Cerca

Pagine

martedì 26 luglio 2016

Montepaschi #2 (un po' d'ordine sul bail-in)

Insomma, alla fine pare che la soluzione prescelta per dare ancora un po' di ossigeno al malato terminale Montepaschi (con ogni probabilità unico bocciato agli esami truccati degli stress test) sia quella "di mercato", ammesso che - nel pasticciaccio brutto che sta diventando la gestione del sistema finanziario italiano - questo termine abbia ancora un qualche senso.
Nella pratica Atlante, una volta rimpinguato di nuovi capitali (500 milioni dalle Casse di previdenza, 1 miliardino da SGA e CDP, qualche altro soldarello ancora da Unicredit e Intesa, tanto son messe bene), dovrebbe acquisire 9 miliardi e 600 milioni di sofferenze nette della banca, a un prezzo non di molto sotto di quello di mercato, "creando" così un ammanco di capitale per Mps stimabile tra i 2 e i 3 miliardi di Euro. Ne abbiamo diffusamente parlato in calce a questo post.
La BCE, dicono, ha chiesto uno sforzo ben maggiore, diciamo pure doppio. Nel frattempo, il governo preme su UBI perché faccia da cavaliere bianco e si mangi tutto il boccone, rimanendone prevedibilmente strozzato. A volare sulle carogne sta già l'avvoltoio (sotto forma di garante dell'eventuale aumento, nonché - udite udite - di emittente del prestito ponte da 6 miliardi tondi tondi che servirà a Atlante in attesa della cartolarizzazione GACS): JP Morgan.
Non è detto che poi tutto finisca in qualcosa di più opaco, una soluzione mista che preveda lo spezzatino di parte della rete Mps (UBI che si prende Antonveneta, Banco Popolare che si prende il brand della Banca dell'Agricoltura: vedi qui) e un aumento ridotto.
Non è secondario, peraltro, sottolineare ancora una volta che questa sedicente "operazione di mercato", se sarà portata a termine, andrà a spese dei pensionati che versano nelle casse previdenziali diverse dall'INPS (leggi: professionisti). Che poi queste Casse siano controllate dal Ministero dell'Economia, che è anche socio di Montepaschi, è un dettaglio insignificante.
O, in altri termini...
Né meglio è la proposta di Boccia, che tornato di recente da Marte si straccia le vesti per la situazione delle banche italiane e propone di risolverla dissanguando Cassa Depositi e Prestiti, cioè - senza troppo girarci intorno - il risparmio postale.
Già questo basterebbe a comprendere con chi si ha a che fare. Tuttavia in questo post vorrei approfondire un'altra questione.
E cioè: se l'art. 32 della Direttiva BRRD, cioè della Direttiva che ha istituito il bail-in, permette (laddove la banca necessiti "di un sostegno finanziario pubblico straordinario... al fine di evitare o rimediare a una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro e preservare la stabilità finanziaria") che lo Stato provveda ad "una garanzia dello Stato a sostegno degli strumenti di liquidità forniti da banche centrali... [o] sulle passività di nuova emissione", oppure a "un'iniezione di fondi propri o all'acquisto di strumenti di capitale a prezzi e condizioni che non conferiscano un vantaggio all'ente...", perché il governo italiano ha deciso non solo di non sottoscrivere un eventuale aumento di capitale di Montepaschi ma, pare, neppure di garantirlo?
Eppure Rodomonte da Rignano aveva ben preso questa strada! A Siena - freschi freschi della carriera appena corsa - già si esultava, anche se sottovoce per non disturbare il manovratore...
La spiegazione sta nel successivo comma del medesimo articolo 32.
"...Le garanzie o misure equivalenti ivi contemplate sono limitate agli enti solventi e sono subordinate all'approvazione finale nell'ambito della disciplina degli aiuti di Stato dell’Unione. Dette misure hanno carattere cautelativo e temporaneo e sono proporzionate per rimediare alle conseguenze della grave perturbazione e non vengono utilizzate per compensare le perdite che l’ente ha accusato o rischia di accusare nel prossimo futuro".
Le garanzie sono subordinate all'approvazione finale nell'ambito della disciplina degli aiuti di Stato.
Qui sta tutto il rebus.
- Eh, ma la Germania...!
- Sì, però la Commissione...!
Tutto vero.
In parte.
Cioè falso.
La Commissione, già in tempi non sospetti, ha specificato in quali casi è possibile procedere ad un aiuto di Stato nei confronti di una Banca.
Lo ha fatto in modo formale, con propria Comunicazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 luglio 2013.
Di recente, questa Comunicazione ha fatto molto parlare di sé, perché è stata oggetto di una Sentenza della Corte di Giustizia UE (CGUE) dello scorso 19 luglio, relativa alla sua validità ed alla sua corretta interpretazione (si tratta della causa C-526/14, che trovate qui).
Ovviamente, i giornali ci si sono buttati a pesce, dando della pronuncia le interpretazioni più stravaganti. Riporto qualche tweet tra i più deliranti.


In realtà, la sentenza - trattando della corretta interpretazione di una Comunicazione del 2013 - difficilmente avrebbe potuto pronunciarsi sul sistema del bail-in, introdotto del 2014, a meno di non riconoscere ai giudici capacità divinatorie che, francamente, non credo abbiano. Forse si voleva dire che la Corte, con la propria pronuncia, ha riconosciuto la legittimità dei diversi sistemi legali che impongono ad azionisti e creditori delle banche di partecipare al risanamento delle stesse e che un particolare tipo di questi sistemi è proprio quello di cui alla Direttiva BRRD.
Però capisco che si tratta di un periodo di tre righe con due proposizioni unite in modo paratattico, un po' troppo per il giornalismo nostrano.
Ora, la Comunicazione del 2013 è molto chiara nello stabilire il principio per cui aiuti di Stato possono "essere concessi soltanto a condizioni tali da comportare un’adeguata condivisione degli oneri da parte degli investitori esistenti" (punto 40). Tale adeguata condivisione "comporterà di norma, una volta che le perdite saranno state in primo luogo assorbite dal capitale, contributi da parte di detentori di capitale ibrido e di debito subordinato... nella massima misura possibile..:", non essendo invece necessario il contributo dei "detentori di titoli di debito di primo rango" (punti 41 e 42). In altri termini: "gli aiuti di Stato non devono essere concessi prima che capitale proprio, capitale ibrido e debito subordinato siano stati impiegati appieno per compensare eventuali perdite" (punto 44).
Certo, il successivo punto 45 aggiunge che "è possibile derogare a quanto richiesto ai punti 43 e 44 se l’attuazione di tali misure metterebbe in pericolo la stabilità finanziaria o determinerebbe risultati sproporzionati", qualora "l’importo degli aiuti da concedere sia limitato rispetto agli attivi della banca ponderati per il rischio e la carenza di capitale sia stata notevolmente ridotta, in particolare mediante misure di raccolta di capitale..." sul mercato, ma mi pare chiaro che la Commissione ha recisamente escluso questa evenienza.
Sulla questione, peraltro, ha scritto un post di grande pregnanza Luciano Barra Caracciolo.
Ricapitoliamo fino a qui.

La BCE ha intimato a Montepaschi di cedere 10 miliardi di sofferenze nette. O ora o subito. Se le dovrebbe comprare Atlante, probabilmente a un prezzo superiore a quello di mercato, ma non abbastanza alto per evitare un aumento di capitale alla banca. L'aumento, ovviamente, non lo sottoscriverebbe nessuno, con conseguenti scenari di bail-in. Il bail-in, però, comporta perdite in termini economici per i risparmiatori (detentori di bond subordinati ed anche senior, forse correntisti), ma soprattutto perdite in termini elettorali per Matteo nostro. Dunque l'ideona è mettere una garanzia statale all'aumento, o addirittura sottoscriverlo, utilizzando la "scappatoia" dell'art. 32 della BRRD. Che però, ahimé, impone di sacrificare gli obbligazionisti subordinati, come richiesto dalla Commissione già nel 2013 (è quello che, i giornalisti fichissimi, chiamano burden sharing). Comunque, eventualmente, dicono sempre a Bruxelles, questi bond holders li potete indennizzare "a cose fatte", restituendo - a certe condizioni - il maltolto.

E allora, qual è il problema?
I problemi sono due. Uno è questo.


Montepaschi ha ancora sul mercato 5 miliardi di subordinati, la maggior parte dei quali piazzati al retail (cioè in mano alle famiglie). Applicare il principio del burden share significherebbe dunque mettere in seria difficoltà moltissime persone, spesso ex dipendenti della Banca, che si sono fatti pagare i premi di rendimento e parte della liquidazione in azioni, e che per spirito di fedeltà hanno anche sottoscritto, con ulteriori risparmi, titoli con un buon rendimento, certo più rischiosi di un senior bond, ma comunque garantiti da quello che, un tempo, era fra i più solidi istituti italiani.
Renzi questo lo sa. E sa anche che moltissime di queste persone vivono in Toscana. Una regione che, dopo questa catastrofe, potrebbe essere assai meno rossa che in passato (ma tanto lui si consola con la nuova roccaforte di Varese).

La soluzione al problema sembrerebbe però a portata di mano. Prima si tosano i bond subordinati, quindi si costituisce un meccanismo di indennizzo automatico per i risparmiatori colpiti. Ma ecco che si presenta il secondo problema.
Il governo - in primo luogo - non può non tenere conto della gestione micragnosa e sostanzialmente punitiva dei rimborsi per i detentori di obbligazioni subordinate di Banca Etruria (ne abbiamo parlato diffusamente qui).
Ma, soprattutto, non può non tenere conto di quanto è successo in Portogallo, dove la Banca centrale portoghese - per migliorare i ratio patrimoniali del Novo Banco, ex Banco Espirito Santo - ha imposto, a fine 2015, il trasferimento da NB (nuova good bank teoricamente sana, in realtà piuttosto malandata) al vecchio BES (rimasto in piedi come bad bank, per la gestione delle sofferenze pregresse) di quasi 1 miliardo e mezzo di bond senior.
Si è scatenato il finimondo.
In realtà, la scelta è stata fatta con un criterio.
Quei bond erano in mano, per intero, a investitori istituzionali internazionali, i quali l'hanno presa così bene da denunciare la Banca del Portogallo di fronte alla magistratura lusitana. Oltre che, un po' più in sordina, ma con risultati ben visibili, a rendere un inferno le aste dei titoli governativi portoghesi.
Osservo, di straforo, l'equilibrio e veridicità con cui titolò all'epoca il Sole24Ore.


Comunque, il grafico dello spread dei titoli portoghesi è questo.


Raddoppiato da dicembre a febbraio.
La morale è molto semplice: se lo Stato mette i soldi, gli obbligazionisti subordinati ci rimettono l'osso del collo. Punto e basta. Ai governi resta solo una scelta: perdere le elezioni, o perdere clienti alle aste dei propri titolo di Stato. È tra gli inconvenienti di aver voluto una Banca centrale così detta indipendente.
Ecco allora che, alla fine di questo ridicolo gioco dell'oca, si ritorna alla prima casella. Si inventa un'operazione di mercato, che di mercato non è, che non risolverà i problemi di Montepaschi, ma esporrà a maggior rischio Unicredit e Intesa, e probabilmente affosserà UBI.
Triplete.


Ciò detto, mi sia concessa qualche nota autobiografica. Chi non è interessato, smetta pure di leggere, non si perderà nulla.
Montepaschi, il burden sharing lo ha già provato, eccome. Ha inciso sulla carne viva di una comunità, oltre che su quella di chi, come me, è dipendente di quello che un tempo ne era il maggiore azionista e che ora si trova a possedere meno dell'1,5%.
A novembre 2008 Mps acquista Antonveneta. I giornaloni, ovviamente, stappano autarchicamente spumanti e champagne, mentre la borsa penalizza fortemente il titolo, visto il prezzo assai elevato, di 9 miliardi di Euro (in realtà, alla fine, l'esborso vero - compresa copertura delle linee di credito attivate da Santander - sarà quasi doppio, pari a 17 miliardi), per di più pagato cash con 8 bonifici, di cui uno, chissà perché, di 2 miliardi e mezzo, indirizzato alla Abbey National Treasury a Londra (i maligni sostengono poi che sia tornato indietro grazie allo scudo fiscale, ma noi ovviamente, in mancanza di riscontri certi, non c crediamo).
Per pagare questa massa immensa di denaro, a maggio 2008 il Monte lancia un aumento di capitale da 5 miliardi (di cui 2 e mezzo sottoscritti dalla Fondazione) ed emette, tra i primissimi in Italia, un c.d. "titolo ibrido", un altro miliardino tanto per gradire. Il famigerato Fresh. La Fondazione, in sostanza, ne sottoscrive - sia pure non direttamente - la metà.
Chiariamo una cosa. Montepaschi questi soldi li incassa, certo. Ma li gira, come detto, al Santander. Sono, quindi, 7 miliardi (di cui 3 miliardi e mezzo di una città, di un popolo) letteralmente buttati. Non solo, oltre questo, al Santander - o a chi per lui - di miliardi ne arrivano altri 10.
Montepaschi non ha più un soldo in cassa.
Sì, perché per quanto sembri strano a molti scienziati di Twitter, le banche i soldi devono procurarseli, non li fabbricano. Normalmente se li fanno prestare da altre banche, tant'è vero che - a seconda della divisa prescelta - esistono anche appositi tassi di riferimento: qualcuno avrà sentito parlare di Euribor e Libor (per altri, nonostante l'attività dell'apostolo della tecnica bancaria, è una partita persa).
Ora, stiamo parlando di un periodo in cui Unicredit "andò per uno" dal fallire proprio per problemi di liquidità (aumenti di capitale a raffica: 3 miliardi nel 2009, 7 miliardi e mezzo a inizio 2012). Erano gli anni in cui, venuta meno la specializzazione delle banche, per gonfiare i Roe a due cifre (con conseguente bonus per l'A.D.) si era presa l'ottima piega di indebitarsi a breve, anzi a brevissimo, e di impiegare a lungo, se non a lunghissimo. Con ovvie conseguenze una volta che lassù al Nord, travolti dalla crisi dei subprime, decisero di chiudere alcuni rubinetti.
Bene, proprio in questo periodo, per l'esattezza a primavera 2010, Banca d'Italia inizia a mettere Montepaschi nel mirino, convoca più volte Mussari - nel frattempo divenuto Presidente dell'Abi (per dire la lungimiranza) -, si reca a Siena, inizia un'ispezione vera e propria, conclude evidenziando i forti problemi di liquidità determinati da alcune operazioni in derivati su titoli di Stato (passati poi alla storia patria sotto i nomi di Alexandria e Santorini) e imponendo l'invio a Roma di dati giornalieri proprio sulla liquidità.
In questo contesto Mussari assicura formalmente alla Fondazione che nessun aumento di capitale è all'orizzonte. E la Fondazione ci crede. Ci crede davvero, tant'è che - quando viene lanciato, nel giugno successivo - l'aumento di capitale da 2 miliardi, si trova totalmente impreparata. Sia questo aumento, sia soprattutto quelli successivi del 2014 e del 2015 (8 miliardi in due anni), hanno una caratteristica, quella cioè di essere "iperdiluitivi". Che è come dire: se sottoscrivi bene, se non sottoscrivi quello che hai non vale più nulla.
Cioè, il bail-in (sia pure per i soli azionisti) prima del bail-in. Così la Fondazione, negli ultimi attimi della propria grandezza, nell'estate 2011, per sottoscrivere l'aumento pro quota (il 48% del totale), si trova indebitata di 1 miliardo di Euro (sì, esatto, prende un finanziamento, da restituire per certo, per acquistare azioni, dal corso incerto). Il successivo crollo del titolo Mps la rende inadempiente nei confronti delle banche finanziatrici già a novembre. Prima dell'aumento del 2014 - e dopo un drammatico rinvio, a fine 2013, dell'aumento da 5 miliardi grazie all'energia e alla sagacia di una donna maremmana che ha fatto per Siena quello che generazioni di senesi non hanno saputo fare - la Fondazione ha venduto quasi per intero il suo pacchetto azionario in Montepaschi, ma soprattutto, per rientrare del proprio debito, ha ceduto, come ha potuto, tutti i gioielli di famiglia: la quota in Intesa, quella in Mediobanca, quella in Cassa Depositi e Prestiti, quella nel fondo Clessidra, e così via. Resta con un piccolo peculio di risorse liquide, meno di un decimo di quelle che furono.
Ma non basta. Il Fresh, in quanto titolo subordinato, cessa di pagare le cedole ed inizia a perdere in modo significativo di valore, finché non diventa addirittura conveniente per i suoi detentori convertirlo, secondo regole prefissate, in azioni Mps. In media, l'80% dell'investimento viene meno, il resto segue il corso delle altre azioni Montepaschi. E così il bail-in, che non si chiamava bail-in, si abbatte anche sugli ibridi. Cerchio chiuso.
Il resto è storia recente. Riguarda solo marginalmente me, e quasi per nulla Siena.
Probabilmente il prossimo aumento darà atto, ufficialmente, di una fine già scritta. Anche l'Impero romano era caduto ben prima del 476.

martedì 19 luglio 2016

Il CCNL e le gabbie salariali (chi si fa agnello, leone se lo mangia)

La Francia è stata bloccata dei mesi per gli scioperi e le piazze traboccavano di manifestanti contro la Loi Travail (cioè il Jobs Act in salsa transalpina). Tuttora continuano le proteste, nonostante metodi di approvazione delle norme non proprio democratiche. Norme che, come ben si sa, sono state adottate, in due mandate, anche da noi, prima grazie alla Legge Fornero, che il Signore ce la conservi, quindi coi decreti a nome merigàno di Matteo nostro. Il tutto, a fronte di un paio d'ore di sciopero.
Per dirla tutta:
D'altronde, il motivo esiste.
Siccome siamo dei gran pecoroni, e chi si fa pecora il lupo se lo mangia, le nostre amate élite trafficano - di festival in festival, come vedremo - onde cercare di peggiorare ulteriormente quello che sembrava già un capolavoro di mostruosità. Nel frattempo, si danno alla cosmesi da prima pagina dei giornaloni, in modo da non cambiare assolutamente nulla, ma riuscire comunque a sviare l'attenzione dai temi concreti.

Prima parte: i voucher.
Seconda parte: il Festival del Lavoro (!).
Terza parte: l'attacco al contratto collettivo nazionale.

* * * * *

Il meraviglioso edificio del Jobs Act (cinque decreti delegati: nn. 81, 148, 149, 150 e 151 del 2015) ha già bisogno di qualche ritocchino. Come se aveste comprato casa nuova e dopo sei mesi cascasse la facciata. I sullodati ritocchini, peraltro, non sono poi così marginali: tra gli altri, quello che riguarda il "lavoro accessorio", meglio noto ai precari d'Italia col nome esecrando di voucher, e quello relativo alla possibilità di trasformare i contratti di solidarietà “difensivi” in “espansivi” (con - ti pareva! - la previsione di incentivi per il datore di lavoro).
Come si sa, infatti, ad oggi la comunicazione di inizio della prestazione è fatta con riferimento ad un arco temporale che può arrivare sino ai 30 giorni successivi, senza l’identificazione in anticipo del giorno preciso di inizio della prestazione. In altri termini: io dichiaro oggi di voler utilizzare un voucher, e solo per questo sono in qualche modo coperto rispetto ad eventuali controlli dell'Ispettorato del lavoro per tutto il mese successivo.
Un po' come se togliessero l'obbligo di obliterazione dei biglietti sull'autobus.
Il governo ha deciso di correre ai ripari (com'era già successo, in passato, col lavoro intermittente), imponendo al datore di lavoro di comunicare, 60 minuti prima dell’inizio della prestazione, mediante SMS o posta elettronica, i dati del lavoratore e luogo e durata della prestazione stessa.
Bene? Insomma.
Intanto l'intervento è limitato, perché esclude del tutto i datori di lavoro non imprenditori (quindi, specularmente, proprio quei lavoratori per cui la disciplina era nata: colf, giardinieri, badanti, e in generale tutti coloro che svolgono servizi alla persona a domicilio) e limita fortemente la propria innovatività nei confronti degli imprenditori agricoli (cui è consentito di effettuare la comunicazione di inizio della prestazione con riferimento ad un arco temporale sino ai 7 giorni successivi, quasi che il "nero" debba essere consustanziale al lavoro nei campi).
Secondariamente, è evidente che la norma avrà la stessa effettività di una grida manzoniana, dal momento che molto difficilmente gli uffici si muoveranno autonomamente per controllarne il rispetto. La disposizione funzionerebbe in caso di estese denunce da parte dei voucheristi, i quali tuttavia - in un mondo ad elevatissimo tasso di ricatto (grazie al combinato disposto di mansioni spesso non qualificate, di quelle che piacciono tanto a Philippe Daverio, e di una disoccupazione giovanile che veleggia attorno al 40%) - molto probabilmente faranno buon viso a cattiva sorte.
Ma soprattutto, l'innovazione non coglie la sostanza del problema.
Sì perché, a mio avviso, resta aperta la questione della qualificazione della prestazione del voucherista, ulteriore rispetto a quella retribuita col voucher medesimo, come "lavoro nero". La nota del Ministero del Lavoro del 12 luglio 2013, n. 12695, chiarisce infatti che, "in merito all'utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio comunicate preventivamente all'INPS/INAIL, ma in assenza di corresponsione di voucher per alcune giornate..., la mancata remunerazione di alcune giornate di lavoro non potrà dare luogo all'irrogazione della maxi sanzione [per lavoro irregolare], in considerazione dell'avvenuta comunicazione preventiva agli Istituti".
Non potrà dare luogo all'irrogazione della maxi sanzione.
Certo, la nota lascia aperta la possibilità di procedere alla trasformazione del rapporto "in quella che
costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, ossia il rapporto di natura subordinata a
tempo indeterminato, con applicazione delle relative sanzioni civili e amministrative"; tuttavia questa possibilità è limitata "a quelle prestazioni rese nei confronti di una impresa o di un lavoratore autonomo secondo i canoni della subordinazione" e, comunque, richiede un'attività istruttoria e probatoria importante agli uffici.
Tracciare i voucher non serve a nulla. L'unica cosa da fare è abrogarli, o al limite riportarli entro ambiti molto ristretti, come quando furono creati dalla Legge Biagi. Il resto è un palliativo che non affronta lo scandalo di un rapporto di lavoro che non è neppure qualificabile come tale, che impone salti mortali legislativi e accertativi per irrogare le sanzioni, che - anche sotto la più occhiuta burocrazia - sarà sempre fonte di abuso, ricatto e sommerso.

* * * * *

Dovete sapere che in Italia si tiene anche il Festival del Lavoro. Che poi sarebbe come se nel Sahara facessero il Festival della neve, ma tant'è. Per aggiungere danno alla beffa, quest'anno gli argomenti clou erano il "contratto a tutele crescenti" e il "nuovo art. 18" dello Statuto dei lavoratori: parlare di corda in casa dell'impiccato e vivere felici.
I seguaci del Barone Leopold von Sacher-Masoch si sono dunque potuti gustare un fantastico monitoraggio dell'Ufficio di Statistica della Fondazione Studi del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Consulenti del lavoro, da cui emergerebbe che col contratto a tutele crescenti diminuiscono i licenziamenti (anche grazie agli incentivi statali, aggiungono... bontà loro) e un intervento illuminante del prof. Antonio Vallebona.
Quest'ultimo ha nuovamente scoperto la ruota sottolineando come il Jobs Act semplicemente si ponga nel solco di una rivoluzione già anticipata dalla Fornero - ne abbiamo parlato qui - e come entrambe questi atti normativi non si preoccupino tanto della liceità o meno del licenziamento, quanto della mera predeterminazione del risarcimento dovuto al lavoratore.
Tipo Codice di Hammurabi: "Qualora un medico esegua una seria operazione su un asino od un bue, e lo uccida, pagherà al proprietario un quarto del suo valore".

* * * * *

Oltre al Festival del Lavoro esiste anche il Festival dell'economia (ma limitarsi alla Sagra della salsiccia, no?).
Un palcoscenico importante, utile - in questo caso - per rilanciare un tema tanto caro ai liberisti de' noi altri: l'attacco al buon vecchio CCNL. Il tema della tavola rotonda tra Andrea Ichino (in secondo grado di meritocrazia con Pietro), Tito Boeri e Enrico Moretti aveva un titolo che era tutto un programma: divari territoriali e contrattazione: quando l'uguale diventa disuguale.
La questione è vecchia. Ne abbiamo già parlato qui. Ne hanno inoltre parlato in un ottimo articolo Marta e Simone Fana, i quali, fra l'altro, fanno la seguente osservazione: con proposte di questo tipo "viene svuotato di fatto il principio della solidarietà fiscale, che aveva costruito la base dello stato sociale, rovesciando la funzione del fisco da garante dell’esercizio dei diritti costituzionali (salute, istruzione, accesso ai beni pubblici) a guardiano degli interessi dell’impresa. La richiesta di rovesciare i meccanismi redistributivi a vantaggio degli interessi forti è un suggerimento al governo a continuare quella politica di riforme, a quanto pare solo abbozzata con il Jobs Act e la proposta di riforma della Costituzione. La prospettiva assume quindi i tratti di un tentativo di ridefinire un nuovo impianto costituzionale, che prevede la 'messa a valore' del pubblico e lo spostamento dell’esercizio della sfera di giurisdizione dallo stato al mercato, il solo che competerà nella definizione dei diritti stessi dei cittadini".
Si tratta di un punto molto importante, ma mi sembra detto veramente molto bene, e dunque non ci torno. Rimando soltanto ai "mandanti" di questo modo di (non) concepire lo Stato, e lascio a voi riflettere su quali conseguente si possano trarre dal fatto che i sicari siano professori - e politici - che si professano di sinistra.
Io, più modestamente, vorrei (ri)fare solo qualche osservazione ulteriore.


Primo. Mi pare assolutamente disonesto, dal punto di vista intellettuale, presentare come "proposte" quelle di Ichino & soci. In realtà, la questione è da tempo nell'agenda dei governi, ed anzi siamo già molto avanti nello scardinamento del CCNL. Però i giornaloni ne iniziano a parlare solo ora, in modo dubitativo, come fosse la paturnia di qualche esperto, tanto siamo d'estate. Si tratta del noto metodo Juncker: sparo il ballon d'essai, guardo le reazioni, poi vado avanti.
Ricordo infatti due normicine presenti nel nostro corpus normativo.
L'art. 51 del D. Lgs. n. 81 del 2015 (made in Renzi) dispone testualmente che "salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto [che regola alcune bagatelle come il lavoro a tempo determinato, part-time, flessibile, apprendistato, ecc.], per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria".
Cioè: questi (nazionali) e quelli (territoriali) pari sono.
Ma non basta.
Mi risulta infatti sempre in vigore l'art. 8, D.L. n. 138 del 2011 (made in Berlusca): "i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale... possono realizzare specifiche intese... finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:  ...; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; .... Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese... operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le [succitate] materie... ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro".
Cioè: se anche il contratto territoriale deroga in peggio al nazionale, pazienza. Si applica lo stesso.

Secondo. Come al solito, si cerca di curare una crisi di domanda agendo dal lato dell'offerta.
Le imprese italiane vendono poco, dunque hanno problemi economico-finanziari che incidono anche sulle loro scelte di investimento e, in ultima analisi, sulla loro produttività? Potremmo incrementare il potere di acquisto dei loro potenziali clienti e dunque la domanda aggregata... No! Siccome i caffè che facciamo restano tutti sul bancone, risolviamo facendo più caffè (eventualmente, a un costo un pochino meno elevato). Si tratta della famosa legge dell'offerta e dell'offerta.
Non può d'altronde essere che così, almeno nella mente dei nostri governanti. Menti che, per inciso, producono questo.

Terzo. In buona sostanza, quello che intende dire Ichino è che, siccome Nord Italia e Sud Italia utilizzano la stessa moneta, ma la produttività del Nord Italia è superiore a quella del Sud Italia, per rendere competitive le imprese del Mezzogiorno è necessario ridurre il costo del lavoro sotto Roma. Bisogna cioè pagare meno i lavoratori meridionali.
Vi ricorda qualcosa? Provate a sostituire alla frase di cui sopra la parola "Italia" con la parola "Europa". Forse vi aiuta.
Tra diversi Paesi, d'altronde, non c'è neppure bisogno di una legge. Basta la disoccupazione, come dimostra questo recente post.


E che sia così non lo dico io, e nemmeno Bagnai. No, lo dice la BCE, e lo dice - per l'esattezza - dal 5 agosto 2011, quando Mario Draghi e Jean Claude Trichet mandarono al Silvione nazionale una simpatica letterina. Riporto alcuni brani particolarmente significativi: "caro Primo Ministro, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce) il 4 agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.  Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali... Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure...: b) ... riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione... Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge... Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio. Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate. Con la migliore considerazione, M.D. e J.-C.T.".
Serve altro?

lunedì 11 luglio 2016

Montepaschi #1

Le banche italiane sono ancora, nel loro complesso, banche commerciali seppure despecializzate (nonostante che in Italia la tanto oggi vituperata, ma all'epoca magnificata, banca universale sia arrivata con sei anni di anticipo sugli stessi Stati Uniti, grazie - neanche a dirlo - alla solita Direttiva Europea). In altri termini, guadagnano prestando denaro. Se questi istituti si trovano ad operare in un contesto di deflazione, in cui gli investimenti sono sempre procrastinati e gli spread sul credito sono ridotti quasi a zero, è impensabile che facciano profitti. Non facendo profitti, tendono a erodere capitale e, quindi, a dover ridurre gli impieghi per rispettare i parametri di Basilea (è quello che i banchieri chiamano deleveraging), soprattutto quando le condizioni economiche non permettono di lanciare significativi aumenti di capitale. Ridurre gli impieghi, d'altronde, è un modo simpatico per dire che si chiede il rientro, spesso anche immediato, di posizioni debitorie di imprenditori solvibili. Con due conseguenze: la prima, che gli impieghi che restano a bilancio sono spesso quelli più problematici; la seconda, assai più grave, che si crei significativa tensione finanziaria in capo a imprese altrimenti sane, col rischio che anche queste entrino in una spirale che porta, se non alla chiusura, al ridimensionamento.
Se dunque si parla dei problemi delle banche in Italia (ma lo stesso discorso vale per il resto d'Europa) non si può eludere la questione dell'Euro e dell'Unione Economica e Monetaria, che - imponendo all'economia reale una perniciosa austerità e immettendo nel sistema finanziario un flusso abnorme di denaro a tasso negativo - ha scatenato e tuttora alimenta questa difficile congiuntura. Altrimenti, sarebbe come se un medico lungamente ci intrattenesse sulla febbre di nostro figlio, ma si guardasse bene dal dire da cosa è derivata (non dico che non accada; dico però che, quando accade, il medico passa almeno un brutto quarto d'ora).
Il nostro medico si chiama, nella fattispecie, Alessandro Di Battista, già esperto di microcredito congolese e viaggi in America Latina, oggi uomo immagine del Movimento 5 stelle, il quale - in un video molto cliccato - con fare da attore consumato (molto simile, in questo, al suo mentore Beppe) ci ha illustrato i danni perpetrati a Mps da Mussari e tutti i suoi sodali del PD.



Ora, quello che dice Di Battista è, nella sostanza, corretto (anche se confonde prestiti e sponsorizzazioni, ma insomma tutto fa brodo). Mussari era assolutamente inadeguato a ricoprire il ruolo che aveva? Assolutamente sì. Il PD ha utilizzato, negli ultimi anni, Banca Mps per i propri scopi, fregandosene di una sana e prudente gestione? Verissimo. Il Patto del Nazareno è nato a Siena col nome di Groviglio armonioso? Ci si può scommettere.
Il problema è che Di Battista, però, non parla delle questioni veramente cruciali: la rigidità di cambio imposta con l'UEM, la "distruzione della domanda interna" voluta da Monti, una crisi di debito privato curata come una crisi di debito pubblico. Questa è la discussione fra il sullodato Senatore e Alberto Bagnai. La differenza (in termini di perspicuità e di chiarezza) delle argomentazioni di quest'ultimo rispetto a quelle di Dibba è molto chiara.



Bene. Questo sia detto per le generali.
Veniamo ora al caso specifico di Montepaschi e cerchiamo di vedere se il frame #HaStatoMussari (tipico di parapolitici e pseudogiornalisti senesi) oppure #HaStatoPD intendendo quel PD (portato avanti da simpatici oppositori gatekeepers) sia in qualche modo fondato.
Il grafico relativo al trend percentuale di sofferenze, incagli e altri crediti deteriorati mi sembra abbastanza eloquente.


Ancora meglio, se ci limitiamo al trend percentuale dei crediti deteriorati lordi.


Come si vede, al netto di un piccolo "scalino" tra 2007 e 2009, dovuto all'incorporazione di Antonveneta in Montepaschi, è dopo il 2011, cioè dopo la "cura Monti", che il problema dei crediti problematici di Mps esplode. Ricordo che Mussari ha lasciato la Banca nel 2012. Dunque #HaStato anche Profumo, o Viola, a volerla mettere da questo punto di vista.
Aggiungo una questione che ho accennato sopra. Il trend sopra rappresentato indica valori percentuali. L'incremento, spettacolare fra 2011 e 2014, dell'incidenza percentuale dei crediti problematici deriva anche dalla riduzione dello stock degli impieghi del Monte dei Paschi negli stessi anni, determinata appunto dalla scarsa redditività della banca (del sistema bancario) sopra ricordata.
Sulla questione ritornerò. Per ora basti il grafico.


Mi sembra inoltre interessante notare come la situazione di Mps sia particolarmente grave (anche, ci mancherebbe, per reiterati episodi di mala gestio), ma si situi all'interno di un trend che è quello dell'intero sistema finanziario italiano. In altri termini, se Montepaschi è la pecora nera, è anche perché il pastore ha contribuito a renderle tutte grigie.


Il problema, dunque, non è la sponsorizzazione al Circolo Tennis di Orbetello, né che "sulle banche ci mangiano" (chi?, come?, boh), ma che il sistema produttivo del nostro Paese è stato travolto dal cataclisma del governo Monti e dei due successivi, tutti volti a comprimere la domanda interna, a flessibilizzare il lavoro, a ridurre i salari.
Cataclisma che, ovviamente, non deriva da una psicopatologia dell'ex Presidente del Consiglio, ma dal fatto che, quando non si può svalutare la moneta (perché la moneta è una per tutti, come i tre moschettieri), per forza di cosa si svaluta il lavoro (© Bagnai).
Ciò detto, mi sembra evidente che i crediti deteriorati di Montepaschi erano uno sproposito - per dire - anche nel 2014, ma nessuno se ne interessava.
Tutti distratti? In parte sì, ma non solo. Il panico - anche borsistico - si è infatti diffuso soltanto tra la fine del 2015 e l'inizio del 2016.
Guarda un po', proprio quando da un lato il nostro governo - in accordo con le autorità europee - ha deciso di valutare gli NPL al 20% e non al 40% come sono normalmente valutati nei bilanci bancari, e dall'altro sono entrate in vigore le nuove regole sul bail-in. Che si sarebbe trattato di un mix letale, non era difficile accorgersene. Né per gli addetti ai lavori, né per gli altri. In seguito, con una serie di letterine definite dagli analisti random (e dai non analisti ad minchiam), la BCE ha ancor di più drammatizzato il problema, pretendendo standard anche di copertura uguali per tutti gli istituti, senza badare al caso concreto.
Ma questa questione, così delicata, vale un altro post.


Nel frattempo, iniziano ad uscire indiscrezioni a raffica sul presunto "salvataggio".
In sostanza, Atlant(id)e si comprerebbe - anche grazie alla "leva" della GACS e a "risorse aggiuntive", pare un paio di miliardi, immessi da CDP e da SGA (di cui prima o poi dovremo parlare, è veramente una storia edificante, quasi un apologo) - quasi 28 miliardi di sofferenze lorde di Montepaschi, cioè 9 miliardi e 600 milioni netti, a un prezzo pari a circa il 28% del loro nominale.
Poiché attualmente il tasso di coverage degli NPL di Mps è al 63% (che è come dire che i medesimi NPL sono valutati in bilancio al 37%), la banca dovrebbe portare in bilancio - nella migliore delle ipotesi - un miliardino e mezzo di perdite. Secondo Il Messaggero, tuttavia, l'acquisto potrebbe anche avvenire a prezzi di bilancio, laddove circa 3/4 delle sofferenze potessero accedere alla GACS in quanto di classe senior (mi pare uno sproposito, ma se lo dicono loro...): in questo caso si tratterebbe per Atlante di negoziare un prestito ponte di 6 o 7 miliardi di Euro, che vuoi che sia. Pare che JP Morgan sia già in pole position (sì, sì, quella JP Morgan).
Comunque, per ovviare alla questione di eventuali perdite, si ventila come molto probabile l'emissione di un "Padoan Bond", o di qualcosa di simile (in sostanza, un coco bond), sottoscritto dallo Stato, per - sempre si presume - 3 o 4 miliardi. Il fatto che proprio un annetto fa Mps abbia ripagato proprio al Tesoro una obbligazione analoga è, va da sé, del tutto casuale. Come è casuale che, con la restituzione di quella obbligazione, venissero meno i tetti fissati in accordo con l'UE alle retribuzioni di amministratori e manager. Alcuni giornali, stamattina, parlavano addirittura di un aumento di capitale, in parte sottoscritto dallo stesso Atlante, in parte garantito dalle banche (le solite: Citi, JP Morgan...). Vedremo.
Comunque, come in ogni favola che si rispetti, alla fine arriva il principe azzurro.
UBI.
Sì, UBI. Si possono fare i conti più disparati, ma penso che a chiunque mastica della faccenda sia evidente che, da un'aggregazione di questo genere, anche dopo la cessione degli NPL di Montepaschi ad Atlante, l'acquirente ne uscirebbe: (i) con rapporti fra sofferenze e impieghi leggermente peggiori degli attuali, o comunque sicuramente non migliori; (ii) con un ammanco di capitale tra i 2 e i 3 miliardi (assumendo che Montepaschi sia pagata zero, cioè quanto vale attualmente).
Ci mette lo Stato anche quelli?


Leggo stamani questo post, davvero molto bello chiaro e ben scritto, che espone un grafico illuminante sulla questione.


E tanto basti.

giovedì 7 luglio 2016

Collusioni perdute (Balzac nello scintillante mondo della finanza)

Lucien Chardon, probabilmente per i consigli poco razionali di Mme de Bargeton, riteneva di essere un grande letterato. Scriveva dunque lunghi editoriali, urticanti analitici e controcorrente, ma soprattutto tanto tanto liberisti, come voleva lo spirito del tempo. E li scriveva, per di più. sul giornalino degli intellettuali, prendendosela - ça va sans dire - con tutto ciò che rappresentava il vecchio e il corporativo, a partire dalle aborrite fondazioni bancarie.
L'altro nemico giurato erano le "operazioni di sistema", e la tal banca che sempre le favoriva: l'entrata in Telecom di Telefonica valeva uno stracciarsi di vesti, per non parlare della vicenda Alitalia, con tutti quei posti di lavoro salvati, ma perché mai signora mia?
Rappresentazioni penose del peggior capitalismo italiano.
Però si sa, i giornali altro non sono che bordelli del pensiero, ed i bordelli esistono pure per qualcosa. Ecco allora che Lucien, frequentatore di un Cénacle ma bramante la celebrità, col pretesto di stroncare le rappresentazioni cui assiste, finisce sempre più spesso per blandirne gli interpreti, onde entrare a farne parte, e a pieno titolo.
Per carità, continua a lanciare le proprie stoccate come un Blondet qualunque, ma con un certo garbo da uomo di mondo. Vorrebbe licenziare gli azionisti di questa o quella banca, se la prende con questo o con quell'esponente delle Autorità di Vigilanza, ma insomma ormai si sa ben muovere nel foyer della finanza, e sceglie lui se rimanere con Mme de Bargeton, o gettarsi definitivamente nelle braccia della demi-mondaine Coralie.
Non è più abbandonato, lui. Al massimo, tradisce.
Fa talmente carriera, che le operazioni di sistema inizia a orchestrarle lui stesso. E le intesta con nomi classici, o mitologici, siamo o non siamo letterati? Certo, quando ne parla sembrano tutte crociate a favore del mercato, anzi dei mercati che ancora non ci sono: si sa che in Italia, purtroppo, la finanziarizzazione dell'intera economia ha ancora qualche limite.
Poi, però, a grattare la vernice di questi valenti baluardi contro le locuste estere (si salvano solo se del Grousherzogdem), calate nel Belpaese per spolparne i resti, si scoprono - in fondo in fondo - i soliti salvataggi di istituti falliti (o, piuttosto, fatti fallire), salvataggi peraltro necessari onde evitare fallimenti ancora più gravi, e tanti saluti.
Comportamento sacrosanto. Se tu non lo avessi schifato fino a ieri. Se tu non scegliessi, come compagni di avventura, i tuoi nemici giurati.
Chissà se Lucien si è reso conto di essere stato traviato.
D'altronde, il suo Andoche Finot (o il suo Vautrin?) non è per nulla in fondo alla scala sociale, ma in cima, e da quasi quarant'anni, con quell'aria un po' risorgimentale che gli attribuisce una barbetta forse un po' troppo incolta, per l'età. Lavora molto per il suo Finot, il nostro Lucien, e lavora - ma con minore convinzione, si direbbe (ma tanto, quando non centra il canestro... si sposta il canestro) - anche per altri, che a questo medesimo Finot si rivolgono anche troppo e forse senza un vero motivo.
Un giorno, ne siamo sicuri, anche Lucien si ritroverà mai a un ballo in maschera, faccia a faccia con un qualche Eugène de Rastignac.
Magari, quel giorno, si vedrà come in uno specchio.

lunedì 4 luglio 2016

Lo scolaretto e la maestra cattiva (Renzi provoca e la BCE affonda Mps)

Non ho neanche più voglia di scrivere.


D'altronde, che si trattava di una misura a scelta o inutile o dannosa è apparso chiaro da subito. Come è parso chiaro da subito che sarebbe rimasta riservata, se non fosse stata fatta filtrare nel quadro delle tensioni fra i governi italiano e tedesco.
Di seguito un sunto dell'articolo: "l'Italia è pronta a sfidare l'UE, iniettando unilateralmente alcuni miliardi di euro nel proprio travagliato sistema bancario ove lo stesso risulti oggetto di gravi difficoltà sistemiche... Matteo Renzi... è determinato ad intervenire con fondi pubblici, se necessario, nonostante gli avvertimenti da Bruxelles e Berlino sulla necessità di rispettare le regole per cui, in caso di salvataggi bancari, a pagare devono essere i creditori e non i contribuenti... La minaccia ha suscitato allarme tra i regolatori europei, che temono che un intervento così sfacciato possa distruggere la credibilità delle nuove regole sulle banche al loro primo vero test. Nella corsa per trovare soluzioni praticabili, Margrethe Vestager... ha esposto le opzioni per Roma per affrontare i suoi problemi bancari senza rompere i principi bail-in di un'unione bancaria europea. L'Italia è il Paese più vulnerabile... dopo l'esito shock del voto del Regno Unito... Le preoccupazioni sono connesse ai risultati degli stress test di fine mese e del referendum costituzionale... di ottobre, su cui Renzi ha scommesso tutto. Citi ha descritto il referendum come il maggior rischio nel panorama politico europeo quest'anno, dopo la Brexit. Dopo che molte delle sue idee... sono state respinte, Renzi sta valutando se agire da solo... Angela Merkel, cancelliere tedesco, la settimana scorsa ha respinto la richiesta di una sospensione..., in Italia, delle regole sui salvataggi bancari, al fine di ricapitalizzare le banche del Paese. Benoit Coeuré, un alto funzionario della Banca centrale europea, ha detto che qualsiasi sospensione delle regole di salvataggio significherebbe la fine dell'unione bancaria come la conosciamo... Renzi si è molto arrabbiato nei confronti di chi ha suggerito che stia ignorando le regole, dicendo che non avrà bisogno di lezioni da un maestro di scuola. Roma sta prendendo in considerazione misure come aumentare la dimensione di... Atlante, usato come back-stop negli aumenti di capitale di due banche in fallimento... Atlante lancerà a giorni ... un fondo focalizzato su crediti in sofferenza... Primo obiettivo, le sofferenze del Monte dei Paschi di Siena, il principale problema del sistema bancario italiano... L'Italia sta anche discutendo l'utilizzo dei fondi di Cassa Depositi e Prestiti e di fondi pensione statali... La Commissione è aperta... a ridurre la pressione sui risparmiatori, anche riducendo i casi di conversione in capitale del debito junior a patrimonio netto... Roma deve smettere di fingere che non vi siano altre soluzioni che quella di mettere da parte le regole, ha detto un funzionario europeo..." (enfasi mie).
Non abbiamo bisogno delle lezioni della maestra (la maestra, i compiti a casa... sul significato di questa regressione all'infanzia, rimando alle considerazioni del Pedante).
No, no.
Per niente.
Infatti.

Che poi la lettera, in sé, non dice nulla di particolarmente nuovo. In questo senso il comunicato di Banca Mps è corretto.


Il problema è che la situazione è oggettivamente drammatica (qui): il 31 luglio si presentano gli stress test, e i nodi verranno necessariamente al pettine.


Nel frattempo, tra gli analisti si iniziano a soppesare tre possibili scenari.
Il primo è quello della creazione di un Atlante 2, con quote importanti a CDP e fondi pensione, che sostenga un eventuale aumento di Montepaschi e, quanto meno, permetta a Renzi di comprare tempo ("not to loose sovereignity", testuale un analista).
Il secondo è una fusione con Intesa (di nuovo!), che non solo non rientra nei piani di ISP, ma che, soprattutto, a mio avviso rappresenterebbe la pietra tombale su tutto il sistema economico-finanziario italiano.
Il terzo è un programma di bail-out. Ai sensi dell'art. 107, Tfue (vedi), con annesso scontro con Merkel e Commissione Europea (ciao còre). Oppure mediante un prestito ponte di Fondo Monetario e Banca Centrale Europea, con annessa firma del famigerato memorandum.
Sì sì, è proprio la Troika.
Amen.

AGGIORNAMENTO DEL 5 LUGLIO

Dunque, siccome siamo fantasiosi, l'ultima trovata del nostro Ministero dell'Economia per ricapitalizzare MPS senza attivare un vero e proprio piano di bail-out è quello di permettere a Montepaschi l'emissione di 3 miliardini almeno in co.co. bond (già ribattezzati "obbligazioni Padoan", ultima versione dei Tremonti e dei Monti Bond), da far acquistare per una metà - se va bene - ad Atlante (1, o 2, il numero sceglietelo voi), per il resto dallo Stato.
(Faccio notare che i medesimi 3 miliardi il Tesoro se li è fatti restituire un anno fa da Mps. Quando si dice essere lungimiranti... o attenti ai compensi degli amministratori, a seconda).
A livello tecnico, probabilmente si attenderà il fallimento dello stress test di fine luglio per attivare l'art. 32 della Direttiva BRRD, che permette un sostegno pubblico straordinario volto a preservare la stabilità finanziaria attraverso, fra l'altro, la sottoscrizione di strumenti di capitale a prezzo di mercato (purché la banca sia solvibile, il nuovo capitale serva solo per rispettare quanto richiesto dagli stress test, non sia utilizzato per ridurre perdite pregresse).
A fronte di questa possibilità (vista di molto mal occhio dalla Commissione, che per ora ha gestito situazioni analoghe con la politica del caso per caso, ovviamente dando il via libera ad aiuti di Stato in Germania e tenendo una posizione molto rigida in Olanda), l'UE ha proposto all'Italia di dar corso al bail-in di Montepaschi, salvo indennizzare gli obbligazionisti retail, anche subordinati, così come accaduto in Portogallo con il Novo Banco (mentre in Italia si è scelto il pastrocchio indecoroso di Banca Etruria). L'Italia, però, ritiene questa un'opzione impraticabile, perché causerebbe un danno reputazionale enorme, soprattutto per i Titoli di Stato. 

Questa è la situazione ad oggi. Che ribadisce alcune lezioni che non vogliamo imparare.

Prima lezione (la potremmo chiamare Legge di Bagnai).
Definire la BCE un organo tecnico indipendente è un modo molto ipocrita per definire un organo politico senza responsabilità nei confronti del corpo elettorale, cioè un organo che - con immensi poteri - agisce al di fuori della democrazia.
Per dire:
Se non fosse un organo politico, non avrebbe inviato - tanto meno in questo momento - la lettera che ha inviato a Montepaschi (riduzione dei crediti deteriorati lordi al 20% degli attivi complessivi entro il 2018, rispetto all'attuale 35%.), oppure non l'avrebbe fatta circolare sui giornali.
Lo stesso (organo politico sostanzialmente "al riparto dal processo elettorale") vale per la Commissione, che infatti - proprio perché soggetto eminentemente politico e non tecnico - ama gestire le situazioni caso per caso, a seconda del proprio tornaconto.
Perché la BCE si è comportata così? Non si tratta di un quesito ozioso. Dalla risposta a questa domanda discende anche il probabile, futuro comportamento di tutte le autorità europee rispetto ai piani di salvataggio che saranno presentati dall'Italia.

La Legge di Bagnai ha poi un corollario. Lo potremmo chiamare il Corollario di Formica.
Questa pseudo-indipendenza della BCE, che poi è la stessa pseudo-indipendenza della Banca d'Italia dopo il 1981, mette lo Stato che deve finanziarsi alla mercé del così detto "mercato", cioè - in parole povere - di alcune grandi banche globali (per lo più statunitensi).
Lo schema portoghese del Novo Banco è stato fermamente respinto da Matteo nostro non perché sia particolarmente contento di perdere ulteriori voti, ma perché ha visto come il Portogallo, che ha osato fare il bail-in soltanto sugli investitori istituzionali, sia ormai disertato da questi ultimi, ed abbia significativi problemi di reperimento di risorse (il Tfue, d'altronde, evita qualsiasi forma di monetizzazione del deficit, come sappiamo).

Seconda lezione (la potremmo chiamare Legge di Borghi).
Il bail-in - al di là delle sue motivazioni teoriche - non funziona e non può funzionare, perché non tiene conto che l'asset principale, non di una banca, ma del sistema finanziario stesso, è la fiducia dei risparmiatori, e questo sistema la mina alla radice.
Forse avrebbe potuto funzionare se fosse stato introdotto l'EDIS, ma sappiamo come è andata a finire. E sappiamo chi si è opposto.
Utilizzare, al suo posto, come meccanismo di back-stop, l'ESM (si tratta della proposta di Padoan) secondo me crea molti più problemi di quelli che risolve, e apre un portone a chi vorrebbe fare entrare a tutti i costi in Italia la tanto simpatica Troika.

Terza lezione (corollario specifico delle prime due).
Il salvataggio, o meno, di Montepaschi non ha nulla a che vedere con l'economia, la finanza e le regole giuridiche. Si tratta di pura politica.
E questa considerazione vale per ogni situazione che coinvolga l'Unione Europea, a partire dalle annuali valutazioni delle leggi di stabilità, gli sforamenti dei deficit, e così via.
Il che comporta non soltanto un senso di frustrazione e ingiustizia nei popoli che, quando possono, fanno sentire il loro lieve dissenso in qualsiasi cabina elettorale (e meno male!), ma anche l'impossibilità, sia per i piccoli risparmiatori, sia per gli operatori professionali, di tenere strategie di investimento razionali e coerenti.

Finirà male, temo.