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giovedì 18 febbraio 2016

Matteo, i professori e la patrimoniale

In questi giorni è "scoppiato" il caso dell'avvertimento al governo, neanche tanto velato, di un gruppo di economisti molto vicini alla BCE, affinché si inizi un nuovo programma di privatizzazioni e, se del caso, sia introdotta un'imposta patrimoniale.
La questione è riassunta qui:
Visto però che l'Italia è piena di gente con le più strane perversioni, chiunque fosse interessato al testo integrale, lo può trovare qui. Io, inoltre, lo riporto di seguito (in corsivo) con qualche mio commento in calce (in tondo grassetto).


Eurozona, la responsabilità dell’Italia
Di Carlo Bastasin, Lorenzo Bini Smaghi, Franco Bruni, Marcello Messori, Stefano Micossi, Franco Passacantando, Fabrizio Saccomanni e Gianni Toniolo

[Bastasin è questo. Bini Smaghi è l'ex membro BCE, così caro a Sarkozy, attuale membro di Morgan Stanley International e in predicato di diventare Presidente della prima ex-BCC renziana, nobile, amante dei nomi orrendi per tradizione di famiglia, di recente convertito all'anti-austerità pur restando marito dell'economista De Romanis. Saccomanni è stato Governatore della Banca d'Italia e Ministero delle Finanze per Letta, e tanto basta. Passacantando è uno di uscio e di bottega in tutti gli organismi internazionali, pubblici e privati. E così via].

L’aiuto della Bce non durerà per sempre
Siamo tutti tentati di dire che il peggio è, ormai, alle nostre spalle. Eppure, dopo otto anni dall'inizio della crisi, la stabilità dell'euro-area è ancora a rischio. Nonostante diversi tentativi di migliorare le pratiche e le istituzioni di governo dell'Unione, i paesi che condividono la  moneta unica continuano ad avere andamenti economici divergenti. Il sistema attuale non  sembra ancora in grado di consolidare un percorso di sviluppo. Non siamo nemmeno certi che  gli strumenti, di cui disponiamo, riducano significativamente i rischi di instabilità che hanno  scosso le fondamenta dall'euro-area, né che permettano a governi e opinioni pubbliche tra loro molto distanti di unire le forze e condividere contromisure adeguate.

[Già si comincia male. Intanto, perché è vero che - come direbbe Bagnai - ogni grafia richiama un'etica. Scrivere Unione con la U maiuscola e paesi, tra cui il tuo Paese, con la minuscola, non promette nulla di buono. Scrivere poi euro-area invece di area-Euro o Eurozona anche peggio. Poi, se è vero che il fine giustifica i mezzi, qui il fine risulta sin dalla prima riga profondamente sbagliato: la ricerca della stabilità dell'Eurozona, cioè di una cosa che, per la sua stessa struttura, stabile non può proprio essere. Lo sanno tutti, ormai, ma questo qui sotto è un simpatico ripasso:
Chiusa parentesi].

La politica monetaria sembra l'unico strumento di politica economica a disposizione. Tuttavia, essa può riportare l'inflazione a livelli normali solo con molta gradualità e incontra limiti nel sostegno dell'attività economica. Per giunta, il ricorso a politiche monetarie non convenzionali incorpora rischi; il che spinge a definire subito limiti di tempo, entro i quali l'allentamento quantitativo dovrà esaurirsi. Saranno le condizioni di carattere geopolitico o finanziario a  influenzare la durata del programma della Bce; eppure la scadenza del marzo 2017, evocata  dalla stessa Bce, pone fin da oggi l'economia europea di fronte allo scenario dell'uscita da  quegli acquisti di attività finanziarie che hanno stabilizzato il mercato dei titoli di Stato ma  hanno appena iniziato a dare respiro all'economia.

[Ora, ognuno scrive quello che gli pare. Però il principio di realtà andrebbe rispettato: la politica monetaria della BCE non riesce a riportare, neppure con gradualità, l'inflazione "a livelli normali". Quali siano, non è dato sapere. Il 2% della BCE? Di più o di meno? Ma poi questa inflazione, o non era "la più iniqua delle imposte"?
Sulle "politiche monetarie non convenzionali", poi, stendo pietoso velo e vi rimando qui].

Dal coordinamento accentrato a un meccanismo decentrato
Il tentativo di rispondere alla crisi accentrando il coordinamento delle politiche economiche  dei paesi dell'euro ha via via perso credibilità. Sono stati predisposti imponenti e intricati sistemi di governance attraverso il Semestre europeo, il Six-Pack e il Two-Pack. L'applicazione delle regole europee è stata però problematica e asimmetrica, distinguendo tra paese e paese; il che ha tra l'altro intaccato il senso di comunanza che avrebbe facilitato l'adozione e il rispetto di regole condivise. I risultati della nuova governance non sono soddisfacenti: nei paesi più fragili, il rapporto tra debito e Pil ha continuato a peggiorare; le riforme strutturali sono state adottate con riluttanza in paesi come Francia e Italia; paesi come la Germania con surplus di risparmio non hanno accettato di discutere sul riequilibrio del loro ampio avanzo di parte corrente. Ne è derivato che, in un contesto di bassa crescita economica, i paesi più in difficoltà sono stati obbligati a recuperare la loro competitività attraverso la deflazione interna. Perdita di credibilità e di efficacia hanno contribuito all'erosione della fiducia nella governance europea.

[Quel che va detto va detto. Questi sono proprio professori. Io non capisco nulla di quel che scrivono e mi inchino. Da un lato, infatti, si stigmatizza la necessità del ricorso alla "deflazione interna", dall'altro ci si rammarica che alcuni Paesi come Francia o Italia siano stati troppo timidi nel "fare le riforme strutturali", cioè prendere provvedimenti volti ad incrementare questa deflazione. Il tutto, poi, per salvare l'Euro, un progetto che fa della deflazione salariale il proprio cardine principale. In tutto questo, i suddetti professori si stupiscono del continuo peggioramento del rapporto tra debito e PIL, tutti presi dal numeratore ed assolutamente disinteressati al denominatore].

Fino al 2012 la gestione della crisi e i cambiamenti istituzionali che l'accompagnavano si sono basati su una gerarchia tra i paesi, in ragione della quale i paesi con surplus di risparmio  hanno dettato condizioni stringenti ai paesi in deficit. Tali condizioni hanno poi trovato  riflesso nell'operatività del ‘Meccanismo europeo di stabilità’ e nei programmi di assistenza  finanziaria. Successivamente, quando il compito di stabilizzare la crisi è stato assunto dalla  Banca centrale europea, con l'intento di rimettere in funzione i canali di trasmissione della  politica monetaria e di difendere l'integrità della moneta unica, si è attenuata la presa delle condizionalità politiche imposte ai paesi più fragili nella prospettiva di un aiuto finanziario da  parte degli altri paesi. La spinta riformatrice e il risanamento dei conti pubblici, che erano stati attivati dall'emergenza finanziaria e dal regime di condizioni innescato dagli aiuti, ha finito per attenuarsi ovunque. Semplificando si potrebbe dire che, con l'euro-area in pericolo  di sopravvivenza, la Bce si è dovuta far carico di un ruolo di pivot finanziario che, in  precedenza, era stato svolto – pur se in modo controverso - dalla Germania. Buona o cattiva, la  gerarchia tra paesi che consentiva a quelli ad economia più salda di dettare le regole e di  imporre una supervisione tecnica a quelli più fragili, si è molto attenuata. Il coordinamento  politico delle economie dell'euro-area, accentrato solo attraverso il ruolo primario di Berlino,  è diventato quindi via via meno efficace.

[Cerco di tradurre: fino al 2012 la Germania dettava le condizioni ai Paesi in difficoltà, prima direttamente poi tramite il MES. Dopo, questo ruolo è stato svolto dalla BCE in modo molto meno rigido e, in quest'ottica, anche in modo molto funzionale.
Vogliamo parlare degli enormi risultati raggiunti dalla leadership tedesca in Grecia, Spagna e Portogallo? Oppure vogliamo concentrarci sulla particolare umanità mostrata nei confronti dei cittadini ellenici dalla BCE.
Ma l'hanno fatto per loro! Certo. Infatti ora va tutto bene:
Questi signori, tra le righe, sembrano rimpiangere quei tempi. Forse è perché allora erano giovani (anche mia nonna rimpiange gli esercizi ginnici domenicali)].

Il ruolo della Germania come pivot politico e finanziario europeo sta ora ulteriormente evolvendo. In seguito alla crisi dei migranti siriani, Berlino sta perdendo gli alleati politici tradizionali dell'Est Europa. Inoltre i paesi più colpiti dalla crisi economica hanno adottato leadership politiche che non aderiscono alle policy di austerità. La Commissione europea non è  in grado di fungere da sostituto per continuare ad accentrare il coordinamento, perché è vista dai paesi deboli come esecutrice di politiche asimmetriche favorevoli alla Germania e da  quest'ultima come complice nell'allentamento del rigore nei paesi in deficit. Man mano che  l’accentramento del coordinamento delle politiche attorno alla leadership tedesca ha perso influenza ed efficacia, Berlino ha iniziato a trasferire le responsabilità dell’aggiustamento in  capo ai singoli paesi, soggetti a una supervisione comune ma poco incisiva. Un modello che  definiremmo di coordinamento decentrato.
L’erosione della fiducia nel modello di accentramento del coordinamento attorno alla  leadership di Berlino è dovuta anche a motivazioni politiche nazionali. Nei paesi della periferia  è cresciuta l’insofferenza nei confronti di ricette di politica economica imposte dall'esterno e  poco efficaci. Tale sentimento ha preso espressione politica in movimenti di opinione anti-europei  e quindi contrari all'accentramento delle responsabilità. Ugualmente in Germania, l’ondata migratoria priva di argini, il minor rigore fiscale nell'euro-area e l'attenuazione dell'influenza gerarchica sui paesi e sulle istituzioni europee hanno fatto crescere il senso di “perdita di controllo” sulle sfide nazionali e dell’Unione. Questo sentimento si ripercuote sulla  vita politica interna che già vive nella prospettiva delle scadenze elettorali del 2017, diventate  per Germania e Francia – senza contare la Gran Bretagna - passaggi cruciali in grado di determinare le sorti del rapporto dei paesi di maggior dimensione e peso politico con l'Unione europea.

[Cioè. Houston, abbiamo un problema. I popoli strangolati dalla crisi si sarebbero un attimino frantumati le palle, e pare che nella maggior parte dei Paesi europei viga ancora, almeno formalmente, la democrazia. Per di più, in alcuni di questi Paesi neppure hanno Napolitano. D'altronde, della Commissione non si fida più nessuno, vista la democraticità della sua elezione e l'autorevolezza, soprattutto in campo etilico, del suo Presidente. Ah, aspetta... in mezzo a tutto questo casino ci sarebbero le elezioni tedesche e francesi, oltre che il referendum inglese. Qui bisogna che la Merkel intervenga, con tutto il suo carisma. Come? Ha fatto una figura da mentecatta nella gestione dei flussi migratori siriani? Perché, non erano tutti ingegneri e dottori passati da Gazebo? E allora...
...
...allora sono problemi per l'Italia. Cazzo c'entra? È scritto sotto].

I rischi per l’Italia
In questo contesto di minor accentramento delle regole e del coordinamento economico dell'euro-area, la scelta italiana è stata di rilanciare la domanda attraverso l'aumento del disavanzo pubblico invocando clausole di flessibilità equivalenti a un punto percentuale di prodotto interno lordo. Dopo i deludenti esiti delle politiche di austerità, l'obiettivo è stato di stimolare la crescita e di ridurre per tale via il rapporto tra debito e Pil. Nel farlo, si è scelto di utilizzare le risorse per recuperare un po' della fiducia distrutta da anni di recessione,  distribuendo denaro alle famiglie anziché abbattere il costo del lavoro o incentivare le attività  economiche. Questa scelta sta producendo finora modesti effetti sui consumi privati, mentre  gli investimenti non accennano a ripartire.
Si profila quindi uno scenario in cui il rapporto tra debito e Pil non scenderebbe in misura significativa; non è anzi escluso che tale rapporto possa riprendere a salire, in particolare se si verificassero - come è probabile, dati gli andamenti macroeconomici di inizio anno - un rallentamento dell'economia globale e un tasso di crescita della nostra economia inferiore a  quello previsto dalla legge di stabilità per il 2016.
L'andamento del debito italiano è uno degli elementi più critici per la stabilità dell'euro-area.  Il rapporto tra debito e Pil è, d'altronde, la chiave di volta nel nuovo sistema di governance economica europea. Fino all'anno scorso, essendo in recessione, l'Italia ha usufruito di un  periodo di transizione che ha reso meno cogenti gli impegni annuali di riduzione del debito.
Da quest'anno il periodo transitorio si è esaurito; e non si può escludere che la Commissione,  subendo le forti pressioni dei paesi più rigoristi, apra una procedura di infrazione contro  l'Italia per violazione del rispetto degli obiettivi di medio termine.

[Ecco cosa c'entra. Siccome la Germania ha allentato un po' la presa, noi - scolaretti cattivi (Severgnini dixit) - abbiamo scelto di "rilanciare la domanda attraverso l'aumento del disavanzo pubblico" invece di continuare imperterriti a "abbattere il costo del lavoro o incentivare le attività economiche". Che incentivare le attività economiche togliendo i soldi ai clienti di queste ultime sia una cazzata sesquipedale, agli illuminati scriventi neanche li sfiora.
Poi, arriva il primo avvertimento. Il debito pubblico italiano è alto e "il periodo transitorio è finito", per cui rischiamo una procedura di infrazione.
Urge breve spiegazione.
A marzo 2012 il mai troppo esecrato governo Monti firma il fiscal compact, trattatello internazionale tra tutti i Paesi dell'Unione Europea (esclusi Gran Bretagna, Croazia e Repubblica Ceca) che prevede alcuni obblighi non proprio secondari per le finanze pubbliche dei contraenti: pareggio di bilancio, deficit strutturale pari a mezzo punto di PIL, riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL a non più del 60%, a colpi di 1/20 dell'eccedenza per ogni esercizio. Siccome si tratta di norme che fanno strame delle più elementari disposizioni di welfare dei vari Stati membri, il Trattato si cura di richiedere la costituzionalizzazione degli accordi. Monti, sollecito, provvede immediatamente cambiando l'art. 81: quello che fa più schifo, è che le votazioni riportano nessun voto contrario. Una macchia per tutti i nostri politici. Un po' meglio è andato il voto sul fiscal compact in quanto tale: lo legge qui.
Bene. Cioè, male. Comunque: la riduzione del rapporto debito/PIL al 60% dall'attuale 132% in 20 anni deve iniziare dal 2016, che significa subito. Renzi ha scommesso in un aumento del denominatore grazie a politiche espansive, i sullodati professori lo hanno caldamente sconsigliato. In questo quadro, Monti, lo ha attaccato pesantemente al Senato, Boeri è già in rampa di lancio, il diavolo fa le pentole e probabilmente anche i coperchi. Assolutamente impossibile; dove si voglia andare a parere è scritto dopo.
Un ultimo appunto. Chi ha memoria un po' più lunga, ricorderà che il Fiscal Compact non è stato mai sottoposto alla votazione del Parlamento Europeo, né è stato implementato, mediante apposita direttiva, dalla Commissione (perché, in questo caso, l'approvazione del Parlamento sarebbe stata obbligatoria). Il Parlamento, comunque, ha votato una autonoma mozione contro il Trattato. Ah, il Parlamento Europeo è l'unico organo eletto dell'Unione...].

Gli effetti negativi del nuovo meccanismo di “coordinamento decentrato”
L'aumento del debito e del deficit attraverso generose politiche di spesa è la prima ragione di indisponibilità da parte degli altri paesi europei a realizzare forme di risk-sharing. La sfiducia  ella capacità italiana di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil scoraggia il ricorso a pratiche di accentramento della politica economica e di condivisione dei rischi. A ciò si aggiunga che Francia e Spagna, pur se con un debito pubblico più contenuto rispetto all'Italia, hanno disavanzi fuori linea rispetto alle regole europee. Fatto è che, interpretando i vincoli fiscali a modo proprio anche se con motivazioni economiche o politiche rispettabili, questi tre  paesi testimoniano la persistenza di sensibilità diverse nell'euro-area rispetto al problema della stabilità fiscale. A ciò corrisponde, da parte dei paesi più virtuosi, una scarsa disponibilità alla condivisione dei rischi che hanno origine o conseguenze fiscali; e la tendenza è rafforzata dal rallentamento del processo di riforme strutturali delle economie.

[Vabbè: che devo dire? Risiamo al trito cliché dei Paesi Mediterranei cicale - ah, il Cattolicesimo! - visti con sospetto dai "virtuosi" nordici. L'economia è amorale, diceva Croce. Da quando c'è l'Unione Europea, sembra un corso rapido di calvinismo dei poveri. Ormai 'sto discorso mi fa talmente schifo, che neanche cito Siemens, Volkswagen, Deutsche Bank, le riforme Hartz che hanno dato un enorme vantaggio competitivo alle aziende tedesche facendo esplodere il deficit tedesco, il mercantilismo tedesco, e così via. Ah, le ho citate. Talvolta ci vuol pure un po' di rettorica, ma di buon gusto...].

Non a caso proprio dalla Germania emerge un modello di coordinamento che, anziché  accentrare politiche e responsabilità, sembra intenzionato a privilegiare quello che abbiamo  definito un esercizio di “coordinamento decentrato” delle politiche economiche. L’esercizio ha  il suo elemento essenziale non nella condivisione dei rischi ma nella pressione per la loro riduzione specie nei paesi ad alto debito. In particolare ogni paese ad alto debito deve farsi  carico di ridurre il rischio di shock idiosincratici, rafforzando la separazione tra i rischi sovrani  e i rischi bancari. Questo obiettivo viene ricercato prima di tutto attraverso nuove regole che  attribuiscano un esplicito coefficiente di rischiosità ai titoli pubblici dei paesi dell'euro-area, costringendo le banche a non considerarli più come titoli privi di rischio. Sono inoltre già materia di discussione nuove regole che stabiliscano limiti precisi alla quantità di titoli  sovrani di un singolo paese nel bilancio di ogni banca.
La Bundesbank in particolare richiede che non si proceda ai previsti istituti di condivisione  dei rischi bancari prima che sia completato il processo di allentamento del legame tra rischio  sovrano e rischio bancario. L'assicurazione comune dei depositi bancari europei verrebbe così rinviata nel tempo perché, nella visione tedesca, condividere i rischi di banche cariche di titoli di stato significherebbe condividere i rischi del debito degli stati. Per la stessa logica ma applicata ai debitori privati, viene poi chiesto che la comune assicurazione sui depositi venga varata solo dopo che siano state armonizzate le norme che regolano il diritto fallimentare. In assenza di regole comuni, un paese potrebbe lasciar fallire le proprie banche e le proprie imprese, così da scaricare parte degli oneri sull'assicurazione dei depositi finanziata da contribuenti stranieri.

[Anche qui, urge qualche considerazione.
Primo: che per spiegare un ricatto non servono tutte queste parole. In pratica, si dice che - laddove i Paesi del Sud Europa vogliano una garanzia europea dei depositi bancari, resasi ormai assolutamente necessaria dopo l'introduzione delle norme sul bail-in - devono accettare che i loro Titoli di Stato siano detenuti dalle banche non oltre una certa quota, e comunque non più come asset privi di rischio, ma ponderati per determinati coefficienti come tutti gli RWA. Con conseguenze sistemiche inimmaginabili (immissione sul mercato di un'enorme quantità di Titoli detenuti dalle banche, rialzo degli spread, tensione finanziaria, probabile arrivo armi e bagagli della Troika. Non a caso:
Eh, ma tanto lo dico, ma mica lo fanno! Come no! Per esempio, a proposito di legge fallimentare...
Secondo: per i tedeschi, in questo modo condividere il rischio dei depositi bancari non significherebbe più condividere il rischio degli Stati sovrani di cui quelle banche hanno acquistato debito. Siamo al ridicolo. Ci è stato spiegato in tutte le salse - anche da insospettabili - che l'esplosione dei debiti pubblici si è verificata come conseguenza dell'insostenibilità del debito privato, alimentato da tassi artificialmente bassi e conseguenti prestiti delle banche del Nord ai consumatori del Sud ben oltre i limiti del moral hazard. Sulla velina rosa è apparso anche il famoso disegnino:





Sentirsi dire - da chi ha scatenato una delle più violente tempeste finanziarie di sempre solo per recuperare quattro soldi prestati a bischero in Grecia - che una garanzia europea sui depositi non si può fare perché si rischierebbe di mutualizzare il debito sovrano, è francamente una grandissima presa per il culo.
Terzo: ai cultori del "ci vuole più Europa" vorrei ricordare da cosa nasca tutta questa preoccupazione nei confronti della rischiosità del debito sovrano: "i Titoli di Stato sono risk-free nei Paesi con sovranità monetaria; ma siccome i Paesi dell'Eurozona hanno una moneta comune e devono rispettare specifiche regole previste dai Trattati, non possono né ridurre il proprio debito per via inflattiva, né monetarizzarlo" (v. qui). ].

Una volta spinti i titoli del debito pubblico di un paese fuori dai bilanci bancari di quello stesso paese, al sopravvenire di una crisi sarebbe possibile procedere alla ristrutturazione del suo debito senza devastare il suo sistema bancario e senza troppo condizionare – in linea teorica – la sua attività economica privata. A completamento di tale decentramento del rischio sovrano, meccanismi automatici di ristrutturazione del debito, attraverso l'allungamento delle scadenze dei titoli pubblici, verrebbero disposti e fatti valere ogni qual volta un paese perdesse accesso al mercato per finanziare il proprio debito pubblico e fosse quindi costretto a rivolgersi al ‘Meccanismo europeo di stabilità’ per ottenere assistenza finanziaria.
Per paesi ad alto debito e con rilevanti poste di crediti bancari problematici, lo scenario è preoccupante. Quanto sta avvenendo, da alcuni giorni, sui mercati azionari italiani è  emblematico: la caduta nelle quotazioni dei gruppi bancari più fragili mostra che, se il funzionamento del ‘Single Resolution Fund’ rimanesse prevalentemente nazionale per molti anni, le nuove regole europee incentrate sul cosiddetto bail in potrebbero accentuare, anziché attenuare, il legame tra rischio bancario e rischio sovrano. Tale legame sarebbe poi rafforzato, con impatti ingovernabili, dall'inserimento di regole di ristrutturazione automatica del debito pubblico di un paese in difficoltà finanziaria. La possibilità di cadere in forme non gestite di default rischierebbe di auto-realizzarsi, proprio come è successo nei momenti più drammatici della crisi degli ultimi anni.

[Dunque, mi par di capire che il default di uno Stato e la rovina di tanti piccoli risparmiatori che ne hanno acquistato il debito pubblico (i miei nonni, quelli di te che leggi, qualche pensionato che ha messo da parte qualche soldo nella sua vita... e altri noti speculatori di questa risma) non è un problema. O meglio: non è un problema se questo default non coinvolge il sistema bancario, in particolar modo il sistema bancario estero. Il quale, via MES, avrà poi modo di fare i suoi affari sulle macerie dello sventurato Stato caduto nelle sue grinfie (Italia, ovviamente, in pole position). Sono d'accordo: per rompere il famoso diaframma che ci tiene lontani dalla naturale durezza del vivere, niente di meglio che un bel fallimento collettivo].

Scommesse ad alto rischio e ripresa del Pil italiano
In questo contesto, sarebbe cruciale procedere all'immediata unificazione del ‘Single Resolution Fund’ europeo o – in subordine – all'immediata creazione della garanzia europea sui depositi. Sebbene il processo di ristrutturazione e di concentrazione del sistema bancario italiano sembri avviato, ciò non basta: l'ammontare di crediti a rischio nei bilanci bancari impone pronti provvedimenti di stabilizzazione. A questo proposito, nonostante la stringenza delle nuove regole europee, rimangono spazi per forme di cartolarizzazione che non compromettano gli equilibri dei bilanci bancari italiani. Va inoltre ricordato che tali bilanci sono sovraccarichi di titoli del debito sovrano destinati a perdere valore, qualora l'inflazione tornasse su livelli normali e i tassi nominali di interesse aumentassero di conseguenza.
Sarebbe quindi auspicabile che le nostre banche utilizzassero l’attuale ampia disponibilità di liquidità, fornita dalla Bce, per accelerare la riduzione della loro esposizione e per diversificare i titoli nel loro attivo.
Un più rapido completamento del ‘Single Resolution Fund’ e del costituendo Fondo di garanzia dei depositi richiede comunque la ricostruzione di solidi rapporti di fiducia. In proposito, i principali attori europei vogliono comprendere se la ripresa economica italiana sarà tale da migliorare il rapporto debito pubblico-Pil. Le riforme economiche impostate dall'Italia negli ultimi anni appaiono ancora troppo timide per garantire la necessaria crescita dell'economia e per fare sì che l'aumento del disavanzo produca veri effetti di stimolo. Il governo italiano in particolare si è fermato nella revisione della spesa pubblica inefficiente e delle agevolazioni fiscali. Si attende ancora una precisa indicazione sulla riforma della giustizia. La legge annuale sulla concorrenza appare depotenziata e arenata.
Se il processo di concentrazione bancario appare a portata di mano ma insufficiente per assicurare la stabilità del settore, gli adeguamenti strutturali del sistema industriale in vista di uno sviluppo dimensionale delle imprese procedono lentamente e a macchia di leopardo. L'impiego di sussidi e sostegni occupazionali frena, anziché agevolare, le ristrutturazioni nel sistema produttivo, mentre resta ancora da realizzare un piano di riforme inteso a rilanciare la produttività con interventi di carattere microeconomico.
Di fronte al rischio di una deludente risposta degli investimenti e della crescita alle riforme varate, è necessario tenere sotto controllo l'andamento del debito pubblico. Su questo fronte, manca un forte segnale di ripresa dell'azione riformatrice nel risanamento dei conti pubblici, per esempio spostando le clausole di salvaguardia dall'aumento delle imposte a tagli di spesa automatici. Sottovalutare il rischio di uno slittamento negli equilibri di bilancio pubblico potrebbe essere molto rischioso; ed è opportuno che iniziative cautelative, per esempio privatizzazioni tese a ridurre l'aumento nominale del debito, vengano attuate. I progetti di interventi di natura straordinaria che riducano il profilo del bilancio pubblico devono essere ripresi in considerazione.

["Stringenza"? "Stringenza"? Eh, ma loro son professori di economia, mica di letteratura italiana! Ho capito, ma le medie le avranno fatte, o no? Vabbè, non è importante.
Quello che invece è importante è il contenuto, che ripropone il solito mantra che tanti danni ha fatto e sta facendo: va bene fare deficit, ma soltanto per inondare di incentivi le imprese ("resta ancora da realizzare un piano di riforme inteso a rilanciare la produttività con interventi di carattere microeconomico"), mentre la spesa pubblica deve essere, sempre e comunque, tagliata, in quanto per definizione inefficiente, quando non improduttiva ("il governo italiano... si è fermato nella revisione della spesa pubblica inefficiente e delle agevolazioni fiscali"). Peraltro, che il governo non abbia fatto niente, non è vero: il Jobs Act, che per un verso precarizza il lavoro riducendo ipso facto il livello retributivo e per l'altro, tramite norme agevolative temporanee, quasi azzera il cuneo fiscale per le imprese che assumo, è l'esatta traduzione in legge di questi simpatici auspici.
Risultati? Ottimi.

D'altronde, che si vuole pretendere da una politica che incentiva le imprese a produrre affamando coloro che dovrebbero comprare?
Ah già...
Secondo avvertimento: "sottovalutare il rischio di uno slittamento negli equilibri di bilancio pubblico potrebbe essere molto rischioso; ed è opportuno che iniziative cautelative, per esempio privatizzazioni tese a ridurre l'aumento nominale del debito, vengano attuate. I progetti di interventi di natura straordinaria... devono essere ripresi in considerazione".
Sulle privatizzazioni, stendo un pietoso velo. A cosa servono, è noto.



Due paroline, invece, sugli "interventi di natura straordinaria", cioè un modo fine - "figo", direbbe Jovanotti - di intendere un'imposta patrimoniale o una tassa sulle successioni particolarmente progressiva.
La patrimoniale, sulla carta, piace tanto agli italiani, perché gioca su un sentimento diffuso di invidia sociale. Piace molto meno, quando capiscono che, alla fine, i "ricchi" sono proprio loro e non certo coloro che quella tassa l'hanno voluta. Che sono tanti, di diversa estrazione: dal compagno Ferrero (grande difensore dell'Euro), all'economista caviar Piketty (che l'Euro lo vorrebbe anche in America Latina), fino al FMI e alla Bundesbank (che nell'Euro ci sguazzano a colpi di deflazione). Ma, soprattutto, alla nostra economista di riferimento qui accanto.
Il perché di tutto questo lo spiega bene Il Pedante: "la tassa di Robin Hood nasce dall'invidia e produce conflitto sociale. Va ricordato ai compagni (?) che la la lotta di classe si fa tra lavoratori e capitalisti, non tra lavoratori poveri e lavoratori benestanti. Il parametro della ricchezza non distingue il risparmio dei cittadini dal capitale finanziario, anzi colpisce inevitabilmente il primo in quanto la liquidità degli speculatori è volatile, poco tracciabile e transnazionale quando non estera tout court, quindi non assoggettabile alle leggi nazionali" (non a caso, un suo grande fautore ha pensato bene di prendere la residenza in Svizzera).
Se la "patrimoniale del vivo" è infattibile, ecco allora che spunta la "patrimoniale del morto", cioè la tassa sulle successioni, grande cavallo di battaglia di tutti i Piketty e Atkinson del mondo. Che a me piace molto poco, ma Matteo invece medita. D'altronde, ormai è esperienza concreta degli ultimi anni: quando le banche tedesche sono in crisi, i portafogli italiani immediatamente si alleggeriscono. E ora...
Temo che il cammino sia segnato].

Impegni nazionali e negoziato europeo
L’euro area ha bisogno di maggiore coesione tra i paesi membri oppure la sua tenuta, non solo economica, rimarrà a rischio. Non ci saranno però né coesione né gestione condivisa dei rischi senza che ogni paese contribuisca, al tempo stesso, a ridurre le proprie ragioni di instabilità. Per l’Italia è di estrema importanza realizzare passi avanti nella mutualizzazione dei rischi. In particolare, in materia di unione bancaria, dobbiamo spingere per una più rapida messa a regime del ‘Single Resolution Fund’ e per far rispettare l’impegno già preso dai governi europei a favore di un’assicurazione comune dei depositi. Bisogna inoltre fare passi avanti nella definizione di una politica di bilancio coordinata, in cui la restrizione fiscale necessaria in alcuni paesi sia compensata da politiche espansive in altri. Alle istituzioni europee deve essere riconosciuto il compito di realizzare politiche di sviluppo di interesse comune e interventi anticiclici per l’euro-area, anche usando in modo più efficace gli strumenti esistenti.
Al riguardo, è necessario rafforzare le iniziative europee per lo sviluppo degli investimenti, definendo aree di intervento - a cominciare da quelle per la sicurezza comune e per l’efficienza delle frontiere esterne - che devono essere finanziate in modo congiunto. Gli investimenti in infrastrutture e nei servizi di rete devono essere accompagnati da un processo di maggiore apertura dei mercati nazionali alla concorrenza, nello spirito del mercato unico. Si tratta di misure indispensabili a realizzare un’area economica meno fragile e più coesa.
Sarà però impossibile costruire il consenso per la condivisione dei rischi economici e finanziari se, parallelamente, ogni paese non si sforzerà di ridurre le proprie specifiche fonti di instabilità. Il completamento dell’unione bancaria, mediante una più rapida messa a regime del ‘Single Resolution Fund’ e la creazione dell’assicurazione europea sui depositi, richiederà progressi significativi nell’allentare il legame tra rischio sovrano e rischi bancari. Per l’Italia si tratta di scelte difficili, ma in grado di portare benefici nel medio termine. Nella percezione di molti tra i paesi membri dell’unione monetaria, d’altronde, uno dei rischi più sentiti è rappresentato dall’elevato debito pubblico che stenta a ridursi. La politica di bilancio italiana non potrà dunque trascurare l’obiettivo della riduzione del debito. L’applicazione sistematica di clausole di flessibilità senza attento riguardo all’andamento del rapporto tra debito e Pil sarebbe infatti di ostacolo al rafforzamento del processo di condivisione dei rischi.
In conclusione: l’Italia ha la necessità di lavorare perché si torni a forme di coordinamento accentrate, anche se diverse da quelle già fallite. La nostra economia ha, infatti, l’esigenza di far avanzare le istituzioni comuni e il processo di mutualizzazione in modo da tenere sotto controllo l’insorgere di rischi sistemici, a cui – come l’esperienza recente dimostra - essa è più esposta di altre economie. Come si è già detto, l’attuale elevato grado di sfiducia tra i paesi spinge verso il decentramento dei rischi e delle responsabilità e verso l’abbandono del coordinamento da parte delle istituzioni europee. L’Italia trarrebbe beneficio da un’azione negoziale su almeno due fronti: responsabilità nazionale, da un lato, e maggiore coesione europea, dall'altro. La coerenza su entrambi questi lati consentirà al paese di svolgere un ruolo centrale nel negoziato europeo, avvicinando a sé stati membri diversi ma uniti dalla stessa esigenza: rafforzare l’Europa attraverso la coesione e la riduzione dei rischi.

[Il gran finale è servito. "L'Italia ha la necessità di lavorare perché si torni a forme di coordinamento accentrate, anche se diverse da quelle già fallite", che tradotto significa ulteriore cessione di sovranità, controllo più stretto dei vincoli di bilancio, in ultimo Ministro europeo delle finanze, il tutto in cambio di... una garanzia dei depositi europea (che avrebbe dovuto essere già negoziata) e qualche investimento in infrastrutture.
Il tutto a quale scopo? Rafforzare l'Unione Europea! Siamo o non siamo il Paese di Ventotene? Siamo o non siamo il Paese della Boldrini?
Insomma, il solito scambio in perdita. Che, pertanto, accetteremo].

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