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sabato 27 febbraio 2016

Le banche gongolano (tutti gli altri piangono)

Un paio di giorni fa ha fatto molto scalpore, giustamente, lo scoop del Fatto Quotidiano riguardo alla prevista deroga a favore delle banche, mediante apposito Decreto legislativo di recepimento dell'ennesima direttiva europea (nel caso di specie: la dir. 2014/17/UE), al divieto del c.d. "patto commissorio" (art. 2744, c.c.).
In sostanza, una volta che il Decreto sarà entrato in vigore, l'Istituto creditore ipotecario o pignoratizio potrà impossessarsi - senza alcuna procedura esecutiva - del bene ipotecato o pignorato (cioè, traducendo, di casa vostra). Ecco il testo del nuovo art. 120-quinquiesdecies del Testo Unico Bancario (o TUB: cioè il D. Lgs. n. 385 del 1993): "Le parti del contratto [notoriamente sullo stesso piano: N.d.R.] possono convenire espressamente, al momento della conclusione del contratto di credito [cioè del mutuo: N.d.R.] o successivamente [cioè da ora in poi, anche sui mutui che avete già acceso da chissà quando: N.d.R.], che in caso di inadempimento del consumatore [cioè vostro: N.d.R.] la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale [casa vostra: N.d.R.] o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta[no] l'estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all'eccedenza. Il valore del bene immobile oggetto della garanzia è stimato da un perito scelto dalle parti di comune accordo con una perizia successiva all'inadempimento...".
Per inadempimento, come giustamente nota Il Fatto, si intende il ritardato pagamento di sette rate anche non consecutive (per l'esattezza, per l'art. 40, c. 2, TUB "la banca può invocare come causa di risoluzione del contratto il ritardato pagamento quando lo stesso si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive", intendendosi per "ritardato pagamento quello effettuato tra il trentesimo e il centoottantesimo giorno dalla scadenza della rata").
Ciò premesso, vorrei prendere spunto dalla faccenda per fare alcune considerazioni (oltre ovviamente quella che si tratta di una norma indegna di un Paese civile, tanto da derogare - non a caso - a un principio giuridico che vanta circa 1.700 anni di vita. Ma tanto, ormai, il diritto romano è stato spazzato via dall'aggressività anglosassone).

Come detto, si tratta di una norma odiosa, ma che si incardina in tutto un processo legislativo volto ad aggredire, con la maggior facilità possibile, il patrimonio del debitore. Il tutto, come sempre, per ridurre l'annoso problema delle sofferenze bancarie (NPL, per quelli fichi).

Con un corollario non da poco: e cioè che per favorire le banche si sfavoriscono sia i debitori, in questo caso persone fisiche che hanno magari fatto il mutuo per acquistare un'abitazione, e che dunque dovrebbero essere soggetti deboli particolarmente meritevoli di maggior tutela, sia anche gli altri creditori, che non sono istituti finanziari (i quali sono spesso, a loro volta, piccolo imprenditori in gravi difficoltà).

Un po' di esempi, per ricostruire il quadro.
In principio fu l'art. 4, D. Lgs. n. 170 del 2004 (Decreto ovviamente redatto per venire incontro ad alcune direttive europee, ça va sans dire), relativo ai "contratti di garanzia finanziaria" tra banche o tra banche e imprese (o altri enti giuridici).
Già le "definizioni" contenute nel primo articolo del decreto distruggevano più di un millennio di cultura giuridica: tra i contratti di garanzia finanziaria si annoverano infatti "il contratto di pegno o il contratto di cessione del credito o di trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia, ivi compreso il contratto di pronti contro termine, e qualsiasi altro contratto di garanzia reale avente ad oggetto attività finanziarie e volto a garantire l'adempimento di obbligazioni finanziarie". In sostanza - visto che tra le "attività finanziarie" è compreso anche il denaro - si confondono in un colpo solo il deposito irregolare, il mutuo e il pegno.
Ma non basta, perché il sullodato art. 4 dispone che, "al verificarsi di un evento determinante l'escussione della garanzia, il creditore pignoratizio ha facoltà, anche in caso di apertura di una procedura di risanamento o di liquidazione, di procedere... alla vendita delle attività finanziarie oggetto del pegno, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del proprio credito, fino a concorrenza del valore dell'obbligazione finanziaria garantita", ovvero "all'appropriazione delle attività finanziarie oggetto del pegno, diverse dal contante, fino a concorrenza del valore dell'obbligazione finanziaria garantita", ovvero ancora "all'utilizzo del contante oggetto della garanzia per estinguere l'obbligazione finanziaria garantita".
Anche in questo caso, con tanti saluti al divieto di patto commissorio.
Come si vede, lo schema è lo stesso della "nuova" disposizioni scoperta dal Fatto Quotidiano; secondo il buon vecchio metodo Juncker, una decina di anni è stata provata sulle imprese (relativamente ai pegni mobiliari), oggi viene estesa ai comuni cittadini (in merito a ipoteche sulle loro abitazioni).
Si tratta, come si vede, di un processo in divenire.
Che, però, ha una forte accelerazione sotto l'ultimo governo. Ma non è colpa di Matteo, poverino... è piuttosto un "fattore ambientale", come mi ha molto giustamente spiegato Patrizia Grilli (che da ultimo potete trovare qui), più precisamente il famoso
In altri termini, questo:
Chi fosse interessato alle illuminanti parole di Serra anche su corruzione, debito pubblico, privatizzazioni e così via vaneggiando, può leggere qui.
Per tutti gli altri, veniamo dunque al presente renziano, e precisamente al D.L. n. 83 del 2015, il quale agisce - appunto - su due binari: quello delle esecuzioni e quelle delle procedure fallimentari.
Dal primo punto di vista, si velocizzano le procedure per i pignoramenti immobiliari, il valore degli immobili è sganciato dalla rendita catastale per ragguagliarsi al valore di mercato. gli acquirenti possono entrare in possesso del bene pur versando il prezzo a rate (purché presentino apposita fideiussione). C'è anche solito regalino riguardante la deducibilità delle perdite delle banche: nella fattispecie, le svalutazioni su crediti e le perdite su crediti di Enti creditizi e finanziari divengono deducibili, ai fini Ires e ai fini Irap, tutte nell'anno di rilevazione contabile e non in cinque esercizi, come in precedenza.
Soprattutto, è introdotto l'art. 2929-bis c.c., ai sensi del quale il creditore, ove si ritenga pregiudicato da una donazione o da un fondo patrimoniale o da un trust o da qualsiasi altro vincolo di destinazione, può iniziare l'esecuzione forzata indipendentemente dall'ottenimento di una sentenza dichiarativa d'inefficacia del trasferimento (cioè di una revocatoria). Ai terzi, è concessa solo l'opposizione all'esecuzione, con motivi circoscritti all'effettiva esistenza del supposto pregiudizio e la conoscenza, in capo al debitore, del pregiudizio medesimo. 

In questo modo, però, si verifica una significativa lesione del diritto di difesa non solo del suddetto debitore, ma anche del terzo che abbia eventualmente ricevuto i beni (per intendersi: normalmente i figli, o i nipoti del debitore). Anche qui, con buona pace dello Stato di diritto.

La norma, non a caso, è stata interpretata così...
Anche le modifiche alle disposizioni fallimentari (fortissimamente richieste dall'Europa: ce lo hanno spiegato i professori della Luiss qui) vanno ancora nel senso di "aiutare" i creditori finanziari (sia pure, in questo caso, nel rispetto dei diritti degli altri). L'accordo di ristrutturazione dei debiti può infatti essere concluso con il parere positivo del 75% dei creditori finanziari, se questi rappresentano almeno la metà dell’indebitamento, fermo l’integrale pagamento dei creditori non finanziari.

Sempre a proposito di esecuzioni (queste procedure di altri tempi, che chissà perché vorrebbero a certe condizioni proteggere le ragioni anche dei debitori, questi esseri abietti che hanno avuto l'ardire di non rimborsare un prestito), va ricordato anche l'art. 1, L. n. 44 del 2015, che ha modificato l'art. 11-quaterdecies del D.L. n. 203 del 2005, avente ad oggetto il prestito vitalizio ipotecario (ringrazio Marco Maria Ricci per lo spunto). Già l'istituto in sé comporta quel non so che di estorsivo nei confronti degli anziani (banche e finanziarie possono concedere finanziamenti a medio e lungo termine, con capitalizzazione annuale di interessi e di spese, ivi compreso l'anatocismo, riservati a persone fisiche con età superiore a sessanta anni compiuti, il cui rimborso integrale in un'unica soluzione può essere richiesto al momento della morte del soggetto finanziato ovvero qualora vengano trasferiti, in tutto o in parte, la proprietà o altri diritti reali o di godimento sull'immobile in garanzia)
Ma la cosa migliore deve ancora venire: "i finanziamenti... sono garantiti da ipoteca di primo grado su immobili residenziali... Qualora il finanziamento non sia integralmente rimborsato entro dodici mesi..., il finanziatore vende l'immobile ad un valore pari a quello di mercato, determinato da un perito indipendente incaricato dal finanziatore, utilizzando le somme ricavate dalla vendita per estinguere il credito vantato...".
Sembra la norma che la Boschina ha presentato alla Camera, vero? Praticamente è la stessa, provata prima sui vecchi, poi estesa ai giovani (un po' come le medicine, quando non si sa ancora se fanno bene o male. Qui però si sa).

Infine, ecco arrivare il D.L. n. 18 del 2016 il quale - oltre che devastare il mondo delle BCC e normare il topolino della GACS (partorito dalla montagna della bad bank) - prevede il pagamento dell'imposta di registro e delle imposte ipocatastali in misura fissa (cioè 300 Euro, invece dell'11% del valore, come accade nel caso di "normale" cessione), purché "l'acquirente dichiari che intende trasferirli entro due anni".
Lo capite? (Di tutta la faccenda ne abbiamo parlato qui e qui).
Comunque, traduzione in italiano: le banche che acquistano gli immobili oggetto di esecuzioni da loro stesse iniziate possono non pagare imposte, se poi valorizzano il bene e lo cedono di nuovo (si immagina, anche con relativa plusvalenza) entro due anni.

Al solito, gli altri si attacchino. Ce lo chiede o non ce lo chiede l'Europa?

E siamo di nuovo al punto di partenza.
Resta un ultimo, amaro commento.

L'impressione è quella di essere in un enorme gioco della (non) OCA, in cui i cittadini italiani perdono sempre: la rigidità di cambio portata dall'Euro impone recuperi di competitività mediante svalutazione del lavoro e depressione della domanda interna, pena esplosione della bilancia dei pagamenti dei Paesi della periferia; la riduzione della domanda interna comporta evidenti sofferenze alle imprese, soprattutto a quelle che non possono esportare i propri prodotti; le imprese, in crisi, e le famiglie, in crisi, non restituiscono i finanziamenti alle banche, che dunque riducono l'offerta di credito, aggravando tali crisi; le sofferenze, in questo modo, aumentano in modo esponenziale; per ridurre queste sofferenze, si introducono norme che, seppure accelerano - in un primo momento - il recupero dei crediti (con effetti sugli utili che gli analisti stimano attorno al 4%, fino al 10% per Mps o altre aziende bancarie con seri problemi di NPL), nel medio periodo impongono nuovi sacrifici a famiglie e imprese, con scontato ritorno al punto di partenza.

Juncker (ora) ci abbraccia e sorride. Noi, ovviamente, ricambiamo...

martedì 23 febbraio 2016

Il Position Paper dell'Italia: "Ci arrendiamo!"

Di seguito propongo una traduzione, un po' pedestre, del Position Paper elaborato dal governo "sul futuro dell'Unione Europea". Siccome non tutti sono particolarmente anglofoni e siccome le enormità che vi sono contenute, riportate dalla stampa, sono davvero incredibili, mi sembra giusto che ognuno legga coi propri occhi.
A breve, in calce, anche un mio breve commento. Quando mi sarà ripreso da questo senso di resa senza condizioni.

Proposta strategica dell’Italia per il futuro dell’Unione Europea: crescita, lavoro e stabilità.

Il progetto europeo sta soffrendo una crisi senza precedenti: la reazione della politica alla recessione economica e ad un'ampia disoccupazione è spesso percepita come insufficiente dai cittadini europei,
che spesso hanno difficoltà a cogliere il valore aggiunto di far parte dell'Unione. Gli interessi nazionali prevalgono sul bene comune. Crescenti segnali di disaffezione, alimentati dalla
eccezionale durata e intensità della crisi, stanno incrementando in modo significativo il consenso nei confronti di proposte populiste; l'euro-scetticismo è in aumento in quasi tutti gli Stati membri.
Se l'Europa vuole essere parte della soluzione - e non del problema - dobbiamo ricostruire la fiducia
tra i nostri cittadini e gli Stati membri, e sviluppare una strategia (a livello UE) per ripristinare
crescita sostenuta e spingere l'occupazione. Abbiamo fatto molta strada verso una maggiore integrazione, ma ora l'Europa è a un bivio: se dovessimo continuare a galleggiare in qualche modo nel mezzo ad una ripresa incerta, non riuscirebbero ad emergere né un progresso nella crescita, né la creazione di nuovi posti di lavoro e l'Eurozona rimarrebbe esposta agli shock, così da vederne minata la sua stessa sostenibilità.
In questo contesto, riteniamo che l'Unione europea è una grande opportunità. Dobbiamo cogliere e
fornire ai nostri cittadini le soluzioni che si aspettano. Il governo italiano presenta pertanto un'agenda politica di vasta portata, con proposte concrete al fine di contribuire al dibattito su come tale opportunità possa diventare un progetto concreto.

1. Una fragile ripresa: sfide e opportunità
La ripresa che si sta sviluppando nel corso degli ultimi trimestri in Europa è ancora troppo modesta e fragile. L'indebolimento della domanda esterna e incertezze sulla prospettiva dell'economia mondiale mostrano un aumento dei rischi al ribasso. Un periodo prolungato di inflazione eccezionalmente bassa unita a una crescita lenta influenzano negativamente il potenziale di crescita e indeboliscono le aspettative sulle prospettive economiche future. Indicatori essenziali quali l'occupazione, la produzione industriale e gli investimenti sono ancora molto al di sotto dei livelli pre-crisi in diversi Stati membri. Gli squilibri si sono ulteriormente ampliati, con conseguenze negative sulla sostenibilità complessiva e la resilienza dell'Eurozona.
I segni di disaffezione nel progetto europeo, che aumentano il consenso nei confronti di proposte populiste, sono molto più diffusi di quanto ci si potesse aspettare anche al culmine della crisi. Questi sono stati alimentati dalla durata eccezionale di crisi, nonché dalla difficoltà di percepire il valore aggiunto di far parte dell'Unione europea. Al contrario, soprattutto in alcuni paesi, la risposta alla crisi è stata percepita come volta a esacerbare di divergenze e la segmentazione tra centro e periferia, nonostante gli sforzi politici messi in atto. Nel complesso, il mix di politiche dell'Eurozona per contrastare la crisi e sostenere una ripresa sostenuta ha dimostrato di essere inadeguato.
Una maggiore convergenza, un'accelerazione delle riforme strutturali e una più forte domanda interna sono necessarie per evitare che perdite significative e persistenti di produzione influenzino in modo permanente la crescita potenziale. Sono necessarie politiche risolute e coordinate, che vadano al di là dell'attuale mix di misure ed al contributo, comunque positivo, della BCE. Sfide urgenti - ripristinare una crescita sostenuta e ancorare le aspettative - devono essere affrontate. Se, invece, l'Europa dovesse continuare a vivacchiare nel mezzo di una ripresa esitante, non riuscirebbero a materializzarsi i necessari progressi nella crescita e la conseguente creazione di posti di lavoro, e l'Eurozona rimarrebbe vulnerabile a shock.
Inoltre, l'Europa si trova ad affrontare nuove formidabili sfide sistemiche, rappresentate dall'afflusso di migranti e richiedenti asilo. Queste sfide richiedono una politica di risposta coordinata, per fornire un sollievo immediato e progettare iniziative comuni per facilitare l'integrazione. Qualsiasi inasprimento dei controlli alle frontiere interne sarebbe dannoso per la libera circolazione del lavoro e delle merci con conseguenze negative di impatto imprevedibile.
Decisioni politiche rilevanti possono essere prese ora, seguendo un approccio integrato in cui l'attuazione di iniziative a breve termine è parte di una più ambiziosa strategia a lungo termine.

2. Un mix di politica globale
Un approccio globale per una più sostenibile e resistente Unione economica e monetaria dovrebbe mirare a rafforzare il potenziale di crescita, migliorando la regolazione la capacità di aggiustamento e la flessibilità dei mercati in tutti gli Stati membri, anche attraverso una migliore condivisione dei rischi. Questo obiettivo politico può essere pienamente raggiunto con un mix di misure politiche a breve e lungo termine. Devono essere prese iniziative su più fronti: riforme strutturali, investimenti, occupazione, settore bancario e mercato interno. Azioni su questi diversi fronti sono infatti complementari e sinergiche.

2.1 Governance per aumentare la capacità di crescita
Il sistema di governance europeo deve fornire i giusti incentivi per una politica fiscale orientata alla crescita e per un continuo sforzo riformatore. Tuttavia, ulteriori passi sono necessari, con urgenza, nei confronti di prolungati livelli storicamente bassi di investimento e di occupazione. I tre principali pilastri delineati dalle recenti "Indagini sulla crescita annuale" - rilanciare gli investimenti, perseguire riforme strutturali e promuovere la responsabilità fiscale - dovrebbe essere visti come pilastri che si rafforzano a vicenda.
La comunicazione della Commissione sulla "Flessibilità nel Patto di stabilità e crescita" ha segnato un passo in avanti nel miglioramento del mix di politiche. Essa crea gli incentivi adeguati per riforme e investimenti, rafforza il coordinamento tra politiche strutturali e politiche fiscali, innescando un circolo virtuoso: interventi strutturali e investimenti aumentano a medio termine sostenendo in tal modo la crescita di consolidamento della finanza pubblica.

2.2 La politica fiscale
In presenza di protratti tassi di crescita modesta e di bassa inflazione per un periodo eccezionalmente lungo, anche la misure straordinarie messe in atto dalla Banca Centrale Europea si stanno dimostrando insufficienti. Lo spazio fiscale dovrebbe essere pienamente utilizzato per sostenere la crescita. Allo stesso tempo, il ripristino di un ritmo sostenibile di crescita e di creazione di posti di lavoro è anche il modo più efficace per mantenere il debito su un percorso sostenibile.
Inoltre, è necessaria maggior simmetria negli adeguamenti macroeconomici. Eccedenze nelle partite correnti molto elevate hanno un impatto negativo sul funzionamento complessivo dell'Eurozona esattamente come i disavanzi. Nella misura in cui esse riflettono eccedenze di risparmio, dovrebbero essere rivolte allo stimolo degli investimenti, sia pubblici che privati. Un approccio più cooperativo per sostenere la domanda porterebbe a un equilibrio vantaggioso per tutti, permettendo così di complementare le riforme strutturali. La "procedura per gli squilibri macroeconomici" dovrebbe essere attuata in modo più efficace a questo fine.
Il nuovo Consiglio Fiscale Europeo dovrebbe avere una visione pan-europea nelle sue analisi e formulare raccomandazioni politiche fiscali per l'Eurozona nel suo complesso. Questa è la chiave per
sviluppare orientamenti di politica aggregata e una strategia di crescita a livello UE che va oltre la
semplice somma dei risultati nazionali.
Le regole di bilancio dovrebbero dimostrare la loro adeguatezza per far fronte a condizioni economiche molto difficili. Un sistema progettato per condizioni di crescita e di inflazione normali ha
dimostrato di essere incapace ad affrontare in modo efficace l'impatto di una crescita molto bassa sui potenziali di crescita e sulla dinamica del debito. Queste carenze hanno implicazioni per la misurazione di indicatori di bilancio su cui le Raccomandazioni si basano e devono essere affrontate.
L'evoluzione dei prezzi dovrebbe essere più efficacemente integrata nelle regole fiscali.

2.3 Mantenere il ritmo delle riforme
Un maggior coordinamento e una più comparazione dei risultati stimoleranno le riforme in tutti i paesi, favoriranno il sostegno politico interno alle riforme e ne miglioreranno l'attuazione. La politica monetaria accomodante crea una finestra di opportunità per aumentare lo sforzo riformatore e aumentare la crescita potenziale. Uno sforzo più coordinato tra i paesi e nuovi strumenti politici generano ricadute positive che testimoniano il valore aggiunto di essere parte di un'area economicamente integrata. Inoltre, la convergenza e una regolazione strutturale coordinata porterebbe maggiore simmetria negli aggiustamenti macroeconomici.
Tutti i paesi hanno bisogno di aumentare lo sforzo riformatore. Riforme strutturali potrebbero sostenere il riequilibrio sia nei paesi in surplus sia in quelli in deficit, poiché aprirebbero opportunità di profitto che stimolerebbero gli investimenti. Ciò consentirebbe anche di facilitare l'attuazione di una più equilibrata politica di bilancio per l'Eurozona nel suo insieme e di ridurre l'attuale sovraccarico di politica monetaria.
Inoltre, un legame molto più stretto dovrebbe essere stabilito tra analisi e raccomandazioni politiche
a livello aggregato da un lato e le loro implicazioni per i singoli paesi dall'altro, tenendo anche conto degli effetti di ricaduta delle politiche economiche nazionali su altri paesi.

2.4 Aumentare gli investimenti
Gli investimenti sostengono la domanda nel breve termine e rafforzano l'offerta e la produzione potenziale nel medio termine. In un contesto di ripresa lenta e fragile, gli investimenti sono la priorità assoluta per mettere l'Unione Europea entro un percorso di crescita sostenibile. Nel recente passato, la caduta degli investimenti nei paesi europei è stato drammatico e molto diffuso; un'inversione di tendenza è ancora molto lenta.
Per contribuire a invertire questa tendenza, la Commissione ha avviato il "Piano Juncker", creando il
"Fondo europeo per gli investimenti strategici" (EFSI). Il Piano è un'importante occasione per stimolare gli investimenti privati ​​con il sostegno pubblico. Il Piano dovrebbe attivare progetti che altrimenti non si realizzerebbero, a causa di un rischio eccessivo, fallimenti del mercato, o vincoli finanziari o di bilancio.
Il ruolo potenziale di catalizzatore del Piano deve essere sfruttato a pieno, in sinergia con le risorse del bilancio dell'UE e con le risorse nazionali, ivi comprese quelle delle "Banche nazionali di promozione", per genuine iniziative di investimento europee volte al finanziamento di beni comuni europei quali le reti trans-europee o l'Unione energetica. Iniziative ad alta intensità di conoscenze, che si concentrano sul c.d. "capitale umano", la ricerca, l'innovazione e l'educazione di eccellenza sono gli investimenti a più alto potenziale di crescita e dovrebbero essere adeguatamente supportato. Un forte impegno nelle riforme strutturali potrebbe sfruttare la ricerca di profitti e opportunità di investimenti.
I paesi dovrebbero utilizzare appieno i loro margini di manovra nella politica fiscale, se disponibili, per aumentare gli investimenti. La governance europea dovrebbe prevedere ulteriori incentivi per gli investimenti in beni pubblici europei anche a livello nazionale. Ulteriori iniziative comuni europee
dovrebbero essere prese in considerazione: progetti per aumentare il potenziale di crescita dell'UE potrebbero essere finanziati da emissioni di debito in comune.
Infine, condividiamo l'idea di una "Unione dei finanziamenti e degli investimenti", in cui il completamento dell'Unione bancaria, dell'Unione del mercato dei capitali e il Piano degli investimenti del Presidente Juncker contribuiscano a una più efficace canalizzazione del risparmio verso gli investimenti.

2.5 Completamento dell'Unione bancaria
Una priorità fondamentale è quello di completare l'Unione bancaria e preservare la fiducia nel settore bancario. Aumentare la capacità di ripresa del nostro sistema bancario, limitando l'impatto dei fallimenti bancari, è questione in cima all'agenda politica, e risultati significativi sono stati effettivamente raggiunti . Molto è stato realizzato per ridurre i rischi, in particolare rafforzando salvaguardie prudenziali per le banche con un aumento dei requisiti di capitale e di liquidità; per rafforzare la vigilanza attraverso stress-test approfonditi a livello UE e con la creazione Meccanismo Unico di Controllo (SSM). Inoltre, a seguito dell'implementazione di normative nazionali di applicazione della BRRD e con l'istituzione del Meccanismo Unico di Risoluzione (SRM), il rischio di un coinvolgimento del settore pubblico è stato significativamente limitato.
Tuttavia, le innovazioni connesse all'attuazione della direttiva BRRD sono sostanziali e l'aggiustamento delle aspettative dei comportamenti delle parti interessate per assimilare il nuovo quadro richiederà del tempo prima di essere completo. L'implementazione delle regole deve dunque essere gestita in modo adeguato per evitare l'instabilità finanziaria anche attraverso una migliore informazione, comunicazione, trasparenza e valutazione del rischio.
Inoltre, l'Unione Bancaria è ancora incompleta e deve essere dotata di strumenti efficaci per affrontare le crisi sistemiche. Un quadro normativo per la condivisione dei rischi è necessario per progredire verso prospettive credibili di stabilità finanziaria. Un Schema Europeo di Assicurazione dei Depositi (EDIS) migliorerebbe in modo significativo il funzionamento dell'Unione bancaria e garantirebbe una maggiore efficienza e stabilità finanziaria. Ancora più importante, sarebbe aumentare la fiducia, che è l'ingrediente chiave per il successo dei sistemi bancari e contribuire,
a sua volta, a ridurre i rischi. Inoltre, stabilire in anticipo una comune ed efficace misura di protezione per il Fondo di Risoluzione Unico (SRF) è necessario per rafforzare la capacità finanziaria del SRF stesso e, in generale, la credibilità del Meccanismo di Risoluzione Unico. La condivisione del rischio è parte integrante di un'Unione bancaria, il cui fine è quello di riuscire a limitare la frammentazione del mercato e la creazione di una vera parità di condizioni per le imprese in tutta l'UE.
Parallelamente, sono necessarie ulteriori misure per ridurre - entro l'orizzonte temporale opportuno - gli alti livelli di debito privato, per affrontare il problema delle sofferenze e migliorare l'efficacia complessiva degli strumenti a tutela dell'insolvenza. Accompagnare alla condivisione del rischio un'ulteriore riduzione del medesimo migliorerebbe notevolmente la stabilità finanziaria, sosterrebbe la ripresa dell'attività creditizia e spingerebbe le prospettive di crescita.
Un'Unione dei Mercati dei Capitali completamente sviluppata rafforzerà ulteriormente il sistema e potrebbe facilitare la diversificazione delle fonti di finanziamento, in particolare per le PMI, e renderebbe più ampio il Mercato unico. Inoltre, esso contribuirà a una migliore regolazione degli shock in tutta l'Eurozona, così da rendere l'Unione Economica e Monetaria più robusta e resistente.

2.6 Ampliare il Mercato unico
L'ulteriore rafforzamento del mercato interno è un'opportunità che deve essere pienamente sfruttata: c'è ampio spazio per ulteriori vantaggi, attraverso un'integrazione più stretta e una maggiore competitività. Il mercato interno è la grande conquista comune dell'Europa a 28. Il Mercato unico è stato al centro della strategia di crescita europea per più di due decenni. Tuttavia, gli interessi nazionali, le barriere istituzionali e i colli di bottiglia, sia a livello nazionale che a livello europeo, hanno impedito di sfruttare appieno i vantaggi di termini di competitività e di crescita.
I continui sforzi per rivitalizzare il Mercato unico, mirati a rimuovere gli ostacoli al Mercato Unico dei Capitali e alla creazione di una Unione dei Mercati dei Capitali, superando la segmentazione del mercato dell'energia, promuovendo l'economia digitale e l'innovazione, vanno nella giusta direzione. Per quanto riguarda l'energia, l'integrazione dei mercati nazionali avrebbe impatto significativo sulla competitività dell'economia europea. Ulteriori passi a la livello nazionale realizzerebbero ulteriori progressi verso il mercato unico, creando le condizioni per facilitare le opportunità di investimento. Le aree di intervento in cui le riforme porterebbero notevoli benefici includono la riforma della pubblica amministrazione, compreso l'accesso agli appalti pubblici, e la riforma della giustizia civile. Infine, progressi nell'affrontare la concorrenza fiscale sleale e nel raggiungimento di una maggiore trasparenza nel settore fiscale possono essere di grande beneficio alle attività commerciali transnazionali e di miglioramento del benessere dei consumatori.
Infine si deve tenere presente che la fonte più promettente di crescita per un'economia senescente come quella dell'Unione europea è la maggiore produttività guidata dall'innovazione. A tale proposito l'obiettivo di una strategia di crescita condivisa dovrebbe essere quello di andare verso quella che potremmo definire a pieno titolo una Unione dell'Innovazione, cioè un insieme integrato di iniziative, che l'UE dovrebbe adottare, per stimolare la creazione di conoscenze attraverso l'investimento nell'istruzione e nella ricerca, che sono i principali motori dell'innovazione.
La cooperazione tra Eurozona e paesi non appartenenti all'area dell'euro sarà un tema-chiave. ulteriori avanzamenti nel processo di integrazione economica e monetaria e dell'Unione europea sono, e dovrebbe essere visti, come capaci di rafforzarsi e beneficiarsi reciprocamente. La convergenza all'interno dell'Eurozona non dovrebbe comportare una divergenza con gli Stati che non sono membri dell'area dell'euro.

2.7 Uno strumento comune per gli aggiustamenti nel mercato del lavoro
Un approccio innovativo è necessario per promuovere e facilitare le regolazioni nei mercati del lavoro europei. Nell'Eurozona, in particolare, data l'assenza di meccanismi di aggiustamento dei cambi, la maggior parte dello sforzo di aggiustamento è a carico del lavoro.
Un meccanismo di stabilizzazione macroeconomica è necessario in quanto i paesi sotto rigorosi vincoli di bilancio possono non essere in grado di regolare il ciclo economico e di prendere contromisure ad un aumento della disoccupazione in caso di shock asimmetrici. Inoltre, la politica monetaria può risultare insufficiente se lo shock è specifico di un Paese.
Un meccanismo comune per mitigare la disoccupazione ciclica e le sue conseguenze rappresenterebbe un'opportunità realizzabile, per l'Eurozona, per fare un passo in avanti verso la sostenibilità e rafforzarne la dimensione sociale. Inoltre, vi sarebbero vantaggi a lungo termine, ove si consideri come alti livelli di disoccupazione per un periodo prolungato di tempo comportino un deterioramento del capitale umano, una minore produttività e un impatto negativo sul potenziale di crescita.
Un Fondo per stabilizzare il mercato del lavoro dovrebbe fornire risorse ai paesi che sperimentano forti aumenti della disoccupazione ciclica. Una volta creato, sarebbe innescato in modo automatico evitando processi decisionali lunghi e complessi.
Un regime di assicurazione contro la disoccupazione potrebbe contribuire a consolidare la crescita a medio termine, attenuando gli aggiustamenti necessari in presenza di shock negativi e limitando
gli impatti negativi sugli altri paesi. Potrebbe amplificare l'efficacia degli impatti e delle ricadute positive delle riforme nazionali. I paesi che non fossero diretti beneficiari delle misure beneficerebbero di un più stabile e prospero contesto macroeconomico. Sarebbe un ulteriore segno della irreversibilità dell'Euro, con un impatto positivo sulla fiducia.
Una struttura di incentivi adeguata può essere costruita per limitare il rischio morale ed evitare trasferimenti permanenti e unidirezionali di alcuni paesi ad altri, pur aumentando la condivisione dei rischi. Ad esempio, il meccanismo potrebbe attivarsi in presenza di una fase verso il basso del ciclo economico sufficientemente ampia in un paese, tale da portare a un aumento della disoccupazione. L'attivazione delle risorse condivise sarebbe al di fuori del controllo dei governi nazionali. Poiché il meccanismo non dovrebbe attivarsi rispetto a casi di disoccupazione strutturale, i paesi beneficiari dovrebbero comunque assumersi la responsabilità di introdurre riforme strutturali nel mercato del lavoro. Lungi dall'essere una scorciatoia per i paesi che non accelerano sulle riforme, la condivisione del rischio sarebbe una forza trainante delle riforme, verso l'attuazione di misure coerenti nei diversi Stati membri.
Il meccanismo potrebbe essere finanziato o destinandovi parte delle risorse nazionali utilizzate per la corresponsione di sussidi di disoccupazione o con una nuova fonte fiscale comune . Tale strumento potrebbe essere creato senza modifiche dei Trattati, e al contempo costruirebbe la fiducia e il sostegno reciproco necessari per cambiare i Trattati medesimi, quando necessario.

2.8 Affrontare la pressione alle frontiere europee
L'Unione europea si trova ad affrontare una sfida senza precedenti rappresentata dall'afflusso di migranti e richiedenti asilo. La crisi dei rifugiati è chiaramente un problema sistemico, che mette l'Europa duramente alla prova. L'opinione pubblica percepisce ampiamente che questa prova richiede una comune risposta europea . Anche il principio di sussidiarietà sottolinea la necessità di una dimensione europea per affrontare le dimensioni e la complessità delle questioni in gioco. Una risposta comune e condivisa è necessaria. L'accordo di Schengen è una delle principali conquiste dell'integrazione europea e deve essere preservato e rafforzato.
Una politica di lungo termine sui rifugiati è necessaria, soprattutto considerando che il fenomeno è destinato a durare. La condivisione della responsabilità per la gestione delle frontiere esterne tra l'UE e gli Stati membri interessati rappresenterebbe una risposta potente. Risorse finanziarie e umane provenienti dall'UE dovrebbero integrare le politiche nazionali per le operazioni di soccorso,
la creazione di hotspot e la prima integrazione dei rifugiati che raggiungono la frontiera europea.
Questi sono i beni comuni europei che richiedono un coinvolgimento dell'UE. Abbiamo bisogno di una soluzione, di soddisfazione per tutti gli attori in gioco, che bilanci i costi a breve termine del finanziamento delle nuove politiche di accoglienza con i benefici di lungo termine derivanti da un processo più ordinato di transizione e integrazione. L'ambito della nuova politica di gestione condivisa delle frontiere esterne dell'UE richiede diverse fonti di finanziamento e giustifica il ricorso ad un meccanismo mutualizzato di finanziamento che potrebbe comportare emissione di obbligazioni comuni.

3. Dal breve termine al lungo termine
Per rendere l'Unione monetaria davvero irreversibile, dobbiamo gestire la comune casa europea con l'adozione di una visione sistemica comune.
Un'unione monetaria più forte ha bisogno di istituzioni comuni più forti istituzioni . In aggiunta all'Unione Bancaria dovrebbe dunque essere considerato quanto segue.
L'istituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM) è stato un importante passo avanti per la gestione delle crisi dei debiti sovrani, attraverso l'utilizzo delle risorse messe in comune. Dovremmo
concentrarsi su come sfruttare appieno i benefici di questo pool di risorse, preservando la sua ultima funzione di "firewall". Un obiettivo ambizioso sarebbe trasformare l'ESM in un Fondo monetario europeo. Nel breve termine, l'ESM dovrebbe diventare una garanzia per il Fondo Unico di Risoluzione, onde salvaguardare efficacemente la stabilità finanziaria nell'Unione.
La realizzazione di un sussidio di disoccupazione comune sarebbe un primo passo per lo sviluppo di una funzione di stabilizzazione per far fronte a shock asimmetrici e un aiuto nella costruzione della fiducia necessaria per iniziative più ambiziose per il futuro.
Ancora, un'iniziativa finanziaria a livello di Unione Europea mirata a finanziare in comune la gestione delle frontiere esterne potrebbe anche rappresentare un esempio rilevante di condivisione
delle responsabilità e della fornitura di beni pubblici europei.
A lungo termine, l'Unione monetaria deve essere dotata di una capacità fiscale correlata ai compiti di promozione degli investimenti e riduzione degli impatti del ciclo economico. un'area fortemente integrata, come l'UEM, è caratterizzata da beni pubblici che possono essere meglio prestati a livello sistemico. Si pensi ai grandi investimenti, a funzioni di stabilizzazione economica, al finanziamento di politiche degli Stati membri che abbiano ricadute positive.
Queste funzioni possono essere gestite da un Ministro delle Finanze dell'Eurozona. Il valore aggiunto di un Ministro dell'Eurozona potrebbe essere quella di eseguire una politica fiscale comune e di assicurare che una politica fiscale coerente ed equilibrata sia perseguito a livello aggregato. A questa fine, si renderebbe necessario un bilancio dell'Eurozona, con risorse adeguate. Naturalmente, un tale ministro dovrebbe essere politicamente attrezzato per svolgere questo ruolo. Anche se questa cifra potrebbe essere costituita in seno alla Commissione europea - sulla falsariga dell'Alto rappresentante - sarebbe importante che avesse un forte legame anche con il Parlamento europeo.

4. Conclusioni
Una lezione derivante dalla crisi è che la stabilità e il progresso dell'UEM richiede una maggiore fiducia reciproca, tra cittadino e istituzioni europee e tra gli Stati membri, nonché un approccio sistemico più forte, il che implica più attenzione alle esternalità positive del processo di integrazione. La fiducia reciproca può essere accumulata mostrando agli altri Stati che un paese si attiene alle regole. Le regole devono essere progettate in modo da premiare il rispetto delle stesse e scoraggiare i comportamenti non cooperativi (vale a dire impedire il rischio morale). Allo stesso tempo, le regole devono prevedere meccanismi di condivisione del rischio che aumentino i "ritorni" per comportamenti cooperativi. Meccanismi di condivisione del rischio sono una componente chiave per il buon funzionamento dell'UEM. In altre parole, le regole devono consentire la mutualizzazione. I due elementi, mitigazione del rischio e condivisione dei rischi, si rinforzano reciprocamente. Prevenire il rischio morale rafforza la fiducia e supporta la mutualizzazione. La condivisione e la mutualizzazione dei rischi offre un forte incentivo a rispettare le regole e a evitare comportamenti opportunistici.
Ricostruire la fiducia tra gli Stati membri e disinnescare i pregiudizi nazionali sono i principi che dovrebbero guidare le azioni dei governi europei. Questi sforzi devono includere tutti i 28 Stati membri. Molti dei punti di cui sopra - in particolare il miglioramento del mercato unico e lo sviluppo un'Unione dei Mercati dei Capitali ben funzionante, il piano degli investimenti, così come iniziative per affrontare la crisi dei rifugiati - sono questioni comunitarie e devono essere discusse tra i 28 Paesi. Il grado di cooperazione tra i pro e i contro su questi temi sarà la chiave per fare progressi reali.
Il dibattito sul futuro dell'unione monetaria è una grande opportunità per rafforzare la capacità di ripresa dell'economia europea e del progetto europeo in generale. Per fare passi in avanti in questa nuova sfida, bisogna essere guidati da alcuni principi fondamentali:
- la percezione del legame tra problemi di breve e lungo termine dovrebbe essere rafforzata e basarsi su una visione comune. Non ci dovrebbe essere nessuna scusa per concentrarsi solo sul breve termine;
- la distinzione tra le misure che richiedono ovvero che non richiesto modifiche dei Trattati non dovrebbe essere un ostacolo a obiettivi politici ambiziosi. Molto può essere fatto con i Trattati attuali, così da costruire il supporto il cambiamento dei Trattati quando necessario;
- l'Unione Economica è un progetto multidimensionale. Il rafforzamento dell'integrazione monetaria e finanziaria dovrebbe andare di pari passo con le misure per stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro. Ciò per dimostrare ai cittadini europei che l'Europa può essere una parte della soluzione e non del problema;
- il rafforzamento dell'UEM dovrebbe essere l'occasione per rafforzare i rapporti fra Paesi UEM e Paesi non UEM, con benefici reciproci.

Non voglio commentare analiticamente questo sproloquio.
Dico solo che mi ricorda le bizze forsennate dei miei figlioli, quando erano più piccoli: la rabbia li stravolgeva, si opponevano a quello che io o la mamma chiedevamo, e tanto più si arrabbiavano quanto più capivano, loro stessi, che di lì a poco avrebbero, spontaneamente, ubbidito agli ordini.
E così qui. Prima, attacchi alla Germania per i surplus accumulati, rivendicazione di risorse per la questione dei migranti e per combattere la disoccupazione (sia pure sotto la forma politicamente improponibile degli Eurobond), quindi l'accettazione di un Ministro delle Finanze Europeo (cioè una specie di sovrano assoluto del rigore continentale) e il collegamento fra il Fondo Unico di Risoluzione (una specie di Fondo interbancario di garanzia dei depositi su scala europea) e l'ESM (il c.d. Fondo salva-Stati, che in certe circostanze può essere anche utile - a tutti meno che a chi lo usa - ma ha il piccolo inconveniente di richiedere di mettersi in casa la Troika).
Che poi - devo ammettere, sorprendendomi - ho capito che certe cose, Matteo, le ha capite.
Che tagliare la spesa pubblica, anche quella così detta "improduttiva" (?), provoca una connessa riduzione del PIL che, soprattutto in caso di indebitamenti oltre il 100% del prodotto interno, peggiora - non migliora - il rapporto fra le due grandezze.
Che in una situazione di cambi fissi a noi sfavorevole (condizione data che, peraltro, lui non cita mai), una sia pur timida ripresa economica comporta l'esplosione dell'import rispetto all'export, e dunque un peggioramento - non un miglioramento - dell'economia nazionale  (lui parla di PIL anziché di Prodotto Nazionale, ma insomma il concetto è chiaro).
Che dentro l'Euro, non potendo agire sui tassi di cambio, la produttività si riacquista soltanto mediante la deflazione salariale (che però ha come corollario un aumento significativo della disoccupazione).
Tutte queste cose le trovate qui (dal minuto 47:20).



Certo, non è che ci vuole un asso, ma rispetto ai gloriosi tempi dell'austerità espansiva si sono fatti passi da gigante.
E allora non si capisce questo documento cosa sia. Una resa? Un modo come un altro di mettere le mani avanti nei confronti dei cittadini italiani? Una specie di terapia psicanalitica, in cui si cerca di rifocalizzare il rimosso (in particolare, il Fiscal Compact)? Sì, perché - parliamoci chiaro - l'unica proposta "vera" del paper è una proposta... franco-tedesca, cioè l'istituzione di un Ministro delle Finanze Europeo.
Non lo so. Quello che so, è che il futuro, per l'Italia, appare tutt'altro che roseo.

giovedì 18 febbraio 2016

Matteo, i professori e la patrimoniale

In questi giorni è "scoppiato" il caso dell'avvertimento al governo, neanche tanto velato, di un gruppo di economisti molto vicini alla BCE, affinché si inizi un nuovo programma di privatizzazioni e, se del caso, sia introdotta un'imposta patrimoniale.
La questione è riassunta qui:
Visto però che l'Italia è piena di gente con le più strane perversioni, chiunque fosse interessato al testo integrale, lo può trovare qui. Io, inoltre, lo riporto di seguito (in corsivo) con qualche mio commento in calce (in tondo grassetto).


Eurozona, la responsabilità dell’Italia
Di Carlo Bastasin, Lorenzo Bini Smaghi, Franco Bruni, Marcello Messori, Stefano Micossi, Franco Passacantando, Fabrizio Saccomanni e Gianni Toniolo

[Bastasin è questo. Bini Smaghi è l'ex membro BCE, così caro a Sarkozy, attuale membro di Morgan Stanley International e in predicato di diventare Presidente della prima ex-BCC renziana, nobile, amante dei nomi orrendi per tradizione di famiglia, di recente convertito all'anti-austerità pur restando marito dell'economista De Romanis. Saccomanni è stato Governatore della Banca d'Italia e Ministero delle Finanze per Letta, e tanto basta. Passacantando è uno di uscio e di bottega in tutti gli organismi internazionali, pubblici e privati. E così via].

L’aiuto della Bce non durerà per sempre
Siamo tutti tentati di dire che il peggio è, ormai, alle nostre spalle. Eppure, dopo otto anni dall'inizio della crisi, la stabilità dell'euro-area è ancora a rischio. Nonostante diversi tentativi di migliorare le pratiche e le istituzioni di governo dell'Unione, i paesi che condividono la  moneta unica continuano ad avere andamenti economici divergenti. Il sistema attuale non  sembra ancora in grado di consolidare un percorso di sviluppo. Non siamo nemmeno certi che  gli strumenti, di cui disponiamo, riducano significativamente i rischi di instabilità che hanno  scosso le fondamenta dall'euro-area, né che permettano a governi e opinioni pubbliche tra loro molto distanti di unire le forze e condividere contromisure adeguate.

[Già si comincia male. Intanto, perché è vero che - come direbbe Bagnai - ogni grafia richiama un'etica. Scrivere Unione con la U maiuscola e paesi, tra cui il tuo Paese, con la minuscola, non promette nulla di buono. Scrivere poi euro-area invece di area-Euro o Eurozona anche peggio. Poi, se è vero che il fine giustifica i mezzi, qui il fine risulta sin dalla prima riga profondamente sbagliato: la ricerca della stabilità dell'Eurozona, cioè di una cosa che, per la sua stessa struttura, stabile non può proprio essere. Lo sanno tutti, ormai, ma questo qui sotto è un simpatico ripasso:
Chiusa parentesi].

La politica monetaria sembra l'unico strumento di politica economica a disposizione. Tuttavia, essa può riportare l'inflazione a livelli normali solo con molta gradualità e incontra limiti nel sostegno dell'attività economica. Per giunta, il ricorso a politiche monetarie non convenzionali incorpora rischi; il che spinge a definire subito limiti di tempo, entro i quali l'allentamento quantitativo dovrà esaurirsi. Saranno le condizioni di carattere geopolitico o finanziario a  influenzare la durata del programma della Bce; eppure la scadenza del marzo 2017, evocata  dalla stessa Bce, pone fin da oggi l'economia europea di fronte allo scenario dell'uscita da  quegli acquisti di attività finanziarie che hanno stabilizzato il mercato dei titoli di Stato ma  hanno appena iniziato a dare respiro all'economia.

[Ora, ognuno scrive quello che gli pare. Però il principio di realtà andrebbe rispettato: la politica monetaria della BCE non riesce a riportare, neppure con gradualità, l'inflazione "a livelli normali". Quali siano, non è dato sapere. Il 2% della BCE? Di più o di meno? Ma poi questa inflazione, o non era "la più iniqua delle imposte"?
Sulle "politiche monetarie non convenzionali", poi, stendo pietoso velo e vi rimando qui].

Dal coordinamento accentrato a un meccanismo decentrato
Il tentativo di rispondere alla crisi accentrando il coordinamento delle politiche economiche  dei paesi dell'euro ha via via perso credibilità. Sono stati predisposti imponenti e intricati sistemi di governance attraverso il Semestre europeo, il Six-Pack e il Two-Pack. L'applicazione delle regole europee è stata però problematica e asimmetrica, distinguendo tra paese e paese; il che ha tra l'altro intaccato il senso di comunanza che avrebbe facilitato l'adozione e il rispetto di regole condivise. I risultati della nuova governance non sono soddisfacenti: nei paesi più fragili, il rapporto tra debito e Pil ha continuato a peggiorare; le riforme strutturali sono state adottate con riluttanza in paesi come Francia e Italia; paesi come la Germania con surplus di risparmio non hanno accettato di discutere sul riequilibrio del loro ampio avanzo di parte corrente. Ne è derivato che, in un contesto di bassa crescita economica, i paesi più in difficoltà sono stati obbligati a recuperare la loro competitività attraverso la deflazione interna. Perdita di credibilità e di efficacia hanno contribuito all'erosione della fiducia nella governance europea.

[Quel che va detto va detto. Questi sono proprio professori. Io non capisco nulla di quel che scrivono e mi inchino. Da un lato, infatti, si stigmatizza la necessità del ricorso alla "deflazione interna", dall'altro ci si rammarica che alcuni Paesi come Francia o Italia siano stati troppo timidi nel "fare le riforme strutturali", cioè prendere provvedimenti volti ad incrementare questa deflazione. Il tutto, poi, per salvare l'Euro, un progetto che fa della deflazione salariale il proprio cardine principale. In tutto questo, i suddetti professori si stupiscono del continuo peggioramento del rapporto tra debito e PIL, tutti presi dal numeratore ed assolutamente disinteressati al denominatore].

Fino al 2012 la gestione della crisi e i cambiamenti istituzionali che l'accompagnavano si sono basati su una gerarchia tra i paesi, in ragione della quale i paesi con surplus di risparmio  hanno dettato condizioni stringenti ai paesi in deficit. Tali condizioni hanno poi trovato  riflesso nell'operatività del ‘Meccanismo europeo di stabilità’ e nei programmi di assistenza  finanziaria. Successivamente, quando il compito di stabilizzare la crisi è stato assunto dalla  Banca centrale europea, con l'intento di rimettere in funzione i canali di trasmissione della  politica monetaria e di difendere l'integrità della moneta unica, si è attenuata la presa delle condizionalità politiche imposte ai paesi più fragili nella prospettiva di un aiuto finanziario da  parte degli altri paesi. La spinta riformatrice e il risanamento dei conti pubblici, che erano stati attivati dall'emergenza finanziaria e dal regime di condizioni innescato dagli aiuti, ha finito per attenuarsi ovunque. Semplificando si potrebbe dire che, con l'euro-area in pericolo  di sopravvivenza, la Bce si è dovuta far carico di un ruolo di pivot finanziario che, in  precedenza, era stato svolto – pur se in modo controverso - dalla Germania. Buona o cattiva, la  gerarchia tra paesi che consentiva a quelli ad economia più salda di dettare le regole e di  imporre una supervisione tecnica a quelli più fragili, si è molto attenuata. Il coordinamento  politico delle economie dell'euro-area, accentrato solo attraverso il ruolo primario di Berlino,  è diventato quindi via via meno efficace.

[Cerco di tradurre: fino al 2012 la Germania dettava le condizioni ai Paesi in difficoltà, prima direttamente poi tramite il MES. Dopo, questo ruolo è stato svolto dalla BCE in modo molto meno rigido e, in quest'ottica, anche in modo molto funzionale.
Vogliamo parlare degli enormi risultati raggiunti dalla leadership tedesca in Grecia, Spagna e Portogallo? Oppure vogliamo concentrarci sulla particolare umanità mostrata nei confronti dei cittadini ellenici dalla BCE.
Ma l'hanno fatto per loro! Certo. Infatti ora va tutto bene:
Questi signori, tra le righe, sembrano rimpiangere quei tempi. Forse è perché allora erano giovani (anche mia nonna rimpiange gli esercizi ginnici domenicali)].

Il ruolo della Germania come pivot politico e finanziario europeo sta ora ulteriormente evolvendo. In seguito alla crisi dei migranti siriani, Berlino sta perdendo gli alleati politici tradizionali dell'Est Europa. Inoltre i paesi più colpiti dalla crisi economica hanno adottato leadership politiche che non aderiscono alle policy di austerità. La Commissione europea non è  in grado di fungere da sostituto per continuare ad accentrare il coordinamento, perché è vista dai paesi deboli come esecutrice di politiche asimmetriche favorevoli alla Germania e da  quest'ultima come complice nell'allentamento del rigore nei paesi in deficit. Man mano che  l’accentramento del coordinamento delle politiche attorno alla leadership tedesca ha perso influenza ed efficacia, Berlino ha iniziato a trasferire le responsabilità dell’aggiustamento in  capo ai singoli paesi, soggetti a una supervisione comune ma poco incisiva. Un modello che  definiremmo di coordinamento decentrato.
L’erosione della fiducia nel modello di accentramento del coordinamento attorno alla  leadership di Berlino è dovuta anche a motivazioni politiche nazionali. Nei paesi della periferia  è cresciuta l’insofferenza nei confronti di ricette di politica economica imposte dall'esterno e  poco efficaci. Tale sentimento ha preso espressione politica in movimenti di opinione anti-europei  e quindi contrari all'accentramento delle responsabilità. Ugualmente in Germania, l’ondata migratoria priva di argini, il minor rigore fiscale nell'euro-area e l'attenuazione dell'influenza gerarchica sui paesi e sulle istituzioni europee hanno fatto crescere il senso di “perdita di controllo” sulle sfide nazionali e dell’Unione. Questo sentimento si ripercuote sulla  vita politica interna che già vive nella prospettiva delle scadenze elettorali del 2017, diventate  per Germania e Francia – senza contare la Gran Bretagna - passaggi cruciali in grado di determinare le sorti del rapporto dei paesi di maggior dimensione e peso politico con l'Unione europea.

[Cioè. Houston, abbiamo un problema. I popoli strangolati dalla crisi si sarebbero un attimino frantumati le palle, e pare che nella maggior parte dei Paesi europei viga ancora, almeno formalmente, la democrazia. Per di più, in alcuni di questi Paesi neppure hanno Napolitano. D'altronde, della Commissione non si fida più nessuno, vista la democraticità della sua elezione e l'autorevolezza, soprattutto in campo etilico, del suo Presidente. Ah, aspetta... in mezzo a tutto questo casino ci sarebbero le elezioni tedesche e francesi, oltre che il referendum inglese. Qui bisogna che la Merkel intervenga, con tutto il suo carisma. Come? Ha fatto una figura da mentecatta nella gestione dei flussi migratori siriani? Perché, non erano tutti ingegneri e dottori passati da Gazebo? E allora...
...
...allora sono problemi per l'Italia. Cazzo c'entra? È scritto sotto].

I rischi per l’Italia
In questo contesto di minor accentramento delle regole e del coordinamento economico dell'euro-area, la scelta italiana è stata di rilanciare la domanda attraverso l'aumento del disavanzo pubblico invocando clausole di flessibilità equivalenti a un punto percentuale di prodotto interno lordo. Dopo i deludenti esiti delle politiche di austerità, l'obiettivo è stato di stimolare la crescita e di ridurre per tale via il rapporto tra debito e Pil. Nel farlo, si è scelto di utilizzare le risorse per recuperare un po' della fiducia distrutta da anni di recessione,  distribuendo denaro alle famiglie anziché abbattere il costo del lavoro o incentivare le attività  economiche. Questa scelta sta producendo finora modesti effetti sui consumi privati, mentre  gli investimenti non accennano a ripartire.
Si profila quindi uno scenario in cui il rapporto tra debito e Pil non scenderebbe in misura significativa; non è anzi escluso che tale rapporto possa riprendere a salire, in particolare se si verificassero - come è probabile, dati gli andamenti macroeconomici di inizio anno - un rallentamento dell'economia globale e un tasso di crescita della nostra economia inferiore a  quello previsto dalla legge di stabilità per il 2016.
L'andamento del debito italiano è uno degli elementi più critici per la stabilità dell'euro-area.  Il rapporto tra debito e Pil è, d'altronde, la chiave di volta nel nuovo sistema di governance economica europea. Fino all'anno scorso, essendo in recessione, l'Italia ha usufruito di un  periodo di transizione che ha reso meno cogenti gli impegni annuali di riduzione del debito.
Da quest'anno il periodo transitorio si è esaurito; e non si può escludere che la Commissione,  subendo le forti pressioni dei paesi più rigoristi, apra una procedura di infrazione contro  l'Italia per violazione del rispetto degli obiettivi di medio termine.

[Ecco cosa c'entra. Siccome la Germania ha allentato un po' la presa, noi - scolaretti cattivi (Severgnini dixit) - abbiamo scelto di "rilanciare la domanda attraverso l'aumento del disavanzo pubblico" invece di continuare imperterriti a "abbattere il costo del lavoro o incentivare le attività economiche". Che incentivare le attività economiche togliendo i soldi ai clienti di queste ultime sia una cazzata sesquipedale, agli illuminati scriventi neanche li sfiora.
Poi, arriva il primo avvertimento. Il debito pubblico italiano è alto e "il periodo transitorio è finito", per cui rischiamo una procedura di infrazione.
Urge breve spiegazione.
A marzo 2012 il mai troppo esecrato governo Monti firma il fiscal compact, trattatello internazionale tra tutti i Paesi dell'Unione Europea (esclusi Gran Bretagna, Croazia e Repubblica Ceca) che prevede alcuni obblighi non proprio secondari per le finanze pubbliche dei contraenti: pareggio di bilancio, deficit strutturale pari a mezzo punto di PIL, riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL a non più del 60%, a colpi di 1/20 dell'eccedenza per ogni esercizio. Siccome si tratta di norme che fanno strame delle più elementari disposizioni di welfare dei vari Stati membri, il Trattato si cura di richiedere la costituzionalizzazione degli accordi. Monti, sollecito, provvede immediatamente cambiando l'art. 81: quello che fa più schifo, è che le votazioni riportano nessun voto contrario. Una macchia per tutti i nostri politici. Un po' meglio è andato il voto sul fiscal compact in quanto tale: lo legge qui.
Bene. Cioè, male. Comunque: la riduzione del rapporto debito/PIL al 60% dall'attuale 132% in 20 anni deve iniziare dal 2016, che significa subito. Renzi ha scommesso in un aumento del denominatore grazie a politiche espansive, i sullodati professori lo hanno caldamente sconsigliato. In questo quadro, Monti, lo ha attaccato pesantemente al Senato, Boeri è già in rampa di lancio, il diavolo fa le pentole e probabilmente anche i coperchi. Assolutamente impossibile; dove si voglia andare a parere è scritto dopo.
Un ultimo appunto. Chi ha memoria un po' più lunga, ricorderà che il Fiscal Compact non è stato mai sottoposto alla votazione del Parlamento Europeo, né è stato implementato, mediante apposita direttiva, dalla Commissione (perché, in questo caso, l'approvazione del Parlamento sarebbe stata obbligatoria). Il Parlamento, comunque, ha votato una autonoma mozione contro il Trattato. Ah, il Parlamento Europeo è l'unico organo eletto dell'Unione...].

Gli effetti negativi del nuovo meccanismo di “coordinamento decentrato”
L'aumento del debito e del deficit attraverso generose politiche di spesa è la prima ragione di indisponibilità da parte degli altri paesi europei a realizzare forme di risk-sharing. La sfiducia  ella capacità italiana di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil scoraggia il ricorso a pratiche di accentramento della politica economica e di condivisione dei rischi. A ciò si aggiunga che Francia e Spagna, pur se con un debito pubblico più contenuto rispetto all'Italia, hanno disavanzi fuori linea rispetto alle regole europee. Fatto è che, interpretando i vincoli fiscali a modo proprio anche se con motivazioni economiche o politiche rispettabili, questi tre  paesi testimoniano la persistenza di sensibilità diverse nell'euro-area rispetto al problema della stabilità fiscale. A ciò corrisponde, da parte dei paesi più virtuosi, una scarsa disponibilità alla condivisione dei rischi che hanno origine o conseguenze fiscali; e la tendenza è rafforzata dal rallentamento del processo di riforme strutturali delle economie.

[Vabbè: che devo dire? Risiamo al trito cliché dei Paesi Mediterranei cicale - ah, il Cattolicesimo! - visti con sospetto dai "virtuosi" nordici. L'economia è amorale, diceva Croce. Da quando c'è l'Unione Europea, sembra un corso rapido di calvinismo dei poveri. Ormai 'sto discorso mi fa talmente schifo, che neanche cito Siemens, Volkswagen, Deutsche Bank, le riforme Hartz che hanno dato un enorme vantaggio competitivo alle aziende tedesche facendo esplodere il deficit tedesco, il mercantilismo tedesco, e così via. Ah, le ho citate. Talvolta ci vuol pure un po' di rettorica, ma di buon gusto...].

Non a caso proprio dalla Germania emerge un modello di coordinamento che, anziché  accentrare politiche e responsabilità, sembra intenzionato a privilegiare quello che abbiamo  definito un esercizio di “coordinamento decentrato” delle politiche economiche. L’esercizio ha  il suo elemento essenziale non nella condivisione dei rischi ma nella pressione per la loro riduzione specie nei paesi ad alto debito. In particolare ogni paese ad alto debito deve farsi  carico di ridurre il rischio di shock idiosincratici, rafforzando la separazione tra i rischi sovrani  e i rischi bancari. Questo obiettivo viene ricercato prima di tutto attraverso nuove regole che  attribuiscano un esplicito coefficiente di rischiosità ai titoli pubblici dei paesi dell'euro-area, costringendo le banche a non considerarli più come titoli privi di rischio. Sono inoltre già materia di discussione nuove regole che stabiliscano limiti precisi alla quantità di titoli  sovrani di un singolo paese nel bilancio di ogni banca.
La Bundesbank in particolare richiede che non si proceda ai previsti istituti di condivisione  dei rischi bancari prima che sia completato il processo di allentamento del legame tra rischio  sovrano e rischio bancario. L'assicurazione comune dei depositi bancari europei verrebbe così rinviata nel tempo perché, nella visione tedesca, condividere i rischi di banche cariche di titoli di stato significherebbe condividere i rischi del debito degli stati. Per la stessa logica ma applicata ai debitori privati, viene poi chiesto che la comune assicurazione sui depositi venga varata solo dopo che siano state armonizzate le norme che regolano il diritto fallimentare. In assenza di regole comuni, un paese potrebbe lasciar fallire le proprie banche e le proprie imprese, così da scaricare parte degli oneri sull'assicurazione dei depositi finanziata da contribuenti stranieri.

[Anche qui, urge qualche considerazione.
Primo: che per spiegare un ricatto non servono tutte queste parole. In pratica, si dice che - laddove i Paesi del Sud Europa vogliano una garanzia europea dei depositi bancari, resasi ormai assolutamente necessaria dopo l'introduzione delle norme sul bail-in - devono accettare che i loro Titoli di Stato siano detenuti dalle banche non oltre una certa quota, e comunque non più come asset privi di rischio, ma ponderati per determinati coefficienti come tutti gli RWA. Con conseguenze sistemiche inimmaginabili (immissione sul mercato di un'enorme quantità di Titoli detenuti dalle banche, rialzo degli spread, tensione finanziaria, probabile arrivo armi e bagagli della Troika. Non a caso:
Eh, ma tanto lo dico, ma mica lo fanno! Come no! Per esempio, a proposito di legge fallimentare...
Secondo: per i tedeschi, in questo modo condividere il rischio dei depositi bancari non significherebbe più condividere il rischio degli Stati sovrani di cui quelle banche hanno acquistato debito. Siamo al ridicolo. Ci è stato spiegato in tutte le salse - anche da insospettabili - che l'esplosione dei debiti pubblici si è verificata come conseguenza dell'insostenibilità del debito privato, alimentato da tassi artificialmente bassi e conseguenti prestiti delle banche del Nord ai consumatori del Sud ben oltre i limiti del moral hazard. Sulla velina rosa è apparso anche il famoso disegnino:





Sentirsi dire - da chi ha scatenato una delle più violente tempeste finanziarie di sempre solo per recuperare quattro soldi prestati a bischero in Grecia - che una garanzia europea sui depositi non si può fare perché si rischierebbe di mutualizzare il debito sovrano, è francamente una grandissima presa per il culo.
Terzo: ai cultori del "ci vuole più Europa" vorrei ricordare da cosa nasca tutta questa preoccupazione nei confronti della rischiosità del debito sovrano: "i Titoli di Stato sono risk-free nei Paesi con sovranità monetaria; ma siccome i Paesi dell'Eurozona hanno una moneta comune e devono rispettare specifiche regole previste dai Trattati, non possono né ridurre il proprio debito per via inflattiva, né monetarizzarlo" (v. qui). ].

Una volta spinti i titoli del debito pubblico di un paese fuori dai bilanci bancari di quello stesso paese, al sopravvenire di una crisi sarebbe possibile procedere alla ristrutturazione del suo debito senza devastare il suo sistema bancario e senza troppo condizionare – in linea teorica – la sua attività economica privata. A completamento di tale decentramento del rischio sovrano, meccanismi automatici di ristrutturazione del debito, attraverso l'allungamento delle scadenze dei titoli pubblici, verrebbero disposti e fatti valere ogni qual volta un paese perdesse accesso al mercato per finanziare il proprio debito pubblico e fosse quindi costretto a rivolgersi al ‘Meccanismo europeo di stabilità’ per ottenere assistenza finanziaria.
Per paesi ad alto debito e con rilevanti poste di crediti bancari problematici, lo scenario è preoccupante. Quanto sta avvenendo, da alcuni giorni, sui mercati azionari italiani è  emblematico: la caduta nelle quotazioni dei gruppi bancari più fragili mostra che, se il funzionamento del ‘Single Resolution Fund’ rimanesse prevalentemente nazionale per molti anni, le nuove regole europee incentrate sul cosiddetto bail in potrebbero accentuare, anziché attenuare, il legame tra rischio bancario e rischio sovrano. Tale legame sarebbe poi rafforzato, con impatti ingovernabili, dall'inserimento di regole di ristrutturazione automatica del debito pubblico di un paese in difficoltà finanziaria. La possibilità di cadere in forme non gestite di default rischierebbe di auto-realizzarsi, proprio come è successo nei momenti più drammatici della crisi degli ultimi anni.

[Dunque, mi par di capire che il default di uno Stato e la rovina di tanti piccoli risparmiatori che ne hanno acquistato il debito pubblico (i miei nonni, quelli di te che leggi, qualche pensionato che ha messo da parte qualche soldo nella sua vita... e altri noti speculatori di questa risma) non è un problema. O meglio: non è un problema se questo default non coinvolge il sistema bancario, in particolar modo il sistema bancario estero. Il quale, via MES, avrà poi modo di fare i suoi affari sulle macerie dello sventurato Stato caduto nelle sue grinfie (Italia, ovviamente, in pole position). Sono d'accordo: per rompere il famoso diaframma che ci tiene lontani dalla naturale durezza del vivere, niente di meglio che un bel fallimento collettivo].

Scommesse ad alto rischio e ripresa del Pil italiano
In questo contesto, sarebbe cruciale procedere all'immediata unificazione del ‘Single Resolution Fund’ europeo o – in subordine – all'immediata creazione della garanzia europea sui depositi. Sebbene il processo di ristrutturazione e di concentrazione del sistema bancario italiano sembri avviato, ciò non basta: l'ammontare di crediti a rischio nei bilanci bancari impone pronti provvedimenti di stabilizzazione. A questo proposito, nonostante la stringenza delle nuove regole europee, rimangono spazi per forme di cartolarizzazione che non compromettano gli equilibri dei bilanci bancari italiani. Va inoltre ricordato che tali bilanci sono sovraccarichi di titoli del debito sovrano destinati a perdere valore, qualora l'inflazione tornasse su livelli normali e i tassi nominali di interesse aumentassero di conseguenza.
Sarebbe quindi auspicabile che le nostre banche utilizzassero l’attuale ampia disponibilità di liquidità, fornita dalla Bce, per accelerare la riduzione della loro esposizione e per diversificare i titoli nel loro attivo.
Un più rapido completamento del ‘Single Resolution Fund’ e del costituendo Fondo di garanzia dei depositi richiede comunque la ricostruzione di solidi rapporti di fiducia. In proposito, i principali attori europei vogliono comprendere se la ripresa economica italiana sarà tale da migliorare il rapporto debito pubblico-Pil. Le riforme economiche impostate dall'Italia negli ultimi anni appaiono ancora troppo timide per garantire la necessaria crescita dell'economia e per fare sì che l'aumento del disavanzo produca veri effetti di stimolo. Il governo italiano in particolare si è fermato nella revisione della spesa pubblica inefficiente e delle agevolazioni fiscali. Si attende ancora una precisa indicazione sulla riforma della giustizia. La legge annuale sulla concorrenza appare depotenziata e arenata.
Se il processo di concentrazione bancario appare a portata di mano ma insufficiente per assicurare la stabilità del settore, gli adeguamenti strutturali del sistema industriale in vista di uno sviluppo dimensionale delle imprese procedono lentamente e a macchia di leopardo. L'impiego di sussidi e sostegni occupazionali frena, anziché agevolare, le ristrutturazioni nel sistema produttivo, mentre resta ancora da realizzare un piano di riforme inteso a rilanciare la produttività con interventi di carattere microeconomico.
Di fronte al rischio di una deludente risposta degli investimenti e della crescita alle riforme varate, è necessario tenere sotto controllo l'andamento del debito pubblico. Su questo fronte, manca un forte segnale di ripresa dell'azione riformatrice nel risanamento dei conti pubblici, per esempio spostando le clausole di salvaguardia dall'aumento delle imposte a tagli di spesa automatici. Sottovalutare il rischio di uno slittamento negli equilibri di bilancio pubblico potrebbe essere molto rischioso; ed è opportuno che iniziative cautelative, per esempio privatizzazioni tese a ridurre l'aumento nominale del debito, vengano attuate. I progetti di interventi di natura straordinaria che riducano il profilo del bilancio pubblico devono essere ripresi in considerazione.

["Stringenza"? "Stringenza"? Eh, ma loro son professori di economia, mica di letteratura italiana! Ho capito, ma le medie le avranno fatte, o no? Vabbè, non è importante.
Quello che invece è importante è il contenuto, che ripropone il solito mantra che tanti danni ha fatto e sta facendo: va bene fare deficit, ma soltanto per inondare di incentivi le imprese ("resta ancora da realizzare un piano di riforme inteso a rilanciare la produttività con interventi di carattere microeconomico"), mentre la spesa pubblica deve essere, sempre e comunque, tagliata, in quanto per definizione inefficiente, quando non improduttiva ("il governo italiano... si è fermato nella revisione della spesa pubblica inefficiente e delle agevolazioni fiscali"). Peraltro, che il governo non abbia fatto niente, non è vero: il Jobs Act, che per un verso precarizza il lavoro riducendo ipso facto il livello retributivo e per l'altro, tramite norme agevolative temporanee, quasi azzera il cuneo fiscale per le imprese che assumo, è l'esatta traduzione in legge di questi simpatici auspici.
Risultati? Ottimi.

D'altronde, che si vuole pretendere da una politica che incentiva le imprese a produrre affamando coloro che dovrebbero comprare?
Ah già...
Secondo avvertimento: "sottovalutare il rischio di uno slittamento negli equilibri di bilancio pubblico potrebbe essere molto rischioso; ed è opportuno che iniziative cautelative, per esempio privatizzazioni tese a ridurre l'aumento nominale del debito, vengano attuate. I progetti di interventi di natura straordinaria... devono essere ripresi in considerazione".
Sulle privatizzazioni, stendo un pietoso velo. A cosa servono, è noto.



Due paroline, invece, sugli "interventi di natura straordinaria", cioè un modo fine - "figo", direbbe Jovanotti - di intendere un'imposta patrimoniale o una tassa sulle successioni particolarmente progressiva.
La patrimoniale, sulla carta, piace tanto agli italiani, perché gioca su un sentimento diffuso di invidia sociale. Piace molto meno, quando capiscono che, alla fine, i "ricchi" sono proprio loro e non certo coloro che quella tassa l'hanno voluta. Che sono tanti, di diversa estrazione: dal compagno Ferrero (grande difensore dell'Euro), all'economista caviar Piketty (che l'Euro lo vorrebbe anche in America Latina), fino al FMI e alla Bundesbank (che nell'Euro ci sguazzano a colpi di deflazione). Ma, soprattutto, alla nostra economista di riferimento qui accanto.
Il perché di tutto questo lo spiega bene Il Pedante: "la tassa di Robin Hood nasce dall'invidia e produce conflitto sociale. Va ricordato ai compagni (?) che la la lotta di classe si fa tra lavoratori e capitalisti, non tra lavoratori poveri e lavoratori benestanti. Il parametro della ricchezza non distingue il risparmio dei cittadini dal capitale finanziario, anzi colpisce inevitabilmente il primo in quanto la liquidità degli speculatori è volatile, poco tracciabile e transnazionale quando non estera tout court, quindi non assoggettabile alle leggi nazionali" (non a caso, un suo grande fautore ha pensato bene di prendere la residenza in Svizzera).
Se la "patrimoniale del vivo" è infattibile, ecco allora che spunta la "patrimoniale del morto", cioè la tassa sulle successioni, grande cavallo di battaglia di tutti i Piketty e Atkinson del mondo. Che a me piace molto poco, ma Matteo invece medita. D'altronde, ormai è esperienza concreta degli ultimi anni: quando le banche tedesche sono in crisi, i portafogli italiani immediatamente si alleggeriscono. E ora...
Temo che il cammino sia segnato].

Impegni nazionali e negoziato europeo
L’euro area ha bisogno di maggiore coesione tra i paesi membri oppure la sua tenuta, non solo economica, rimarrà a rischio. Non ci saranno però né coesione né gestione condivisa dei rischi senza che ogni paese contribuisca, al tempo stesso, a ridurre le proprie ragioni di instabilità. Per l’Italia è di estrema importanza realizzare passi avanti nella mutualizzazione dei rischi. In particolare, in materia di unione bancaria, dobbiamo spingere per una più rapida messa a regime del ‘Single Resolution Fund’ e per far rispettare l’impegno già preso dai governi europei a favore di un’assicurazione comune dei depositi. Bisogna inoltre fare passi avanti nella definizione di una politica di bilancio coordinata, in cui la restrizione fiscale necessaria in alcuni paesi sia compensata da politiche espansive in altri. Alle istituzioni europee deve essere riconosciuto il compito di realizzare politiche di sviluppo di interesse comune e interventi anticiclici per l’euro-area, anche usando in modo più efficace gli strumenti esistenti.
Al riguardo, è necessario rafforzare le iniziative europee per lo sviluppo degli investimenti, definendo aree di intervento - a cominciare da quelle per la sicurezza comune e per l’efficienza delle frontiere esterne - che devono essere finanziate in modo congiunto. Gli investimenti in infrastrutture e nei servizi di rete devono essere accompagnati da un processo di maggiore apertura dei mercati nazionali alla concorrenza, nello spirito del mercato unico. Si tratta di misure indispensabili a realizzare un’area economica meno fragile e più coesa.
Sarà però impossibile costruire il consenso per la condivisione dei rischi economici e finanziari se, parallelamente, ogni paese non si sforzerà di ridurre le proprie specifiche fonti di instabilità. Il completamento dell’unione bancaria, mediante una più rapida messa a regime del ‘Single Resolution Fund’ e la creazione dell’assicurazione europea sui depositi, richiederà progressi significativi nell’allentare il legame tra rischio sovrano e rischi bancari. Per l’Italia si tratta di scelte difficili, ma in grado di portare benefici nel medio termine. Nella percezione di molti tra i paesi membri dell’unione monetaria, d’altronde, uno dei rischi più sentiti è rappresentato dall’elevato debito pubblico che stenta a ridursi. La politica di bilancio italiana non potrà dunque trascurare l’obiettivo della riduzione del debito. L’applicazione sistematica di clausole di flessibilità senza attento riguardo all’andamento del rapporto tra debito e Pil sarebbe infatti di ostacolo al rafforzamento del processo di condivisione dei rischi.
In conclusione: l’Italia ha la necessità di lavorare perché si torni a forme di coordinamento accentrate, anche se diverse da quelle già fallite. La nostra economia ha, infatti, l’esigenza di far avanzare le istituzioni comuni e il processo di mutualizzazione in modo da tenere sotto controllo l’insorgere di rischi sistemici, a cui – come l’esperienza recente dimostra - essa è più esposta di altre economie. Come si è già detto, l’attuale elevato grado di sfiducia tra i paesi spinge verso il decentramento dei rischi e delle responsabilità e verso l’abbandono del coordinamento da parte delle istituzioni europee. L’Italia trarrebbe beneficio da un’azione negoziale su almeno due fronti: responsabilità nazionale, da un lato, e maggiore coesione europea, dall'altro. La coerenza su entrambi questi lati consentirà al paese di svolgere un ruolo centrale nel negoziato europeo, avvicinando a sé stati membri diversi ma uniti dalla stessa esigenza: rafforzare l’Europa attraverso la coesione e la riduzione dei rischi.

[Il gran finale è servito. "L'Italia ha la necessità di lavorare perché si torni a forme di coordinamento accentrate, anche se diverse da quelle già fallite", che tradotto significa ulteriore cessione di sovranità, controllo più stretto dei vincoli di bilancio, in ultimo Ministro europeo delle finanze, il tutto in cambio di... una garanzia dei depositi europea (che avrebbe dovuto essere già negoziata) e qualche investimento in infrastrutture.
Il tutto a quale scopo? Rafforzare l'Unione Europea! Siamo o non siamo il Paese di Ventotene? Siamo o non siamo il Paese della Boldrini?
Insomma, il solito scambio in perdita. Che, pertanto, accetteremo].

martedì 16 febbraio 2016

Cedere sovranità al sud... in cambio di flessibilità al nord (paradossi ai tempi dell'Europa)

Oggi Marione Draghi ha parlato in audizione di fronte al Parlamento Europeo. Il prossimo 18 febbraio vi sarà il Consiglio Europeo che dovrebbe approvare una "raccomandazione sulla politica economica dell'Eurozona". Ai primi di marzo ci sarà il Consiglio della BCE.
In questo mese, dunque, si gioca molto del futuro dell'Euro, probabilmente dell'Unione Europea, e comunque di tutti noi.
Cosa ha detto oggi Draghi? Come al solito, oltre ad amenità varie ("è colpa delle economie emergenti", "per far ripartire l'economia servono meno tasse e più investimenti pubblici", la già celebre "l'Euro ha un futuro ma dovremo lavorarci", e così via filosofeggiando) molto o poco a seconda delle interpretazioni.
Leggo per esempio su Milano Finanza che ha escluso assolutamente acquisti da parte della BCE di crediti deteriorati di banche italiane, pur aggiungendo che le sofferenze, sotto forma di ABS, potrebbero essere accettate a collaterale nel quadro del programma di Quantitative Easing (QE) della Banca Centrale. Si riferiva soltanto alle tranche senior (v. qui), oppure anche alle junior, con ciò aprendo ad una revisione dei limiti di rating (attualmente: BBB-) dei titoli collateralizzabili? Certo, da alcuni non è stato preso bene... soprattutto dal punto di vista della coerenza.
Su Repubblica, sottolineano soprattutto che, per Draghi, "non ci sarà una Basilea IV" (cioè, in sostanza, la richiesta di ulteriori capitalizzazioni alle banche) e la questione dei Titoli di Stato da non considerare più risk-free "dovrà essere affrontata con molta ponderazione e gradualismo", non tanto a livello UE, ma globale da parte del Comitato di Basilea. Affossamento dell'idea? Oppure ennesima applicazione del metodo-Junker?
Parecchia fuffa...
...ma anche un paio di messaggi chiari. Uno sulla politica monetaria, che è stata e resterà accomodante, fino a nuovi eventuali strumenti da mettere in campo a marzo (utilissimi come i precedenti, si immagina). Il secondo ha riguardato il bail-in: "le regole sono appena entrate in vigore, si pensa già a una loro revisione: mi pare un po' difficile". E questo anche se "la responsabilità spetta alla Commissione e all'Autorità unica di risoluzione delle crisi". Amen.
Infatti...

Cerchiamo di fare un po' il punto.

La situazione finanziaria in generale e bancaria in particolare è più grave che mai. Ripeto: più grave che mai. Per chi non avesse capito: siamo messi peggio che nella crisi del 2010-2012, quando l'Eurozona è riuscita a non andare in pezzi soltanto creando il MES (neo-istituzione permanente istituita per trattato intergovernativo, con capitale di 700 miliardi di Euro, di cui 500 prestabili agli Stati che ne facciano richiesta, previa sottoscrizione da parte di questi del c.d. "Fiscal Compact" e di Memorandum di intesa con la Troika) e dando inizio all'OMT (acquisto diretto, da parte della BCE, di Titoli di stato emessi da Paesi in difficoltà che hanno attivato un programma di aiuti con il MES: si tratta del famoso whatever it takes) e al Quantitative Easing.
A questo giro, si sta preparando la tempesta perfetta, perché tutti i nodi stanno venendo al pettine, e tutti assieme: (i) le banche soffrono problemi di liquidità a causa delle forti sofferenze indotte da quasi dieci anni di crisi economica e scarsa capitalizzazione, vuoi per le previste perdite su crediti, vuoi per le esorbitanti esposizioni in derivati, vuoi per la  necessità di sostituire titoli subordinati ormai troppo costosi dopo l'introduzione (e l'improvvida implementazione) del bail-in; (ii) gli spread dei Paesi del Sud stanno nuovamente risalendo; (iii) è ormai chiaro che il QE non funziona assolutamente da stimolo né per l'inflazione, né per l'economia.
Tanto per dire:

Molti analisti riterrebbero utili, a questo punto, nuove misure straordinarie, e alcuni hanno anche francamente apprezzato il tentativo del governo italiano di porsi in contrasto con la leadership tedesca, i cui risultati fallimentari sono sotto gli occhi di tutti.
Hanno anche avanzato alcune proposte.
Perché non approvare, anche in Europa, il TARP (acronimo di Troubled Asset Relief Program, fondo del Tesoro americano costituito per l'acquisto di titoli garantiti da ipoteche - i c.d. MBS, particolarmente rischiosi - al fine di ridurre gli effetti dello scoppio della bolla dei sub-prime) così come accaduto negli Stati Uniti?
A questo Draghi non si è spinto, ma ha parlato di rendere eleggibili a collateral delle operazioni di QE gli ABS che saranno emessi dalle banche italiane che utilizzeranno la GACS (per una breve spiegazione, v. qui).
Perché non aumentare il grado di mutualità dell'Eurozona? Perché non ridurre gli impatti del bail-in mediante una sua sospensione, o comunque una riduzione dei suoi devastanti impatti? Perché non permettere alla BCE, quanto meno, di comprare le obbligazioni senior delle banche? Ma soprattutto: perché - semplicemente - non approvare la Garanzia Unica dei Depositi, ultimo pilastro di una riforma nata monca e, come tale, pericolosa a livello sistemico?
Secondo gli analisti, si tratta di misure attuabili anche nell'attuale quadro politico europeo, a patto però... di ulteriori cessioni di sovranità da parte degli Stati. Retro-pensiero: il Nord aiuta il Sud, ma il Sud si fa controllare dal Nord. Come? Va da sé, con l'introduzione del mitologico Ministro delle Finanze unico. Ora, questa figura, come una specie di Giano Bifronte, è già stata tirata per la giacchetta da tutte le parti: è il guardiano del rigore e delle riforme (Germania), è colui che finalmente utilizzerà le risorse dell'Unione per un armonico piano di sviluppo del Continente (Italia, ma soprattutto l'ineffabile Letta). Il bello è che, per chi opera sui mercati, la cosa è indifferente: in un caso, ci saranno le tanto amate riforme, nell'altro crescita. Interesse anche minimo per i risultati di queste alchimie sui popoli europei? Nullo.

++ Il ragionamento è chiaramente fallace (per noi). Infatti l'Italia, o la Spagna, o il Portogallo subiranno un'ulteriore drastica riduzione dei propri spazi di manovra fiscale ed economica, in cambio di un alleggerimento sul divieto di Aiuti di Stato quel tanto che basta per risistemare gli Istituti del Nord, prima fra tutte la Banca con il buco intorno (che già, ad onor del vero, si sta muovendo in modo alquanto spregiudicato...).
Le nostre resteranno comunque sotto schiaffo: via spread, o via bail-in (anche qualora fosse un po' attenuato), o - come arma di distruzione finale - tramite la modifica delle disposizioni sul trattamento dei Titoli di Stato detenuti in bilancio. ++
E tutto questo, al solito, a dimostrazione di una impreparazione tecnica e politica della nostra classe dirigente veramente incredibile. Matteo - che dopo essere stato in Africa ora è in Argentina: ma che pensa, di essere Magellano? - batte i pugni sul tavolo (e tutto sommato fa bene, ammesso che il tavolo esista), ma intorno a lui non c'è nessuno - nessuno - che abbia le competenze e i ruoli per supportare quello che sembra, da qualunque parte lo si guardi, un tentativo molto velleitario (anzi, come detto, molto probabilmente soggetto a clamorosa eterogenesi dei fini).
A dimostrazione...
Sì perché, al di là delle frasi di circostanza di Draghi, l'idea della necessità di rompere il legame fra Titoli di Stato e sistema bancario, soprattutto in certi Paesi come l'Italia, è ormai all'ordine del giorno, in particolare per la grande pressione, in proposito, della Germania. Per due ragioni: (i) pone l'attenzione su un singolo problema, che funziona però come un grande tappeto per nascondere la polvere delle banche del Nord (rischi di mercato esorbitanti, derivati in quantità folle, emissioni generose di titoli subordinati e chi più ne ha più ne metta); (ii) parallelamente, creando tensione sugli spread dei Titoli dei Paesi della periferia, aumenta la raccolta e la solidità dei Paesi del centro e, per via mediata, delle sue banche.
Ma la cosa più bella è la motivazione che i tedeschi danno a base della proposta: i Titoli di Stato sono risk-free nei Paesi con sovranità monetaria; ma siccome i Paesi dell'Eurozona hanno una moneta comune e devono rispettare specifiche regole previste dai Trattati, non possono né ridurre il proprio debito per via inflattiva, né monetarizzarlo (per spiegazioni vi rimando a Alberto Bagnai, qui e qui). Detto in altri termini: siete entrati nell'Euro e vi siete stretti al cappio al collo; non protestate se ora abbassiamo la botola.
Tra l'altro, è pronto anche il ricatto: ha detto pari pari Dijsselbloem che solo spezzando il nesso Titoli di Stato - Banche (del Sud) sarà possibile (per il Nord) accettare una Garanzia europea sui depositi.
Peraltro, ad oggi, nonostante il diverso rischio-Paese, i nostri Istituti non sono messi così male (salve le solite lodevoli eccezioni). Chi non ci crede può guardare qui sotto (il CDS di Intesa non è peggiore di quello di Credit Suisse o di Commerzbank ed è assai migliore di quelli di Deutsche Bank o delle banche spagnole).
Ora, l'idea di ridurre attorno al 25% del capitale il peso massimo dei Titoli di Stato nel portafoglio delle banche comporterebbe, ad andare bene, la perdita in media di un punto percentuale (100 bps., dicono quelli fichi) di CET1 (con effetti anche più devastanti su Mps o Ubi o, peggio ancora, Banco Popolare), una fortissima contrazione del margine di interesse, che non si gioverebbe più delle cedole staccate da questi Titoli, venduti, secondo stime abbastanza prudenziale, per oltre 150 miliardi di nominale (salvo il reperimento di altri impieghi altrettanto lucrosi... a parità di assorbimento di capitale) e, in ultima analisi, un probabile aumento dei rendimenti degli stessi (con conseguenti, ulteriori perdite patrimoniali e per le banche e per i risparmiatori che detengono BTP a medio termine: ricordo a questo proposito che, al contrario degli Istituti di altri Paesi, in Italia la maggior parte dei Titoli di Stato in portafoglio sono classificati AFS, dunque le variazioni del loro valore di mercato influenza immediatamente il CET1).
Vi rendete conto, sì? Nella migliore delle ipotesi: rialzo degli spread, cessioni in perdita di Titoli da parte delle banche, paura del bail-in, ritiro dei depositi, crisi sistemica, ricorso al MES, arrivo in pianta stabile della Troika. Nella peggiore: rialzo degli spread ... ecc. ecc. ..., downgrade dei Titoli italiani, impossibilità di utilizzo dei medesimi per il QE, terrore di bail-in, crisi sistemica, ricorso al MES, di nuovo: arrivo in pianta stabile della Troika.
Scegliete voi quale dei due scenari preferite.