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lunedì 26 settembre 2016

Il Jobs Act funziona!

Il Jobs Act - o, per meglio dire, il pacchetto formato dalla Legge Fornero e dai Decreti derivanti dalla Legge delega nota come Jobs Act - funziona.
Su questo punto, è necessario consentire con la BCE, che infatti, dopo averlo disonestamente imposto


lo ha anche disonestamente lodato.
Dico disonestamente perché il fine del Jobs Act (così come della Legge Fornero) non è certo una maggiore occupazione, ma - semplicemente - un incremento significativo della precarizzazione volto ad una compressione non marginale dei salari.
Che ad interessarsi della materia sia proprio la BCE non sorprende, dal momento che la svalutazione del lavoro consegue all'impossibilità della svalutazione della moneta.



(Se capite il perché, bene, altrimenti potete tranquillamente andare su goofynomics e imparare lì. Se poi non riuscite neppure a vedere il nesso tra precarietà e deflazione salariale, leggete almeno questo).


Dunque, il Jobs Act funziona.

Funziona perché ha eliminato dal diritto del lavoro i diritti dei lavoratori. E lo ha fatto obliterando ogni specificità di questa branca del diritto, sempre più portato a rientrare nei parametri del diritto comune (quello, di stampo liberale, in cui tutti i soggetti economici si trovano sullo stesso piano, il pensionato come la multinazionale, per capirsi).
Che poi la Costituzione sia innervata del principio lavorista, "non... [per] negare completamente valori 'cardine' dei sistemi precedenti, ma [piuttosto per assire come] non sia più accettato che essi possano essere predominanti sulle esigenze di rispetto della personalità e della dignità dell’uomo", è un dettaglio che ormai - con una Corte i cui giudici sono Amato, Barbera o Prosperetti - può ritenersi del tutto secondario.

Alcuni esempi.

Il contratto di lavoro individuale a tempo indeterminato, in particolare dopo l'approvazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella sua formulazione originaria, si poneva come contratto dotato di speciale stabilità, in qualche modo "perpetuo" se confrontato alla vita lavorativa del contraente.
Con la Legge Fornero, che ha stravolto questa norma, e poi con il Jobs Act, che l'ha superata, le cose non stanno più così.
Oggi il contratto di lavoro è in sostanza un contratto di diritto comune: se non ha termine, è liberamente recedibile, per giusta causa senza risarcimento ovvero ad nutum salvo indennizzo (i casi ancora previsti di reintegro sono penose foglie di fico). Nel contratto a tutele crescenti, questo indennizzo è addirittura prefissato, per la tranquillità di tutti.
Tra lavoratore e impresa, soprattutto grande impresa, mi sembra abbastanza ovvio di chi si avvantaggi di questo ritorno all'antico.

L'art 4, c. 1, dello Statuto dei Lavoratori vietava "l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori".
Per la verità, il comma in questione lo vieta ancora. Soltanto, che, semplicemente, è una petizione di principio del tutto falsa.
Infatti il comma 2 aggiunge che "la disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze", avendo cura di aggiungere che "le informazioni raccolte... sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli...".
In altri termini: i controlli a distanza sono vietati, esclusi tutti quelli che possono essere realizzati mediante tracciatura di PC, tablet e smartphone aziendali. Senza dimenticarsi badge, apriporte automatici, telecomandi di garage aziendali, et similia.
Secondo il prof. Ichino, si sarebbe trattato di una bazzecola.
Io, invece, scrissi qualche riga un po' più preoccupata.
Oggi si legge questo.
In sostanza: ai fini delle norme applicabili al contratto, la multinazionale e tu siete sullo stesso piano, come quando concludi un contratto di acquisto di un chilo di pane dal fornaio; però, durante il rapporto, la suddetta multinazionale può mettere su un controllo degno di un servizio segreto per sapere se davvero lavori e come, cosa che - temo - risulti difficile dal panettiere.

Si potrebbe continuare a lungo, parlando di demansionamento, smart working, fino al vero punto di arrivo di questa terrificante deriva: la fissazione di un salario minimo che - nonostante il suo nome - in una situazione di depressione economica si trasformerà immediatamente nel salario medio.
Ma il punto è un altro.
Il punto è la totale mancanza di un principio personalista che tuteli la persona nella sua fondamentale dignità di essere umano. Dignità che, ovviamente, non è tanto e solo "libertà di" (aggiungete un po' voi il diritto cosmetico che preferite), quanto piuttosto - e principalmente - "libertà da". Dal bisogno, dalla malattia, dall'indigenza, dalla disperazione. A questo fine, la sicurezza di un lavoro retribuito in modo dignitoso (artt. 4 e 36, Cost.) è condizione assolutamente necessaria.
In questo senso, con la morte nel cuore vorrei riproporre un vecchio post, suggeritomi da una sentenza delirante della Cassazione.
...volevo segnalare agli happy few la recente Cass., sez. lavoro, 18 novembre 2015, n. 23620... Secondo gli Ermellini, a base del potere di licenziare per giustificato motivo oggettivo vi è "la necessità di ristrutturazione aziendale e la conseguente soppressione del posto spettante al lavoratore poi licenziato", anche se tale riorganizzazione, "realizzata con la soppressione di uno o più posti di lavoro, persegue... il fine di evitare perdite o incrementare il profitto". Infatti... al "controllo giudiziale sfugge necessariamente anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore..., considerato altresì che un aumento del profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio del suo patrimonio individuale, ma principalmente in un incremento degli utili dell'impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori"....
La Cassazione, sia pure nello stile paludato e concettoso che le è proprio, sembra voler mettere in guardia i lavoratori. Attenzione, si legge infatti tra le righe della sentenza, che il licenziamento di uno, potrebbe essere la salvezza di altri, perché in tanto saranno mantenuti i posti di lavoro, in quanto l'imprenditore potrà aumentare, a suo piacere, il proprio profitto. Dunque, si inferisce, non è il caso di solidarietà tra lavoratori, o di fronti condivisi di lotta; piuttosto ciascuno si rifugi nel suo particulare, applichi il detto mors tua vita mea... e vada avanti.
Se i lavoratori vogliono mantenere qualche diritto, o provare a riprendersi quelli già persi, devono invece recuperare la propria coscienza e dignità di classe in un periodo storico in cui le classi sociali sono state abolite per decreto, devono comprendere quali sono i loro interessi comuni (che sono, in gran parte, coincidenti con quelli di... professionisti, artigiani - evasori per definizione, sempre secondo certa stampa - e piccoli o medi imprenditori), devono identificare chi ha invece obiettivi incompatibili con il proprio benessere (e sa, tra l'altro, perseguirli molto bene).
Insomma. Più solidarietà. Meno narrazione. E anche un po' di palle.
Questo ci vuole. Lo si capisce anche dalle sentenze della Cassazione.

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