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martedì 24 maggio 2016

Altre nuove dal mondo di Atlant(id)e

Dunque, pare che Banca d'Italia si sia accorta che, forse, applicare in modo sostanzialmente retroattivo la disciplina del bail-in non sia stata proprio una buonissimissima idea.
Effettivamente, parrebbe proprio di no (per chi non è pratico: gli effetti del bail-in sono quel picco negativo tra gennaio e febbraio 2016).


Ora, non ci sarebbe neanche bisogno di parlarne, se non fosse che personaggi anche di una certa rilevanza, in trasmissioni di una certa rilevanza, continuano a sostenere - con inusitata faccia di tolla - che "il governo ha fatto un ottimo lavoro con le banche" (sostengono anche altre sesquipedali cazzate, ivi compresa patrimoniale, tassa di successione semi-espropriativa, sostegno alla deforma costituzionale di Maria Etruria, e così via: ma non si può polemizzare su tutto).
Dunque, si diceva: il D. Lgs. n. 180 del 2015 che ha introdotto in Italia, senza alcuna norma transitoria, il bail-in è un ottimo lavoro. Anche la risoluzione delle quattro banche di dicembre è un ottimo lavoro. Per non dire del trattamento riservato agli obbligazionisti subordinati delle sullodate banche, o delle riforme delle Popolari (che ha portato ai casi di studio della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca) e delle Banche di credito cooperativo (che permetterà a colossi del credito come Chianti Banca e la Cambiano di togliersi grandi soddisfazioni).
Certo, ma la Direttiva BRRD è uguale per tutti, mica potevamo non adeguarci! Vero. Anzi no.
Perché solo degli incompetenti, o dei venduti, non avrebbero potuto capire che queste norme avrebbero avuto impatti diversi sui diversi sistemi bancari dell'Unione, colpendo in particolare quelli dove le maggiori banche detengono quantità significative sia di bond propri, sia di titoli di Stato, e dove - per tradizione - molti altri di questi bond sono piazzati anche al retail domestico. Ogni riferimento al caso italiano è puramente voluto.
E talmente ovvio, che ci è arrivato pure il Financial Times (quello che normalmente scrive due anno dopo quello che un Alberto Bagnai scrive due anni prima).
Comunque queste cose ce le siamo già dette. Però, ogni giorno qualche nuova chicca non manca.
Il Fatto Quotidiano, come spesso gli capita in questo settore, ha fatto lo scoop.
Pare, e dico pare, che la cessione delle quattro new bank nate dalla "risoluzione" di Banca Marche, Banca Etruria, CR Ferrara e CR Chieti si sta rivelando più complicata del previsto (ricordo che il primo termine "segreto" fissato dalla BCE per la cessione era fine aprile scorso, mentre il nuovo termine, ancora più "segreto", è settembre prossimo), con conseguente riduzione del prezzo di vendita complessivo a circa 700 milioni di Euro, rispetto al miliardo e 800 milioni pagato dal fondo di risoluzione lo scorso novembre.
Ricorderete la polemica di una esageratamente bassa valutazione (al 17%) delle sofferenze. Vero. Il tasso di recupero è più o meno del 22%. Senonché, i 400 milioncini così recuperati sono serviti a coprire nuovi crediti deteriorati, a suo tempo non scoperti.
Forse qualche considerazione su questo speciale e precisissimo colpo di fortuna andrebbe fatta, qualche domanda posta.
Non solo: come mai quattro banche sostanzialmente risanate e con filiali in zone tutto sommate floride d'Italia non hanno pretendenti? Perché - grazie alla perdita di fiducia della clientela in brand che sono ormai associati a una truffa di Stato - le new bank hanno perso grandi quantità di depositi e, con essi, gran parte della loro redditività.
Ma secondo i manager che piacciono alla gente che piace, è un ottimo lavoro.
Non finisce qui. Il salvataggio delle quattro banche è stata finanziata principalmente attraverso due linee di credito concesse dal sistema bancario italiano (un miliardo e seicento milioni a lungo termine e due miliardi e mezzo a breve, che avrebbe dovuto essere rimborsato addirittura a fine del 2015). Se le quattro banche salvate fossero vendute ad un prezzo non sufficientemente elevato da consentire il rimborso della linea di credito al sistema bancario, il fondo di risoluzione potrebbe richiedere agli istituti ulteriori contributi straordinari, con conseguenze devastanti sulla redditività (e sulla tenuta) dello stesso.
Ripeto: però è un ottimo lavoro.

Aggiungiamo anche gli aumenti di capitale di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza, quest'ultimo che per poco non trascina Unicredit (già messo male di suo e affamato di capitali come ai tempi belli di Profumo) in una crisi quasi irresolubile. Atlante ci ha messo una pezza, ma come tutte le pezze para poco, e strappa il vestito.
Infatti...
Di conseguenza...
Anche in questo caso, ottimo lavoro. Davvero ottimo. Splendido.
(Chissà che ne pensa l'amicone di Matteo Guzzetti? Siccome io tengo a questo Paese e rifiuto la logica del tanto peggio tanto meglio, ovviamente non spererò mai, ma mai eh!, in un aumento iperdiluitivo che trascini Cariplo dove è stata trascinata la Fondazione Montepaschi).

Le belle notizie, però, non vengono mai da sole. La seconda è questa.

Chiariamo.
Pare che Ministero delle Finanze pensi di vendere a CDP (cioè a se stesso e alle fondazioni bancarie) il 30-35% di Poste Italiane, la restante parte ai soliti noti (normalmente definiti dai giornali "il mercato"). Ovviamente, regole severissime (!) eviterebbero conflitti di interesse, tipo quello per cui CDP emette svariati prodotti postali, distribuiti appunto da Poste. Ma sono dettagli che i liberisti un tanto al chilo non curano.
Perché una cazzata simile?
Perché CDP è deconsolidata rispetto al bilancio dello Stato e dunque permetterebbe al governo di centrare gli obiettivi, richiesti dalla UE, in materia di privatizzazioni. Gli obiettivi richiesti dalla UE in materia di privatizzazioni. Meditate la frase, per piacere.
Ma non solo.
Poste è un'impresa che fa molti utili e stacca cedole importanti. Dunque lo Stato, vendendo a CDP una quota significativa della società, incassa subito una somma sostanziosa (probabilmente superiore rispetto a quella dell'IPO in borsa), ma si priva di flussi di dividendi annui significativi, che saranno ridistribuiti in parte alla CDP e in parte alle fondazioni bancarie, cioè a soggetti privati.
E perché mai?
Perché, dal canto loro, le fondazioni accettano che la redditività "propria" di CDP sia messa a dura prova da una serie di investimenti "di sistema", come si usa dire, come Atlante, o Saipem, cui presto si aggiungeranno altre avventure sicuramente fallimentari, tipo l'Ilva (per dire) o la mitologica banda larga (gioco dell'oca qui accanto).
Dunque CDP da una parte ci guadagna e dall'altra ci perde. Così le fondazioni. Lo Stato ci perde. Cioè ci perdono gli italiani.
Ma non è una novità.


P.S. dal resto del mondo. Deutsche Bank sta messa sempre meglio.

Se salta succede un cataclisma, altro che Lehman.
Ma non salterà. E non perché, come qualcuno crede e come io voglio sperare, la Germania o uscirà dall'UEM per nazionalizzarla oppure l'UEM cambierà per permettere alla Germania di intervenire con Aiuti di Stato.
No.
Le regole saranno violate, come al solito. Ma in modo subdolo. Si metteranno massimali ai Titoli di Stato detenibili dalle banche. Si creeranno regole ancora più stringenti per le banche tradizionali. Si metterà insomma in crisi il sistema italiano, bancario e statuale, quello spagnolo, forse anche quello francese. Deutsche Bank calmerà nel breve le acque con la solita ELA della BCE, con cui ricomprerà vagonate di titoli propri sul mercato a prezzo stracciato. Il panico sposterà grandi masse monetarie di nuovo verso nord.
La Germania si salverà. Ancora.
Nel resto d'Europa però saranno solo macerie.

Cosa succederà dopo, non lo so.

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