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giovedì 4 febbraio 2016

Lavoro agìl, c'est plus facìl (il cottimo 2.0)

Mentre assistiamo alla sublimazione del nostro sistema bancario (copyright Claudio Borghi), Matteo l'Africano, prima di partire per un lungo viaggio (come direbbe Irene Grandi), ci ha deliziato addirittura con lo "Statuto del lavoratore autonomo" e con il "Lavoro agile". Erano mesi che ce lo prometteva, finalmente è arrivato (come il noto Arrotino).

(Apro parentesi: ma chi li sceglie questi nomi? Un disgraziato e seriosissimo professore universitario, chiamato a pronunciarsi sulla materia, si è addirittura sentito in dovere di chiarire che "non si tratta di un sotto-tipo (acrobatico o circense) del lavoro autonomo né del lavoro parasubordinato", ma soltanto di "un alto modo [completamente delirante, soprattutto se si considera che vorrebbe tradurre la locuzione smart work: N.d.R.] per chiamare il telelavoro subordinato").

Ovviamente, tanto per non perdere il vizio, le norme presenti nel d.d.l. sono essenzialmente rivolte al perseguimento dei soliti obiettivi, già graziosamente indicati dalla BCE a suo tempo (con la nota letterina al Berlusca): (1) incremento della produttività a fronte di uguale (o minore) retribuzione; (2) riduzione delle tutele del lavoratore (concetto che, chissà perché, ultimamente nella neo-lingua si esprime con la locuzione: "conciliazione dei tempi di vita e di lavoro"). Come mai Matteo tanto ce l'abbia con i poveri dipendenti, non lo sto a riscrivere. Lo spiega da cinque anni in tutte le salse Alberto Bagnai, con ben altre competenze rispetto alle mie. Leggete lui. Qualsiasi cosa, su web o carta, o almeno questo post, dove spiega per la milionesima volta che l'Euro è, né più né meno, un progetto di deflazione salariale.

(Che poi 'sta cosa della deflazione, qualche piccolo inconveniente lo porta. Tipo:
Però, non è che si può avere tutto dalla vita).

Ma torniamo al d.d.l. Primo punto: al "lavoro agile", che poi sarebbe telelavoro, "non si applicano le norme e i contratti collettivi relativi al telelavoro" (in particolare, l'accordo interconfederale del 9 giugno 2004, di recepimento dell’accordo quadro europeo del 16 luglio 2002). A voi non sarebbe venuto mai in mente, e infatti voi né siete Presidenti del Consiglio né sbattete i pugni sui tavoli quando i tavoli non esistono.
Ben vi sta. Così imparate a "non essere visionari" (nell'unico significato italiano del termine).
Sì, ma in pratica?
Esempio n. 1: fonti del diritto. Secondo il d.d.l., "lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile è disciplinato da un accordo scritto tra le parti". Punto. Neanche si scomoda la D.T.L.. Il contenuto? Si deve solo assicurare all'agilissimo dipendente "un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti degli altri lavoratori subordinati". Lascio immaginare tutte le interpretazioni che fioriranno sull'avverbio. In complessivo, cioè più o meno, sì vuol dire insomma, vabbè mettiamoci d'accordo...
Esempio n. 2: potere di controllo. L'accordo interconfederale impone il rispetto, da parte del datore di lavoro del "diritto alla riservatezza del telelavoratore" (leggi: privacy). Il lavoro agile, invece, fedele al suo nome, fa un triplo salto mortale carpiato sulla materia: "il datore di lavoro ha diritto di controllare la prestazione resa dal lavoratore in modalità di lavoro agile nei limiti espressamente indicati dall'accordo individuale e nel rispetto della disciplina di legge in materia di controlli a distanza del lavoratore" (questi ultimi, come sappiamo, ormai nulli. Per chi fosse interessato alla barzelletta che è diventato l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, può leggere qui). L’accordo individuale precisa gli eventuali comportamenti disciplinarmente rilevanti ulteriori a quelli contenuti nel codice disciplinare applicato dal datore di lavoro, specificandone le relative sanzioni nel rispetto del principio di proporzionalità".
Esempio n. 3: salute e sicurezza. L'accordo interconfederale norma con grande attenzione la questione. Statuisce che il datore di lavoro: (i) sia responsabile della fornitura, dell’istallazione e della manutenzione degli strumenti necessari, (ii) provveda alla compensazione o copertura dei costi direttamente derivanti dal lavoro, (iii) si faccia carico dei costi derivanti dalla perdita e danneggiamento degli strumenti di lavoro. Dal punto di vista della salute, pone una specifica "responsabilità" in capo all'impresa. Il "lavoro agile”, invece, non ama tutte queste pedanterie. È rapido, flessibile, moderno. Per cui si limita a questo: "il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa in modalità di lavoro agile è tenuto a custodire con diligenza le apparecchiature eventualmente messe a disposizione dall'azienda" (cioè: chi rompe paga, ecc. ecc.), mentre il datore di lavoro, "al fine di dare attuazione all'obbligazione di sicurezza..., deve [solo!] consegnare una informativa periodica, con cadenza almeno annuale, nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alle modalità di svolgimento della prestazione" (fatto questo, caro il mio lavoratore, sono cavoli tuoi. Ah, a proposito: se ti fai male a casa poi dimmi che ti risponde l'Inail... dai fammi ridere!).
Esempio 4: durata del contratto. La disposizione non è chiara, ma se interpretata letteralmente sarebbe clamorosa. Sì, perché pare permettere il recesso dal contratto di lavoro con un mero preavviso mensile, senza nessuna tutela per il lavoratore, neppure quelle del contratto a tutele crescenti. Io, come tutti coloro che hanno letto l'articolo, sperano ovviamente di sbagliarsi.

Si potrebbe continuare. Ma non è questo il punto.
Non - è - questo - il - punto.

Il punto è che il "lavoro agile" sembra l'ennesimo tentativo per scardinare il concetto stesso di prestazione lavorativa. La sede di lavoro? Inesistente. L'orario? Quello che preferisci? E gli straordinari, la reperibilità, il lavoro notturno? Roba vecchia. Stendo un velo pietoso su buoni pasto, spese di riscaldamento ed energia elettrica. Se poi la disciplina non si applica a superstar dell'information technology, ma a semplici impiegati normalmente addetti a lavori di data entry, che differenza c'è tra questo smart work ed il buon vecchio lavoro a domicilio della prima Rivoluzione industriale? Ottima fonte di impiego per precari, disoccupati, studenti...
Si capiscono meglio, in questo contesto, certe uscite di Poletti.
D'altronde non si tratta né di una mia invenzione, né di chissà quale scoop. Scrive Il Foglio: "più che un modo per superare i limiti del telelavoro (che non è mai decollato) è un’opportunità di rivedere l’approccio al lavoro. È necessario indubbiamente... uno sforzo ulteriore innanzitutto agli attori del sistema di relazioni industriali, cui spetta il compito fondamentale di compiere un salto culturale e metodologico di approccio al lavoro che di certo non è nella disponibilità del legislatore”. E quale sarebbe questo nuovo approccio? Lo scopriamo grazie al Corriere: "il lavoro agile ha poco a che fare con il vecchio telelavoro. Il punto non è se si lavori da casa, dall'azienda o da qualunque altro posto. Il punto è che ciascun dipendente viene valutato per i risultati che porta. Indipendentemente da quanto e da dove lavora".
"Indipendente da quanto e da dove lavora"...
In pratica il lavoro agile è lavoro a domicilio pagato a cottimo. In una parola: il futuro.
Quelli più svegli, peraltro, l'avevano già capito...
Non solo.
Perché il lavoro agile, oltre a destrutturare gli orari di lavoro, destruttura anche gli uffici.
La partecipazione alla vita aziendale va a farsi benedire. Per non parlare della possibile sindacalizzazione dei lavoratori.
Ciascuno, una monade.
Ciascuno isolato.
Senza diritti e senza possibilità di lottare per averli.
Le aziende, a voler proprio pensar male, con lo smart work risparmierebbero non soltanto in utenze, postazioni di lavoro, mensa, straordinari e altri costi monetari, ma avrebbero anche l'occasione per aggredire, sempre più in profondità, i rapporti aziendali normalmente intessuti nel corso della normale vita di ufficio (o di fabbrica), in modo da isolare i singoli rendendoli, così, contrattualmente assai più fragili.
D'altronde, dice Matteo, è l'ora di mettere mano anche a questa materia...

(Chiudo con una considerazione "politica". Quello che è più triste, è che Matteo pensava, con il Jobs Act, con il lavoro agile, con un paio di riformine costituzionali, di placare il drago europeo. Lui ci credeva davvero. Forse ci crede tuttora. Rifletteva tra sé e sé: massacro i lavoratori, faccio un bel maggioritario a misura di PD, in cambio ottengo flessibilità per vincere le elezioni. Povero Matteo. Non sa che il drago non è mai sazio. Che ci sarà sempre una riforma da fare. Altre risorse da drenare. Un sistema finanziario da destabilizzare. Ricchezze private da espropriare. Che lui non è diverso da Monti, da Letta, o da chiunque altro lo ha proceduto. Povero Matteo. Vuole sbattere i pugni sul tavolo. E non sa che il tavolo proprio non c'è).

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