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giovedì 15 dicembre 2016

Un governo a prova di NO. Le pastoie di Renzi.

Molto ci si è accalorati in questi giorni, nel dibattito politico e mediatico, in relazione alla nomina del governo Gentiloni (o Renzi bis, o Monti quater), stigmatizzando principalmente i comportamenti di chi, dopo aver bocciato la precedente legge elettorale di Camera e Senato da Giudice costituzionale, da Presidente della Repubblica ne ha prima controfirmata un'altra - con problematiche piuttosto simili - riferita alla sola Camera ed ora ritiene che la stessa, in quanto disomogenea rispetto alla disciplina riferibile al Senato, sia sostanzialmente inapplicabile.
Molto ci si è accalorati, e a ragione. Quello che però è ancora più interessante, a mio avviso, è che questo della legge elettorale è soltanto uno dei sintomi di una malattia che ha affetto gran parte degli atti del non rimpianto governo Renzi.

L'idea, malata, di poter normare interi settori presupponendo una riforma costituzionale non ancora definitivamente approvata.

Si è trattato di ingenuità? Oppure di un velato ricatto, come a voler mettere l'elettorato di fronte al "fatto compiuto"? O, ancora, di scarsa capacità legislativa?
Non lo so e sinceramente mi interessa poco. Mi interessano molto di più i risultati, sconcertanti, di questa idea balzana della gerarchia delle fonti del diritto, ma soprattutto i danni che il Paese ha subito e subirà di conseguenza.
Della legge elettorale si è già detto tutto. Aggiungo soltanto una precisazione. Chi vi dice che al Quirinale non hanno avuto scelta nel controfirmare l'Italicum, dal momento che altrimenti non vi sarebbe stata una legge elettorale applicabile, mente sapendo di mentire. Lo stesso testo della sentenza della Corte, infatti, ebbe cura di precisare che la precedente normativa, come modificata dalla pronuncia in questione, poteva comunque essere utilizzata in caso di imminenti elezioni: “la normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di Cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo»”.
Si possono fare però altri esempi. Tutti molto importanti.

Come si sa, il Jobs Act avrebbe dovuto reggersi su due pilastri: il primo - già realizzato appieno, tanto che "sarebbe impensabile tornare indietro" tanto da impedire fisicamente il referendum abrogativo onde evitare qualsiasi tentazione al popolino bue - relativo alla distruzione complessiva di qualsiasi tutela sul posto di lavoro; il secondo - rimasto un po' più indietro, diciamo - volto ad incrementare in modo significativo le politiche attive per formare e quindi (ri)dare un lavoro a chi non ce l'ha. A quest'ultimo fine, il nostro esecrato ex Presidente del Consiglio ha costituito un soggetto accentrato, l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (meglio nota come Anpal), senza considerare che - a Costituzione vigente - la materia rientra fra quelle a competenza concorrente fra Stato e Regioni.
Dunque l'Anpal c'è, ma non potrà fare la cosa principale per cui è nata, cioè gestire in modo accentrato e diretto i Centri per l'Impiego. A rimetterci, ovviamente, saranno soprattutto i disoccupati, che si consoleranno pensando che - in ogni caso - grazie ad anni di deflazione eurista in Italia il lavoro, politiche attive o no, comunque non c'è.
Ma i Centri per l'Impiego ci danno anche altre grandi soddisfazioni.
Sono circa 500, con quasi settemila dipendenti. Bene, questi enti, il cui funzionamento è sempre stato oggettivamente pieno di problemi, sono finiti in uno strano limbo normativo a seguito dello svuotamento delle Province previsto dalla legge Delrio. I dipendenti, poi, sono passati direttamente alle dipendenze regionali. Ora spetterà all’Anpal coordinarli; ma per fare questo dovrà con ogni probabilità stipulare una miriade di convenzioni con i vari enti locali coinvolti.
Il tutto, in un quadro normativo reso ancora più instabile dalla presenza-assenza delle Province, anche queste abrogate per legge ordinaria prima di essere cancellate per legge costituzionale, per di più surrettiziamente reintrodotte dalle Regioni in quanto soggetti intermedi assolutamente necessari per lo svolgimento efficace di alcuni compiti affidati agli Enti locali.
Sempre in materia di lavoro, c'è poi il capitolo dipendenti pubblici, oggetto di una delle marchette più sfacciate da parte del fu governo per tentare di vincere un referendum già perso.
Già... già... Per garantire l'aumento di cui tanto si sono beati dei sindacati oggettivamente beoti, servono più fondi. L'intesa del 30 novembre è solo una cornice vuota, da riempire col quadro: contenuti e, soprattutto, nuove risorse.
Scrive Il Fatto Quotidiano: "l'accordo politico siglato pochi giorni prima del referendum prevede 85 euro medi di aumento contrattuale per il triennio 2016-2018 e la modifica della legge Brunetta, nella parte in cui prevede la classificazione dei dipendenti pubblici in fasce di merito e stabilisce che il 25% degli statali giudicato meno meritevole non abbia diritto ad alcun incentivo. Ma, per prima cosa, non è detto che il nuovo governo si ritenga vincolato a quell'intesa. E, se anche decidesse di procedere su quella strada, la cornice che va riempita di contenuti e di risorse fresche. I fondi stanziati nella legge di Bilancio 2017 – meno di 900 milioni – anche sommati ai 300 milioni della precedente legge di Stabilità non sono infatti sufficienti per garantire l’incremento promesso: servono quasi 2 miliardi l’anno. [Inoltre], sul fronte normativo, per riaprire ufficialmente la contrattazione occorre il varo del nuovo Testo unico sul pubblico impiego...".
Ma guarda!
È come le ciliegie! Una tira l'altra!
Sì, perché - ma guarda un po' - il simpatico Testo Unico in questione non può essere varato, dal momento che la Legge delega che lo autorizzava (la famigerata Legge Madia) è stata recentemente dichiarata incostituzionale. Anche in questo caso, va da sé, perché si è evitato di richiedere al legislatore delegato una previa intesa con le Regioni, sperando - probabilmente - di risolvere il problema semplicemente rimuovendolo, grazie alla riforma del Titolo V.
Ma se il T.U. sul pubblico impiego non è stato ancora varato, al contrario molti altri decreti delegati derivanti dalla Legge Madia (confermata ovviamente nel medesimo dicastero, dopo una cotal prova) sono stati emessi. Tra questi, quello che impone a tutti gli enti locali la cessione della maggior parte delle proprie interessenze azionarie in controllate, collegate e partecipate, nonché - alle società che potranno restare in mano pubblica - l'obbligo di adeguare in modo significativo i propri statuti, entro fine anno, alle disposizioni del decreto.
Il rischio concreto è che le società modifichino la propria governance così come previsto dal D. Lgs. n. 175 del 2016 e che poi il medesimo D. Lgs. n. 175 sia abrogato o modificato dall'attuale governo, e che dunque le stesse società debbano di nuovo intervenire sui loro statuti, in una specie di gioco dell'oca assurdo e pericoloso per la loro tenuta economica.
E si potrebbe continuare.
Per esempio, si potrebbe ricordare come il governo che propagandava il "sì" al referendum per rendere più stringenti le norme sulla decretazione d'urgenza, si è visto tacciare di presunta incostituzionalità la riforma delle Banche Popolari anche per l'utilizzo dello strumento emergenziale in mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza. Anche in questo caso, comunque, il danno è fatto (in Veneto ne sanno qualcosa).
Questo è il governo, questo è l'uomo, che ha governato l'Italia per tre anni. Che, ancora, non restino soltanto macerie di questo disgraziato Paese dimostra non soltanto quanto grande sia stato il retaggio dei nostri nonni, ma anche come, in fondo, la virtù italica non sia del tutto spenta.
Sappiamo almeno resistere. E ce ne sarà ancora molto bisogno.

(P.S.: Sul Jobs Act ritorno a breve. Perché è veramente troppo scandaloso).

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