizionata al fatto che la proposta abrogazione lasci in vita una normativa «autosufficiente». Dunque non solo il quesito deve rendere esplicito a che cosa esso tende, ma deve proprio tendere a dar vita, come normativa «di risulta», ad un a legge in grado di essere applicata... A questo punto, come si vede, la strada dei referendum «manipolativi» non solo si è aperta, ma si è spalancata, e addirittura è divenuta talvolta un percorso obbligato...

Ma qui la questione è diversa: qui si tratta di un'operazione talmente manipolativa (oltre che del tutto disomogenea!) da rendere il quesito francamente propositivo. In altri termini: non si modifica un istituto esistente, si crea un istituto nuovo (la tutela reale nelle micro-aziende)! Né si può richiamare il precedente del referendum voluto da Rifondazione Comunista nel 2003: in quel caso, infatti, si trattava di estendere a tutti, in caso di licenziamento, la tutela reale all'epoca vigente; in questo, di ripristinare una disciplina previamente abrogata ampliandone per di più la platea di beneficiari.
E già mi immagino Matteo: "Se fosse passata la mia riforma, il referendum si sarebbe potuto tenere!". Di tutto questo, ovviamente, ricordatevi non solo alle elezioni, ma anche al momento di rinnovare la tessera sindacale.



(Per chi fosse interessato.
Per le precedenti pronunce sull'ammissibilità di referendum abrogativi: C. Cost., 6 febbraio 2003, nn. da 41 a 46, con n. Belletti in Giur. It., 2003, 2227 e Maio in Giur. Cost., 2003, 1, 301. 
Sui "requisiti" dei quesiti: C. Cost, 7 febbraio 1978, n. 16; C. Cost., 7 febbraio 2000, n. 50, con n. Filippetta in Giur. Cost., 2000, I, 387; C. Cost. 10 febbraio 1997, nn. 16, 28, 29 e 30, con n. Romboli in Foro It., 1997, I, 657; v. anche Carnevale, in Giur. Cost., 1987, I, 1, 308.
Per la dottrina in materia di parametri sull'ammissibilità: AA.VV., Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Milano, 1998; Calvano, L'omogeneità del quesito sul referendum costituzionale ex art. 4, legge costituzionale n. 1 del 1997, in Giur. Cost., 1998, 1, 417; Modugno-Zagrebelsky (a cura di), Le tortuose vie dell’ammissibilità referendaria, Atti del seminario svoltosi in Roma il 14 luglio 2000, Torino, 2001; Pagotto, Tra omogeneità e completezza del quesito ovvero l’insostenibile ruolo dei promotori del referendum abrogativo, in Giur. Cost., 2003, 2, 1126).

giovedì 15 dicembre 2016

Un governo a prova di NO. Le pastoie di Renzi.

Molto ci si è accalorati in questi giorni, nel dibattito politico e mediatico, in relazione alla nomina del governo Gentiloni (o Renzi bis, o Monti quater), stigmatizzando principalmente i comportamenti di chi, dopo aver bocciato la precedente legge elettorale di Camera e Senato da Giudice costituzionale, da Presidente della Repubblica ne ha prima controfirmata un'altra - con problematiche piuttosto simili - riferita alla sola Camera ed ora ritiene che la stessa, in quanto disomogenea rispetto alla disciplina riferibile al Senato, sia sostanzialmente inapplicabile.
Molto ci si è accalorati, e a ragione. Quello che però è ancora più interessante, a mio avviso, è che questo della legge elettorale è soltanto uno dei sintomi di una malattia che ha affetto gran parte degli atti del non rimpianto governo Renzi.

L'idea, malata, di poter normare interi settori presupponendo una riforma costituzionale non ancora definitivamente approvata.

Si è trattato di ingenuità? Oppure di un velato ricatto, come a voler mettere l'elettorato di fronte al "fatto compiuto"? O, ancora, di scarsa capacità legislativa?
Non lo so e sinceramente mi interessa poco. Mi interessano molto di più i risultati, sconcertanti, di questa idea balzana della gerarchia delle fonti del diritto, ma soprattutto i danni che il Paese ha subito e subirà di conseguenza.
Della legge elettorale si è già detto tutto. Aggiungo soltanto una precisazione. Chi vi dice che al Quirinale non hanno avuto scelta nel controfirmare l'Italicum, dal momento che altrimenti non vi sarebbe stata una legge elettorale applicabile, mente sapendo di mentire. Lo stesso testo della sentenza della Corte, infatti, ebbe cura di precisare che la precedente normativa, come modificata dalla pronuncia in questione, poteva comunque essere utilizzata in caso di imminenti elezioni: “la normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di Cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo»”.
Si possono fare però altri esempi. Tutti molto importanti.

Come si sa, il Jobs Act avrebbe dovuto reggersi su due pilastri: il primo - già realizzato appieno, tanto che "sarebbe impensabile tornare indietro" tanto da impedire fisicamente il referendum abrogativo onde evitare qualsiasi tentazione al popolino bue - relativo alla distruzione complessiva di qualsiasi tutela sul posto di lavoro; il secondo - rimasto un po' più indietro, diciamo - volto ad incrementare in modo significativo le politiche attive per formare e quindi (ri)dare un lavoro a chi non ce l'ha. A quest'ultimo fine, il nostro esecrato ex Presidente del Consiglio ha costituito un soggetto accentrato, l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (meglio nota come Anpal), senza considerare che - a Costituzione vigente - la materia rientra fra quelle a competenza concorrente fra Stato e Regioni.
Dunque l'Anpal c'è, ma non potrà fare la cosa principale per cui è nata, cioè gestire in modo accentrato e diretto i Centri per l'Impiego. A rimetterci, ovviamente, saranno soprattutto i disoccupati, che si consoleranno pensando che - in ogni caso - grazie ad anni di deflazione eurista in Italia il lavoro, politiche attive o no, comunque non c'è.
Ma i Centri per l'Impiego ci danno anche altre grandi soddisfazioni.
Sono circa 500, con quasi settemila dipendenti. Bene, questi enti, il cui funzionamento è sempre stato oggettivamente pieno di problemi, sono finiti in uno strano limbo normativo a seguito dello svuotamento delle Province previsto dalla legge Delrio. I dipendenti, poi, sono passati direttamente alle dipendenze regionali. Ora spetterà all’Anpal coordinarli; ma per fare questo dovrà con ogni probabilità stipulare una miriade di convenzioni con i vari enti locali coinvolti.
Il tutto, in un quadro normativo reso ancora più instabile dalla presenza-assenza delle Province, anche queste abrogate per legge ordinaria prima di essere cancellate per legge costituzionale, per di più surrettiziamente reintrodotte dalle Regioni in quanto soggetti intermedi assolutamente necessari per lo svolgimento efficace di alcuni compiti affidati agli Enti locali.
Sempre in materia di lavoro, c'è poi il capitolo dipendenti pubblici, oggetto di una delle marchette più sfacciate da parte del fu governo per tentare di vincere un referendum già perso.
Già... già... Per garantire l'aumento di cui tanto si sono beati dei sindacati oggettivamente beoti, servono più fondi. L'intesa del 30 novembre è solo una cornice vuota, da riempire col quadro: contenuti e, soprattutto, nuove risorse.
Scrive Il Fatto Quotidiano: "l'accordo politico siglato pochi giorni prima del referendum prevede 85 euro medi di aumento contrattuale per il triennio 2016-2018 e la modifica della legge Brunetta, nella parte in cui prevede la classificazione dei dipendenti pubblici in fasce di merito e stabilisce che il 25% degli statali giudicato meno meritevole non abbia diritto ad alcun incentivo. Ma, per prima cosa, non è detto che il nuovo governo si ritenga vincolato a quell'intesa. E, se anche decidesse di procedere su quella strada, la cornice che va riempita di contenuti e di risorse fresche. I fondi stanziati nella legge di Bilancio 2017 – meno di 900 milioni – anche sommati ai 300 milioni della precedente legge di Stabilità non sono infatti sufficienti per garantire l’incremento promesso: servono quasi 2 miliardi l’anno. [Inoltre], sul fronte normativo, per riaprire ufficialmente la contrattazione occorre il varo del nuovo Testo unico sul pubblico impiego...".
Ma guarda!
È come le ciliegie! Una tira l'altra!
Sì, perché - ma guarda un po' - il simpatico Testo Unico in questione non può essere varato, dal momento che la Legge delega che lo autorizzava (la famigerata Legge Madia) è stata recentemente dichiarata incostituzionale. Anche in questo caso, va da sé, perché si è evitato di richiedere al legislatore delegato una previa intesa con le Regioni, sperando - probabilmente - di risolvere il problema semplicemente rimuovendolo, grazie alla riforma del Titolo V.
Ma se il T.U. sul pubblico impiego non è stato ancora varato, al contrario molti altri decreti delegati derivanti dalla Legge Madia (confermata ovviamente nel medesimo dicastero, dopo una cotal prova) sono stati emessi. Tra questi, quello che impone a tutti gli enti locali la cessione della maggior parte delle proprie interessenze azionarie in controllate, collegate e partecipate, nonché - alle società che potranno restare in mano pubblica - l'obbligo di adeguare in modo significativo i propri statuti, entro fine anno, alle disposizioni del decreto.
Il rischio concreto è che le società modifichino la propria governance così come previsto dal D. Lgs. n. 175 del 2016 e che poi il medesimo D. Lgs. n. 175 sia abrogato o modificato dall'attuale governo, e che dunque le stesse società debbano di nuovo intervenire sui loro statuti, in una specie di gioco dell'oca assurdo e pericoloso per la loro tenuta economica.
E si potrebbe continuare.
Per esempio, si potrebbe ricordare come il governo che propagandava il "sì" al referendum per rendere più stringenti le norme sulla decretazione d'urgenza, si è visto tacciare di presunta incostituzionalità la riforma delle Banche Popolari anche per l'utilizzo dello strumento emergenziale in mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza. Anche in questo caso, comunque, il danno è fatto (in Veneto ne sanno qualcosa).
Questo è il governo, questo è l'uomo, che ha governato l'Italia per tre anni. Che, ancora, non restino soltanto macerie di questo disgraziato Paese dimostra non soltanto quanto grande sia stato il retaggio dei nostri nonni, ma anche come, in fondo, la virtù italica non sia del tutto spenta.
Sappiamo almeno resistere. E ce ne sarà ancora molto bisogno.

(P.S.: Sul Jobs Act ritorno a breve. Perché è veramente troppo scandaloso).

domenica 11 dicembre 2016

Montepaschi, l'ESM e la patrimoniale che verrà

Mi ero ripromesso di non parlare più del Monte dei Paschi, non perché non ne abbia voglia, ma semplicemente perché - pensavo - tutto era già stato detto. Che la cessione delle sofferenze in blocco ad Atlante ed il conseguente aumento di capitale da 5 miliardi di Euro (il piano Viola o, meglio, il piano Dimon, per intendersi) fosse cosa impraticabile era chiaro a tutti. Che qualunque possibilità non di risolvere, ma quantomeno di puntellare la banca passasse dalla conversione in azioni dei subordinati, era ugualmente intuibile dalle persone di buona volontà.


Chi, poi, aveva qualche competenza specifica, poteva addirittura arrischiarsi a prevedere le modalità di massima di questa conversione, e - probabilmente - azzeccarci (al netto dello stupro delle norme Mifid e della violenza psicologica ai disgraziati bond-holder).


Però c'è una questione importante da puntualizzare. E cioè che la stessa consapevolezza era anche in alcuni membri del governo, il Ministro Padoan in primis, i quali avevano già pronto, quest'estate, il decreto che probabilmente licenzieranno nei prossimi giorni.
Scrive Dagospia: "a dare il colpo di grazie sulle aspettative di Piercarlo Padoan di arrivare a Palazzo Chigi ci ha pensato Mario Draghi. La scelta della Bce di non concedere ulteriore tempo all'aumento di capitale del Montepaschi diventa una colpa per il ministro dell’Economia. Sebbene lui abbia fatta soltanto il prestanome di Renzi. Nei corridoi di via XX settembre era nota a tutti l'idea del ministro di intervenire con il sostegno pubblico per Mps. Ma a stopparlo è sempre stato il premierino, che aveva stretto un patto di ferro con Jamie Dimon, CEO di JpMorgan, e con Claudio Costamagna che lo aveva accompagnato a Palazzo Chigi".
Il suddetto premierino, nel frattempo, concedeva interviste situazioniste tipo questa.
Ora, a mio avviso la domanda fondamentale è: perché?
Perché Renzi - che è diventato premier quando già Montepaschi aveva un significativo problema di sofferenze, problema che lui ha peraltro contribuire ad aggravare in modo molto significativo introducendo il bail-in nel nostro Paese e dando degli NPL delle quattro banche risolte a dicembre una valutazione particolarmente bassa - ha deciso di ignorare i messaggi chiari del suo più importante ministro economico, affidandosi invece a un piano di salvataggio che sicuramente non avrebbe salvato nessuno (escluso il conto economico di chi glielo proponeva)?
Ognuno ha la sua risposta e io non pretendo di avere la verità in tasca. Ma, secondo me, la soluzione sta nella tempistica. Il bubbone, guarda caso, esplode subito dopo il referendum.
E questo succede, a mio avviso, perché Mps avrebbe dovuto rappresentare, nella strategia renziana, il bastone per il "sì" alla sua orrenda riforma costituzionale. La solita, vecchia, arcinota tecnica della paura: dei mercati, del bail-in, dell'ignoto, di qualsiasi cosa diversa dalle rassicuranti parole del premier ripetute urbi et orbi da tutti i canali televisivi. Detto in altri termini: da anni Mps è moribondo; Renzi l'ha scientemente ucciso per sfruttare a fine elettorali il lutto dei parenti.
Mi pare sintomatico che, fallito il tentativo di sfruttare il terrore delle folle (come nel Regno Unito, come negli Stati Uniti), il PD ripieghi su un patetico e grottesco piano B, secondo il quale tutto sarebbe andato bene (per noi), se anche il referendum fosse andato bene (per loro).
Ma... se nel quadro di una strategia politica si individua un "bastone", è probabile che non troppo lontano vi sia anche una carota.
L'articolo sopra citato di Dagospia continua: "era noto a tutti che i conti italiani fossero fuori linea. Ma Padoan aveva messo sul piatto della bilancia il suo nome e la sua parola per garantire che, una volta passato (e vinto) il referendum, il governo avrebbe introdotto i correttivi necessari durante l’esame della manovra al Senato. Renzi, però, ha pensato bene di dimettersi... Il risultato che la Commissione sta interpretando come il ministro dell’Economia non sia più in grado di rispettare la parola data. Per fair-play hanno chiesto che le correzioni dei conti pubblici su deficit e debito vengano prese entro marzo...".
Non so se è chiaro.
La legge di bilancio approvata da Renzi era uno specchietto per le allodole e le mancette elettorali erano destinate a sparire. Fortunatamente, l'aggravarsi del quadro politico e le dimissioni del premier hanno portato all'approvazione del testo così com'era, senza tante modifiche (peggiorative).
Come al solito, il ragazzo di Rignano aveva promesso senza voler, programmaticamente, mantenere; ed è paradossale che, per fare il gioco delle tre carte, contasse di utilizzare la seconda lettura di quel Senato che, a parole, voleva abolire (il tutto, va da sé, per obbedire supinamente a quella UE che, a parole, voleva combattere).

Basterebbe questo.
Ma qualcosa ancora stona.
Possibile che, veramente, gli occhiuti commissari europei si limitino a un rimbrottino e che se ne riparli, forse, a marzo?
L'altro giorno, ci siamo svegliati con lo scoop della Stampa
poi smentito un po' da tutti, compresi l'ESM e il Ministero dell'Economia.
Per tutta la mattina, onestamente sono stato nel panico. L'unica cosa che, a mente fredda, obiettivamente stonava di tutta la storia, oltre alla clamorosa incompetenza economica del giornalista che aveva firmato l'articolo, era la cifra irrisoria richiesta all'ESM.
Quindici miliardi, meno dell'1% del PIL. Quindici miliardi...
Magicamente, nelle ore successive, questi numeri iniziano a ripresentarmisi, sempre più spesso. Il 5 dicembre sono uscite le "pagelle" dell'Eurogruppo (quelle a cui si riferiva Dagospia nell'articolo citato sopra).
Come al solito, all'Italia spetta un cicchetto: "siamo d'accordo con la valutazione della Commissione secondo cui il bilancio è a rischio di non conformità... Prendiamo atto che secondo l'ultima valutazione della Commissione, lo sforzo strutturale dell'Italia nel 2017, per quanto riguarda la politica fiscale, impatterà per -0,5% del PIL, mentre è richiesto + 0,6% del PIL... Su questa base, sarebbero necessarie significative misure aggiuntive. Notiamo anche che una valutazione ex post delle linee esecutive del bilancio, che comprendono i costi aggiuntivi legati alla crisi dei rifugiati, le misure di sicurezza e i costi derivanti dai recenti terremoti, potrebbe permettere all'Italia di avere una minore, ancorché comunque significativa, deviazione dal percorso di avvicinamento al suo obiettivo a medio termine. Invitiamo pertanto l'Italia ad adottare le misure necessarie onde garantire che il bilancio 2017 sia compatibile con le norme del Patto di Stabilità e Crescita di natura preventiva. Il livello elevato del debito in Italia rimane un motivo di preoccupazione. Ricordiamo l'impegno dell'Italia ad utilizzare, nel 2017, entrate impreviste o risparmi di spesa imprevisti e intensificare gli sforzi in tema di privatizzazioni per portare il rapporto debito/PIL lungo un percorso discendente...".
Da -0,5% a +0,6% fa poco più di un punto di PIL. Per l'appunto, 15 miliardi di Euro mal contati. Ecco, allora, che non può che nascere un dubbio, anzi una consapevolezza.

I soldi all'ESM non servono per salvare Mps. Anzi, il salvataggio di Mps, o di qualche altra banca, serve per mascherare la richiesta dell'Unione Europea non soltanto, come al solito, di procedere sul solco delle privatizzazioni (che certo non risolvono alcunché a livello di bilancio, né migliorano la vita delle persone, ma in compenso ingrassano le tasche di chi si assicura i business più redditizi... a proposito: ora il business più redditizio rimasto in Italia è la sanità, gestita per lo più dalle Regioni... fate voi i collegamenti), ma anche o di tagliare selvaggiamente lo Stato sociale (che è la stessa cosa che privatizzare, ma i burocrati europei hanno tempo anche per cercare sinonimi) e, soprattutto, di introdurre nuove tasse.
L'idea è, questa volta, di non dare la colpa all'Europa, né ai tedeschi, ma a quegli zotici di italiani che hanno votato "no" al referendum. 

Qui c'è già tutto il programma del Governo Gentiloni. Allentamento della tensione sulle banche (fino a Basilea IV, quando salteranno definitivamente in aria e con loro l'Euro), cessione di qualche altro gioiello di famiglia (tanto questo è l'uomo che ha ceduto il mare più pescoso di Italia alla Francia), inasprimento della tassazione sugli immobili (via nuovo catasto) e sulle successioni (con l'applauso dei liberal imbecilli), se non bastasse patrimoniale.

Poi, un Paese impoverito, stanco, impaurito, probabilmente preda di tensioni sociali esorbitanti, andrà a votare.