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giovedì 22 dicembre 2016

Il Jobs Act, ovvero del diritto ottocentesco applicato alle dinamiche sociali odierne (e un P.S. sul tradimento della CGIL)

Ponendosi in prospettiva storica, l'esperienza dei tre governi dell'offensiva neoliberista in Italia (Monti, Letta, Renzi) sarà simboleggiata essenzialmente dalla riforma del mercato del lavoro e di quello pensionistico, prima con la Legge Fornero e poi con il Jobs Act (che della Legge Fornero è sostanzialmente la continuazione e l'inasprimento).
Non ci vuole un particolare sforzo di fantasia nel pensare che i prossimi, invece, saranno gli esecutivi del taglio definitivo del welfare (a compendiarli, immagino una riforma complessiva del Sistema Sanitario Nazionale, che certo sarebbe stata assai più facile se al referendum costituzionale voluto da Renzi avesse vinto il fronte del "sì").
Mi sembra però opportuno spiegare perché il Jobs Act è un simbolo (il che, tra parentesi, ne avrebbe fatto l'idolo polemico ideale per chi, da destra o da sinistra, avesse voluto fare un'opposizione "costruttiva" al partito egemone, ritagliandosi a mio parere spazi elettorali significativi). Il Jobs Act è un simbolo perché - pur composto da una legge delega, da vari decreti delegati e da una pletora di D.M. attuativi - ha una straordinaria unità di intenti, è tutto percorso - dall'inizio alla fine - da un'unica "visione" della funzione del diritto, delle dinamiche economiche, potremmo dire delle modalità di interazione delle diverse forze sociali.
Mi spiego meglio.
In generale, la legislazione del lavoro a partire dallo Statuto del 1970 è stata informata al principio di "uguaglianza sostanziale" di cui all'art. 3, c. 2, della nostra Costituzione, quel principio - cioè - che "riconosce... come l'uomo sia strettamente condizionato, per quanto attiene alla sue effettiva posizione, alla situazione economica e sociale del suo ambiente e questa situazione non solo possa pregiudicare la pertinenza in concreto dei diritti astrattamente riconosciuti a tutti, ma possa essere ostativa del pieno sviluppo della persona umana" (Pera, Diritto del Lavoro, Milano, 1996, 61). Lo Stato deve dunque intervenire per abbattere i limiti di fatto alla libertà e uguaglianza dei cittadini, in primo luogo riconoscendo "a tutti i cittadini il diritto al lavoro" e promuovendo "le condizioni che rendono effettivo questo diritto" (art. 4, Cost.)
Senza lavoro non ci sono né libertà né uguaglianza né vera cittadinanza (con buona pace del relativo reddito), per cui la legislazione deve essere informata non soltanto all'obiettivo minimo di porre limiti ragionevoli alla facoltà di licenziamento da parte dell'imprenditore, ma anche all'ulteriore fine della realizzazione di una sostanziale parità negoziale - pur nella differenza dei rispettivi compiti - fra il datore di lavoro (evidentemente parte "forte" del rapporto) e il lavoratore (altrettanto evidentemente parte "debole").
Questa impostazione, se in altri settori del diritto si è tradotta in una predeterminazione legale della composizione degli interessi in gioco ritenuta ottimale (si pensi alla Legge sull'equo canone, per esempio), in ambito giuslavorista ha invece portato a un sistema che - una volta assicurate ai lavoratori determinate libertà (da, non di) e determinati diritti - ha comunque lasciato la composizione ultima del conflitto alla naturale dialettica delle forze in capo collettivamente considerate e organizzate. Il collegamento giurisprudenziale fra "paga base" del CCNL e "retribuzione proporzionata" di cui all'art. 36, Cost. ne è un esempio lampante.
In altri termini: ferme restando le guarentigie individuali e collettive di legge, la definizione di un negozio contrattuale fra datori di lavoro e lavoratori in tanto può essere effettivo (cioè non viziato nella volontà: libero e senza errori essenziali) in quanto stipulato fra soggetti equi-valenti aventi rappresentanza collettiva.
Il "riflusso" precarizzante degli anni Novanta e Duemila, iniziato con la Legge Treu, ha subito individuato in questo assetto normativo un limite forte a qualsiasi forma di deregulation, e lo ha attaccato cercando di incrementare in modo sempre più massiccio il ruolo della contrattazione di prossimità, rispetto a quella nazionale. Lo stesso Jobs Act dispone che, "salvo diversa previsione..., per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria" (art. 51, D. Lgs. n. 81 del 2015).
Nessuno, però, si era spinto a fare quello che è stato fatto all'art. 2103, c.c., il cui nuovo testo - in materia di mansioni - fra l'altro prevede che, in determinate "sedi protette", "possano essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita...".
Io ne ho già parlato, molto criticamente, qui e qui. Di recente, però, ne ha parlato con grande competenza e perspicuità il prof. Sitzia dell'Università di Padova (La (in)certezza del diritto nel Jobs Act all'italiana: mansioni e volontà individuale assistita, in Lavoro nella Giurisprudenza, 2016, 10, 845), il quale - entro un articolo che parla anche di molte altre cose e che consiglio vivamente di leggere a tutti coloro che ne hanno la possibilità - mette in primo piano proprio le radici filosofiche del provvedimento.
Nella sostanza, il legislatore... estende il novero delle fonti "sussidiarie" (in senso letterale) fino a ricomprendervi la stessa autonomia privata.Questo profilo è interessante. Dal punto di vista tecnico si può osservare che: a) l'estensione di cui si è detto non è espressamente prevista dalla legge di delega, che a chiare lettere limita l'individuazione di ipotesi di demansionamento ulteriori (rispetto a quelle, rimesse all'esercizio del potere direttivo...) alla sola contrattazione collettiva, di tal ché il comma 6 dell'art. 2103 c.c. sembra esporsi ad una censura di incostituzionalità per contrasto con l'art. 76 Cost.; b) la norma espone l'accordo individuale ad un controllo di sussistenza del presupposto legittimante a fini di validità.
(...). L'apertura verso la volontà individuale assistita intreccia quell'idea che parte della dottrina, in termini molto critici, ha definito della "glorificazione" del primato dell'autonomia dispositiva dei privati nel sistema delle fonti regolative, e segna, indubbiamente, un importante passo nella direzione di una sempre maggiore privatizzazione del conflitto nelle relazioni lavoristiche.
Il punto è questo: il comma 6 intende realizzare la semplificazione del sistema attraverso un recupero di attribuzioni all'autonomia privata, il tutto nella prospettiva della c.d. "flessicurezza", da intendersi come duttilità delle regole, che si muove nella logica mercantilistica della parità contrattuale.
(...). La funzione dell'organo pubblico sembra assumere natura privilegiata, catalogabile come atto di certazione.
Il comma 6 induce a riflettere sulla portata di un modello di flessibilizzazione delle regole realizzato attraverso l'apertura alla libera volontà delle parti. Il tema intreccia quello della certezza del diritto in quanto il miraggio della flessibilità e duttilità delle regole si pone come opposto rispetto alla triade inderogabilità, rigidità, fissità. Attraverso la flessibilizzazione delle regole la necessità empirica, l'imprevedibilità, portata, potremmo dire, dallo scambio contrattuale tra le parti, si viene a sostituire alla razionalità della coerenza sistemica, che, sarebbe per contro garantita dal predicato dell'inderogabilità in peius. (...).
Chiaro?
La certezza del diritto e l'uguaglianza sostanziale sono immolati sull'altare della privatizzazione dei rapporti giuslavoristici (o anche sociali in senso lato), in un'ottica ottocentesca e vetero-liberale dei rapporti giuridici tutti. 
È la concorrenza, la vittoria del forte sul debole in nome dell'efficienza (e qui mi fermo, rimandando a chi su questi temi ha riflettuto profondamente). È, potremmo dire, "il precipitato" di quel sistema politico-economico noto come Unione Europea, il cui cardine principale è rappresentato dalla Banca Centrale indipendente, smascherato da Alberto Bagnai e Luciano Barra Caracciolo.
In questo senso va letto anche il famigerato "contratto a tutele crescenti", il quale reintroduce nell'ordinamento il principio - anche questo di diritto potremmo dire "comune" - secondo cui a ciascun contratto a durata indeterminata si deve accompagnare a favore delle parti un diritto di recesso. Il contratto a tempo indeterminato come un abbonamento a Sky.
In quest'ottica, il fenomeno orrendo dei voucher si qualifica in sostanza come sintomo generico dell'infezione (la precarizzazione e deprofessionalizzazione), mentre l'attacco all'articolo 18, così come alla disciplina delle mansioni sopra ricordato, sono indizi specifico della malattia (diciamo, per comodità di definizione, il neoliberismo su cui si basa l'Unione Europea).
Un attacco peraltro lento, per ondate successive, ma che ha in sostanza avuto il suo coronamento con la Legge Fornero e quindi con il Jobs Act. Con risultati osceni anche dal punto di vista normativo, la cui alluvionalità è ben stigmatizzata dal prof. Sitzia.
[Stanti le premesse concettuali della Legge Delega], (...) occorre verificare se la riforma del 2014/2015 sia effettivamente veicolo di semplificazione e certezza, risponda al criterio della sussidiarietà, e, se mai, tuteli in qualche modo l'affidamento (criterio non dichiarato dal legislatore, ma, come si è visto, implicato dalla certezza).(...). Basti qui segnalare, in ogni caso, un dato generale di grande rilevanza ai fini della nostra riflessione. Tutte le norme introdotte o riscritte dalla riforma non hanno efficacia retroattiva. Questo comporta, come rilevato in dottrina, che "vigono contemporaneamente due, e a volte tre, regimi, in base alla data dei fatti costitutivi del diritto. L'incertezza dell'ordinamento continua a trionfare, come sempre nei periodi in cui il legislatore emana molte norme anche a fini di consenso elettorale".Caso emblematico è quello del licenziamento, dove vige un imbarazzante menu à la carte, caratterizzato da regimi sanzionatori differenti a seconda: a) della categoria di appartenenza del lavoratore (i dirigenti "godono" di una tutela differenziata, più favorevole rispetto agli altri lavoratori subordinati, nel caso di licenziamento collettivo giusta la nuova formulazione dell'art. 24, comma 1-quinquies, L. n. 223 del 1991 come introdotto dall'art. 16, comma 1, lett. b), L. n. 161 del 2014); b) della data di assunzione (art. 18 Stat. lav./art. 8 della L. n. 604 del 1966 oppure "tutele crescenti" se l'assunzione è avvenuta fino o dopo il 6 marzo 2015); c) dell'avvenuta "conversione" del contratto di lavoro a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato avvenuta successivamente al 6 marzo 2015 (art. 1, comma 2, D. Lgs. n. 23 del 2015); d) dell'eventuale intervenuta integrazione del requisito occupazionale a seguito di assunzioni a tempo indeterminato successive al 6 marzo 2015, che comporta l'applicazione delle "tutele crescenti" anche al licenziamento dei lavoratori assunti precedentemente a tale data (art. 1, comma 3, D. Lgs. n. 23 del 2015); e) della data del licenziamento (art. 18 Stat. lav. nella versione antecedente o successiva alla L. n. 92 del 2012 se il licenziamento è intervenuto prima o dopo il 18 luglio 2012).
Ecco allora che si entra nell'ultimo tema che mi proponevo di affrontare, cioè il referendum, voluto dalla CGIL, abrogativo di alcune parti del Jobs Act.
Cosa chiede il sindacato?
Di abrogare le norme sui voucher. Bene, anzi ottimo. Tant'è vero che, con ogni probabilità, il referendum non si terrà perché le disposizioni in questione saranno cambiate direttamente dal governo Gentiloni, che ritornerà ad una disciplina un po' più stringente (probabilmente, quella antecedente la Legge Fornero).
Di riproporre le sacrosante garanzie per il versamento dei contributi dei lavoratori in caso di subappalto di lavori. Perfetto. Anche in questo caso, ci penserà Gentiloni.
Di ripristinare un sistema di protezione del diritto al posto di lavoro simile, se non uguale, a quello previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori prima dello stravolgimento della Legge Fornero (e poi della franca abrogazione da parte del Jobs Act).
E qui casca l'asino.
Perché su questo punto, così qualificante, il PD - la maggioranza del PD - non ci sente. E non ci sente per un'impostazione filosofica nella valutazione dei rapporti sociali che è quella sopra ricordata. Da Rivoluzione Francese, diciamo.
Ecco allora che, come sempre, il Sindacato - che dovrebbe tutelare i lavoratori, ma finisce per tutelare solo i propri dirigenti - ne inventa una delle sue: non si limita a riportare indietro le lancette dell'orologio giuridico, togliendo di mezzo le riforme dell'ultimo quinquennio, ma si inventa una (tra l'altro assurda, sotto ogni punto di vista) estensione innovativa della norma di tutela anche alle aziende con meno di 15 dipendenti, ma più di 5.
In altri termini: costruisce il quesito per essere certa che sia bocciato dalla Corte Costituzionale, la cui giurisprudenza è ormai piuttosto costante sulle linee di valutazione in ordine alla ammissibilità dei referendum. Linee di valutazione peraltro molto ampie, tali da permettere e anzi incentivare i referendum manipolativi.
Così scrive Valerio Onida (Corriere Giur., 1995, 7, 765).
A mio parere i passaggi «fatali» di questa giurisprudenza, che hanno contribuito più di ogni altra cosa alla distorsione dell'istituto referendario, sono stati due. Il primo è quello con cui la Corte, apparentemente (ma solo apparentemente) sviluppando il requisito della «omogeneità» del quesito, a tutela della libertà di voto che sarebbe compromessa dalla proposizione in unico quesito di più domande diverse, ha affermato che il quesito deve essere anche «chiaro» e «coerente», e che a tale fine deve risultare palese il risultato che i promotori si propongono di raggiungere. Ora, il referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione, tende di per sé ad un unico risultato, che è la cancellazione di una o più norme. Quel che succede nell'ordinamento a seguito di tale cancellazione è vicenda ulteriore, che non riguarda se non indirettamente i promotori del referendum... Pretendendo invece dai promotori l'univocità in ordine agli scopi dell'abrogazione, la Corte ha avallato ed anzi ha indotto o addirittura reso necessaria la formulazione di quesiti complessi ed elaborati, e ha incentivato la tendenza a fare dei quesiti referendari uno strumento di proposta legislativa positiva. Il secondo passaggio è quello con cui la Corte, di fronte a quesiti referendari relativi a leggi che disciplinavano la formazione di organi costituzionali... ha affermato che l'ammissibilità è condizionata al fatto che la proposta abrogazione lasci in vita una normativa «autosufficiente». Dunque non solo il quesito deve rendere esplicito a che cosa esso tende, ma deve proprio tendere a dar vita, come normativa «di risulta», ad un a legge in grado di essere applicata... A questo punto, come si vede, la strada dei referendum «manipolativi» non solo si è aperta, ma si è spalancata, e addirittura è divenuta talvolta un percorso obbligato...

Ma qui la questione è diversa: qui si tratta di un'operazione talmente manipolativa (oltre che del tutto disomogenea!) da rendere il quesito francamente propositivo. In altri termini: non si modifica un istituto esistente, si crea un istituto nuovo (la tutela reale nelle micro-aziende)! Né si può richiamare il precedente del referendum voluto da Rifondazione Comunista nel 2003: in quel caso, infatti, si trattava di estendere a tutti, in caso di licenziamento, la tutela reale all'epoca vigente; in questo, di ripristinare una disciplina previamente abrogata ampliandone per di più la platea di beneficiari.
E già mi immagino Matteo: "Se fosse passata la mia riforma, il referendum si sarebbe potuto tenere!". Di tutto questo, ovviamente, ricordatevi non solo alle elezioni, ma anche al momento di rinnovare la tessera sindacale.



(Per chi fosse interessato.
Per le precedenti pronunce sull'ammissibilità di referendum abrogativi: C. Cost., 6 febbraio 2003, nn. da 41 a 46, con n. Belletti in Giur. It., 2003, 2227 e Maio in Giur. Cost., 2003, 1, 301. 
Sui "requisiti" dei quesiti: C. Cost, 7 febbraio 1978, n. 16; C. Cost., 7 febbraio 2000, n. 50, con n. Filippetta in Giur. Cost., 2000, I, 387; C. Cost. 10 febbraio 1997, nn. 16, 28, 29 e 30, con n. Romboli in Foro It., 1997, I, 657; v. anche Carnevale, in Giur. Cost., 1987, I, 1, 308.
Per la dottrina in materia di parametri sull'ammissibilità: AA.VV., Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Milano, 1998; Calvano, L'omogeneità del quesito sul referendum costituzionale ex art. 4, legge costituzionale n. 1 del 1997, in Giur. Cost., 1998, 1, 417; Modugno-Zagrebelsky (a cura di), Le tortuose vie dell’ammissibilità referendaria, Atti del seminario svoltosi in Roma il 14 luglio 2000, Torino, 2001; Pagotto, Tra omogeneità e completezza del quesito ovvero l’insostenibile ruolo dei promotori del referendum abrogativo, in Giur. Cost., 2003, 2, 1126).

giovedì 15 dicembre 2016

Un governo a prova di NO. Le pastoie di Renzi.

Molto ci si è accalorati in questi giorni, nel dibattito politico e mediatico, in relazione alla nomina del governo Gentiloni (o Renzi bis, o Monti quater), stigmatizzando principalmente i comportamenti di chi, dopo aver bocciato la precedente legge elettorale di Camera e Senato da Giudice costituzionale, da Presidente della Repubblica ne ha prima controfirmata un'altra - con problematiche piuttosto simili - riferita alla sola Camera ed ora ritiene che la stessa, in quanto disomogenea rispetto alla disciplina riferibile al Senato, sia sostanzialmente inapplicabile.
Molto ci si è accalorati, e a ragione. Quello che però è ancora più interessante, a mio avviso, è che questo della legge elettorale è soltanto uno dei sintomi di una malattia che ha affetto gran parte degli atti del non rimpianto governo Renzi.

L'idea, malata, di poter normare interi settori presupponendo una riforma costituzionale non ancora definitivamente approvata.

Si è trattato di ingenuità? Oppure di un velato ricatto, come a voler mettere l'elettorato di fronte al "fatto compiuto"? O, ancora, di scarsa capacità legislativa?
Non lo so e sinceramente mi interessa poco. Mi interessano molto di più i risultati, sconcertanti, di questa idea balzana della gerarchia delle fonti del diritto, ma soprattutto i danni che il Paese ha subito e subirà di conseguenza.
Della legge elettorale si è già detto tutto. Aggiungo soltanto una precisazione. Chi vi dice che al Quirinale non hanno avuto scelta nel controfirmare l'Italicum, dal momento che altrimenti non vi sarebbe stata una legge elettorale applicabile, mente sapendo di mentire. Lo stesso testo della sentenza della Corte, infatti, ebbe cura di precisare che la precedente normativa, come modificata dalla pronuncia in questione, poteva comunque essere utilizzata in caso di imminenti elezioni: “la normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di Cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo»”.
Si possono fare però altri esempi. Tutti molto importanti.

Come si sa, il Jobs Act avrebbe dovuto reggersi su due pilastri: il primo - già realizzato appieno, tanto che "sarebbe impensabile tornare indietro" tanto da impedire fisicamente il referendum abrogativo onde evitare qualsiasi tentazione al popolino bue - relativo alla distruzione complessiva di qualsiasi tutela sul posto di lavoro; il secondo - rimasto un po' più indietro, diciamo - volto ad incrementare in modo significativo le politiche attive per formare e quindi (ri)dare un lavoro a chi non ce l'ha. A quest'ultimo fine, il nostro esecrato ex Presidente del Consiglio ha costituito un soggetto accentrato, l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (meglio nota come Anpal), senza considerare che - a Costituzione vigente - la materia rientra fra quelle a competenza concorrente fra Stato e Regioni.
Dunque l'Anpal c'è, ma non potrà fare la cosa principale per cui è nata, cioè gestire in modo accentrato e diretto i Centri per l'Impiego. A rimetterci, ovviamente, saranno soprattutto i disoccupati, che si consoleranno pensando che - in ogni caso - grazie ad anni di deflazione eurista in Italia il lavoro, politiche attive o no, comunque non c'è.
Ma i Centri per l'Impiego ci danno anche altre grandi soddisfazioni.
Sono circa 500, con quasi settemila dipendenti. Bene, questi enti, il cui funzionamento è sempre stato oggettivamente pieno di problemi, sono finiti in uno strano limbo normativo a seguito dello svuotamento delle Province previsto dalla legge Delrio. I dipendenti, poi, sono passati direttamente alle dipendenze regionali. Ora spetterà all’Anpal coordinarli; ma per fare questo dovrà con ogni probabilità stipulare una miriade di convenzioni con i vari enti locali coinvolti.
Il tutto, in un quadro normativo reso ancora più instabile dalla presenza-assenza delle Province, anche queste abrogate per legge ordinaria prima di essere cancellate per legge costituzionale, per di più surrettiziamente reintrodotte dalle Regioni in quanto soggetti intermedi assolutamente necessari per lo svolgimento efficace di alcuni compiti affidati agli Enti locali.
Sempre in materia di lavoro, c'è poi il capitolo dipendenti pubblici, oggetto di una delle marchette più sfacciate da parte del fu governo per tentare di vincere un referendum già perso.
Già... già... Per garantire l'aumento di cui tanto si sono beati dei sindacati oggettivamente beoti, servono più fondi. L'intesa del 30 novembre è solo una cornice vuota, da riempire col quadro: contenuti e, soprattutto, nuove risorse.
Scrive Il Fatto Quotidiano: "l'accordo politico siglato pochi giorni prima del referendum prevede 85 euro medi di aumento contrattuale per il triennio 2016-2018 e la modifica della legge Brunetta, nella parte in cui prevede la classificazione dei dipendenti pubblici in fasce di merito e stabilisce che il 25% degli statali giudicato meno meritevole non abbia diritto ad alcun incentivo. Ma, per prima cosa, non è detto che il nuovo governo si ritenga vincolato a quell'intesa. E, se anche decidesse di procedere su quella strada, la cornice che va riempita di contenuti e di risorse fresche. I fondi stanziati nella legge di Bilancio 2017 – meno di 900 milioni – anche sommati ai 300 milioni della precedente legge di Stabilità non sono infatti sufficienti per garantire l’incremento promesso: servono quasi 2 miliardi l’anno. [Inoltre], sul fronte normativo, per riaprire ufficialmente la contrattazione occorre il varo del nuovo Testo unico sul pubblico impiego...".
Ma guarda!
È come le ciliegie! Una tira l'altra!
Sì, perché - ma guarda un po' - il simpatico Testo Unico in questione non può essere varato, dal momento che la Legge delega che lo autorizzava (la famigerata Legge Madia) è stata recentemente dichiarata incostituzionale. Anche in questo caso, va da sé, perché si è evitato di richiedere al legislatore delegato una previa intesa con le Regioni, sperando - probabilmente - di risolvere il problema semplicemente rimuovendolo, grazie alla riforma del Titolo V.
Ma se il T.U. sul pubblico impiego non è stato ancora varato, al contrario molti altri decreti delegati derivanti dalla Legge Madia (confermata ovviamente nel medesimo dicastero, dopo una cotal prova) sono stati emessi. Tra questi, quello che impone a tutti gli enti locali la cessione della maggior parte delle proprie interessenze azionarie in controllate, collegate e partecipate, nonché - alle società che potranno restare in mano pubblica - l'obbligo di adeguare in modo significativo i propri statuti, entro fine anno, alle disposizioni del decreto.
Il rischio concreto è che le società modifichino la propria governance così come previsto dal D. Lgs. n. 175 del 2016 e che poi il medesimo D. Lgs. n. 175 sia abrogato o modificato dall'attuale governo, e che dunque le stesse società debbano di nuovo intervenire sui loro statuti, in una specie di gioco dell'oca assurdo e pericoloso per la loro tenuta economica.
E si potrebbe continuare.
Per esempio, si potrebbe ricordare come il governo che propagandava il "sì" al referendum per rendere più stringenti le norme sulla decretazione d'urgenza, si è visto tacciare di presunta incostituzionalità la riforma delle Banche Popolari anche per l'utilizzo dello strumento emergenziale in mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza. Anche in questo caso, comunque, il danno è fatto (in Veneto ne sanno qualcosa).
Questo è il governo, questo è l'uomo, che ha governato l'Italia per tre anni. Che, ancora, non restino soltanto macerie di questo disgraziato Paese dimostra non soltanto quanto grande sia stato il retaggio dei nostri nonni, ma anche come, in fondo, la virtù italica non sia del tutto spenta.
Sappiamo almeno resistere. E ce ne sarà ancora molto bisogno.

(P.S.: Sul Jobs Act ritorno a breve. Perché è veramente troppo scandaloso).

domenica 11 dicembre 2016

Montepaschi, l'ESM e la patrimoniale che verrà

Mi ero ripromesso di non parlare più del Monte dei Paschi, non perché non ne abbia voglia, ma semplicemente perché - pensavo - tutto era già stato detto. Che la cessione delle sofferenze in blocco ad Atlante ed il conseguente aumento di capitale da 5 miliardi di Euro (il piano Viola o, meglio, il piano Dimon, per intendersi) fosse cosa impraticabile era chiaro a tutti. Che qualunque possibilità non di risolvere, ma quantomeno di puntellare la banca passasse dalla conversione in azioni dei subordinati, era ugualmente intuibile dalle persone di buona volontà.


Chi, poi, aveva qualche competenza specifica, poteva addirittura arrischiarsi a prevedere le modalità di massima di questa conversione, e - probabilmente - azzeccarci (al netto dello stupro delle norme Mifid e della violenza psicologica ai disgraziati bond-holder).


Però c'è una questione importante da puntualizzare. E cioè che la stessa consapevolezza era anche in alcuni membri del governo, il Ministro Padoan in primis, i quali avevano già pronto, quest'estate, il decreto che probabilmente licenzieranno nei prossimi giorni.
Scrive Dagospia: "a dare il colpo di grazie sulle aspettative di Piercarlo Padoan di arrivare a Palazzo Chigi ci ha pensato Mario Draghi. La scelta della Bce di non concedere ulteriore tempo all'aumento di capitale del Montepaschi diventa una colpa per il ministro dell’Economia. Sebbene lui abbia fatta soltanto il prestanome di Renzi. Nei corridoi di via XX settembre era nota a tutti l'idea del ministro di intervenire con il sostegno pubblico per Mps. Ma a stopparlo è sempre stato il premierino, che aveva stretto un patto di ferro con Jamie Dimon, CEO di JpMorgan, e con Claudio Costamagna che lo aveva accompagnato a Palazzo Chigi".
Il suddetto premierino, nel frattempo, concedeva interviste situazioniste tipo questa.
Ora, a mio avviso la domanda fondamentale è: perché?
Perché Renzi - che è diventato premier quando già Montepaschi aveva un significativo problema di sofferenze, problema che lui ha peraltro contribuire ad aggravare in modo molto significativo introducendo il bail-in nel nostro Paese e dando degli NPL delle quattro banche risolte a dicembre una valutazione particolarmente bassa - ha deciso di ignorare i messaggi chiari del suo più importante ministro economico, affidandosi invece a un piano di salvataggio che sicuramente non avrebbe salvato nessuno (escluso il conto economico di chi glielo proponeva)?
Ognuno ha la sua risposta e io non pretendo di avere la verità in tasca. Ma, secondo me, la soluzione sta nella tempistica. Il bubbone, guarda caso, esplode subito dopo il referendum.
E questo succede, a mio avviso, perché Mps avrebbe dovuto rappresentare, nella strategia renziana, il bastone per il "sì" alla sua orrenda riforma costituzionale. La solita, vecchia, arcinota tecnica della paura: dei mercati, del bail-in, dell'ignoto, di qualsiasi cosa diversa dalle rassicuranti parole del premier ripetute urbi et orbi da tutti i canali televisivi. Detto in altri termini: da anni Mps è moribondo; Renzi l'ha scientemente ucciso per sfruttare a fine elettorali il lutto dei parenti.
Mi pare sintomatico che, fallito il tentativo di sfruttare il terrore delle folle (come nel Regno Unito, come negli Stati Uniti), il PD ripieghi su un patetico e grottesco piano B, secondo il quale tutto sarebbe andato bene (per noi), se anche il referendum fosse andato bene (per loro).
Ma... se nel quadro di una strategia politica si individua un "bastone", è probabile che non troppo lontano vi sia anche una carota.
L'articolo sopra citato di Dagospia continua: "era noto a tutti che i conti italiani fossero fuori linea. Ma Padoan aveva messo sul piatto della bilancia il suo nome e la sua parola per garantire che, una volta passato (e vinto) il referendum, il governo avrebbe introdotto i correttivi necessari durante l’esame della manovra al Senato. Renzi, però, ha pensato bene di dimettersi... Il risultato che la Commissione sta interpretando come il ministro dell’Economia non sia più in grado di rispettare la parola data. Per fair-play hanno chiesto che le correzioni dei conti pubblici su deficit e debito vengano prese entro marzo...".
Non so se è chiaro.
La legge di bilancio approvata da Renzi era uno specchietto per le allodole e le mancette elettorali erano destinate a sparire. Fortunatamente, l'aggravarsi del quadro politico e le dimissioni del premier hanno portato all'approvazione del testo così com'era, senza tante modifiche (peggiorative).
Come al solito, il ragazzo di Rignano aveva promesso senza voler, programmaticamente, mantenere; ed è paradossale che, per fare il gioco delle tre carte, contasse di utilizzare la seconda lettura di quel Senato che, a parole, voleva abolire (il tutto, va da sé, per obbedire supinamente a quella UE che, a parole, voleva combattere).

Basterebbe questo.
Ma qualcosa ancora stona.
Possibile che, veramente, gli occhiuti commissari europei si limitino a un rimbrottino e che se ne riparli, forse, a marzo?
L'altro giorno, ci siamo svegliati con lo scoop della Stampa
poi smentito un po' da tutti, compresi l'ESM e il Ministero dell'Economia.
Per tutta la mattina, onestamente sono stato nel panico. L'unica cosa che, a mente fredda, obiettivamente stonava di tutta la storia, oltre alla clamorosa incompetenza economica del giornalista che aveva firmato l'articolo, era la cifra irrisoria richiesta all'ESM.
Quindici miliardi, meno dell'1% del PIL. Quindici miliardi...
Magicamente, nelle ore successive, questi numeri iniziano a ripresentarmisi, sempre più spesso. Il 5 dicembre sono uscite le "pagelle" dell'Eurogruppo (quelle a cui si riferiva Dagospia nell'articolo citato sopra).
Come al solito, all'Italia spetta un cicchetto: "siamo d'accordo con la valutazione della Commissione secondo cui il bilancio è a rischio di non conformità... Prendiamo atto che secondo l'ultima valutazione della Commissione, lo sforzo strutturale dell'Italia nel 2017, per quanto riguarda la politica fiscale, impatterà per -0,5% del PIL, mentre è richiesto + 0,6% del PIL... Su questa base, sarebbero necessarie significative misure aggiuntive. Notiamo anche che una valutazione ex post delle linee esecutive del bilancio, che comprendono i costi aggiuntivi legati alla crisi dei rifugiati, le misure di sicurezza e i costi derivanti dai recenti terremoti, potrebbe permettere all'Italia di avere una minore, ancorché comunque significativa, deviazione dal percorso di avvicinamento al suo obiettivo a medio termine. Invitiamo pertanto l'Italia ad adottare le misure necessarie onde garantire che il bilancio 2017 sia compatibile con le norme del Patto di Stabilità e Crescita di natura preventiva. Il livello elevato del debito in Italia rimane un motivo di preoccupazione. Ricordiamo l'impegno dell'Italia ad utilizzare, nel 2017, entrate impreviste o risparmi di spesa imprevisti e intensificare gli sforzi in tema di privatizzazioni per portare il rapporto debito/PIL lungo un percorso discendente...".
Da -0,5% a +0,6% fa poco più di un punto di PIL. Per l'appunto, 15 miliardi di Euro mal contati. Ecco, allora, che non può che nascere un dubbio, anzi una consapevolezza.

I soldi all'ESM non servono per salvare Mps. Anzi, il salvataggio di Mps, o di qualche altra banca, serve per mascherare la richiesta dell'Unione Europea non soltanto, come al solito, di procedere sul solco delle privatizzazioni (che certo non risolvono alcunché a livello di bilancio, né migliorano la vita delle persone, ma in compenso ingrassano le tasche di chi si assicura i business più redditizi... a proposito: ora il business più redditizio rimasto in Italia è la sanità, gestita per lo più dalle Regioni... fate voi i collegamenti), ma anche o di tagliare selvaggiamente lo Stato sociale (che è la stessa cosa che privatizzare, ma i burocrati europei hanno tempo anche per cercare sinonimi) e, soprattutto, di introdurre nuove tasse.
L'idea è, questa volta, di non dare la colpa all'Europa, né ai tedeschi, ma a quegli zotici di italiani che hanno votato "no" al referendum. 

Qui c'è già tutto il programma del Governo Gentiloni. Allentamento della tensione sulle banche (fino a Basilea IV, quando salteranno definitivamente in aria e con loro l'Euro), cessione di qualche altro gioiello di famiglia (tanto questo è l'uomo che ha ceduto il mare più pescoso di Italia alla Francia), inasprimento della tassazione sugli immobili (via nuovo catasto) e sulle successioni (con l'applauso dei liberal imbecilli), se non bastasse patrimoniale.

Poi, un Paese impoverito, stanco, impaurito, probabilmente preda di tensioni sociali esorbitanti, andrà a votare.

martedì 29 novembre 2016

L'A,B,C, (e D,E,F,G) della Riforma, per gli indecisi

A pochi giorni dal voto, molti sono ancora gli indecisi su quale orientamento prendere in merito al Referendum costituzionale del 4 dicembre. Premesso che - lo ricordo - questo Referendum NON PREVEDE QUORUM, e dunque astenersi è quanto di peggio si possa fare (a meno che non siate Fabrizio Barca, per il quale tutte le Costituzioni sono uguali, come di notte tutte le vacche sono grigie), ho provato a buttare giù un piccolo dizionarietto della riforma, il più possibile scevro di opinioni e carico di fatti.


Abolizione del CNEL: il CNEL spende meno di 10 milioni di Euro all'anno. Cioè sostanzialmente nulla. In compenso, picchia duro sugli effetti socio-economici delle riforme del governo. Per il resto, v. alla voce: Casta, cricca, corruzione.

Bicameralismo perfetto: significa che un progetto o disegno di legge, per diventare legge vera e propria, deve essere approvato sia dalla Camera sia dal Senato con testi identici. Nell'attuale legislatura, quasi l'80% degli atti normativi hanno richiesto due sole letture, e sono stati approvati 266 leggi (cioè più di una a settimana) e 83 decreti legge. Più dell'85% di questi provvedimenti sono di iniziativa governativa. Il prof. Pasquino ha mostrato come nessun Parlamento - eccettuato quello tedesco - regge il confronto. Le ultime Leggi di stabilità e i vari decreti legge con cui il governo ha stravolto l'impianto fiscale e previdenziale del Paese sono stati approvati in meno di due mesi; riforme importantissime come la Buona Scuola o il Jobs Act rispettivamente in 3 e 8 mesi. Tra i testi più pregnanti di questo esecutivo, solo l'Italicum ha richiesto tempi particolarmente lunghi, a dimostrazione che la navette tra Camera e Senato, o l'insabbiamenti in commissione, si verifica quando c'è dissenso su un provvedimento all'interno della maggioranza, o quando un'iniziativa parlamentare - magari sostenuta dai cittadini - non s'ha da fare. Un articolo più ampio ed equilibrato lo potete trovare qui.
Conclusione: il Bicameralismo perfetto non ha inciso sul numero di leggi prodotte dal Parlamento, né sui tempi di approvazione, anche grazie al fatto che i tempi sono stati spesso ridotti dal governo con l'escamotage della fiducia o del decreto legge (istituti che restano, nella riforma). Quello che servirebbe al Paese, tuttavia, non è un maggior numero di leggi, bensì provvedimenti più efficaci e scritti meglio (la riforma Madia è l'ultimo clamoroso esempio). Per fare questo, andrebbe rivitalizzato l'approfondimento e il dibattito parlamentare, cosa che - per inciso - tenderebbe anche a sciogliere almeno in parte il nodo gordiano che ultimamente lega insieme, presso il governo, potere esecutivo e potere legislativo. La riforma va nel senso diametralmente opposto.

Casta, cricca, corruzione: come si sa, il nuovo Senato e la decostituzionalizzazione delle Province consentiranno di risparmiare una cifra compresa fra 50 milioni di Euro annui (stima senatore Malan) e 500 milioni di Euro annui (stima ministro Boschi). La Ragioneria dello Stato ha confermato i 50 milioni di Euro per quanto attiene il Senato, mentre ha dichiarato non quantificabili i risparmi derivanti dal taglio delle Province, soprattutto in ragione del fatto che - è chiaro fin dalla prima applicazione del c.d. Decreto Svuota Province - le Regioni hanno necessità di creare delle articolazioni amministrative intermedie fra sé e i Comuni (lo stesso dicasi, mutatis mutandis, per il CNEL, il cui costo peraltro è inferiore ai 10 milioni annui).
Due considerazioni. La prima. Questo che si vuole tagliare non è il costo della politica, ma il costo della democrazia; quando comanda uno solo, certamente le spese per il funzionamento del Parlamento sono assai inferiori. Il problema è che quando comanda uno solo, è più facile che sbagli (ve la ricordate l'ultima Guerra?). Dunque il verso costo della democrazia sono le decisioni sbagliate, non qualche diaria in più o in meno. La seconda, più importante. I 500 milioni di Euro del ministro Boschi rappresentano lo 0,06% della spesa pubblica annua italiana. Un nulla. Per di più, la spesa pubblica è PIL, cioè ricchezza privata (anche i Senatori che prendono lo stipendi tendono a spenderlo in negozi, bar, ristoranti e non a bruciarlo nell'Etna). Di contro, l'Italia è contribuente netta dell'UE per circa 7 miliardi di Euro all'anno (cfr. bilancio europeo 2007-2013), i quali - quando va bene - finiscono nelle tasche di persone che li spendono in Paesi diversi dal nostro e - quando va male, cioè spesso - nei bilanci delle banche tedesche e francesi (via ESM).
La riforma del Senato ridurrà i Senatori da 315 a 100, tra l'altro part-time, nel senso che si tratterà di consiglieri regionali che avranno anche questo incarico. È la lotta contro la casta. Sarà, ma a me pare il contrario. Qui si sta parlando di far sì che dei politici - i più squalificati dei poilitici nel sentire comune, quelli delle Regioni - eleggano, secondo bizantinismi totalmente incontrollabili da parte del popolo così detto sovrano (e non solo al popolo), alcuni di loro (insieme ad un limitato numero di sindaci) affinché questi siano anche senatori.
Il tratto dopo-lavoristico dell'incarico, oltre al fatto che ai senatori è concessa l'immunità parlamentare, fa presagire che gli eletti non rappresentino proprio il meglio delle classi politiche locali, anzi. Altro che lotta alla cricca, riduzione della corruzione, e via salmodiando. Questi, più che per decidere su una riforma costituzionale, sono slogan buoni per un libro di Stella e Rizzo.

Democrazia: poiché a questa riforma costituzionale si salda come un gemello siamese l'Italicum, è importante sottolineare che, nel caso di vittoria del sì, solo la Camera dei Deputati voterà la fiducia al governo e che tale Camera vedrà una maggioranza del 56% di eletti del partito che - pur rappresentando, magari, un quarto della Nazione - ha però vinto anche di un solo voto il ballottaggio. Se poi per il nuovo Senato si votasse oggi, la maggioranza avrebbe una rappresentanza probabilmente superiore al 60% del totale dei seggi.
Quindi, un quarto della Nazione, in linea di principio potrebbe: votarsi autonomamente tutte le leggi ordinarie che ritiene opportuno; eleggere da solo il Presidente della Repubblica (basterà il 60% dei votanti, neppure del totale degli aventi diritto); eleggere - al limite (a seconda delle scadenze dei diversi mandati) - cinque giudici costituzionali su quindici, cui si aggiungono altri cinque nominati dal Presidente della Repubblica.
Considerato che, come dimostrato sopra, l'indirizzo politico e la sua esecuzione sono ormai appannaggio del medesimo organo (il governo), la divisione dei poteri e il principio dei "pesi e contrappesi" sono completamente spazzati via.
Unico contraltare al partito di governo resterebbe la magistratura. Quanto male questa contrapposizione furiosa abbia portato all'Italia degli ultimi 20 anni è sotto gli occhi di tutti.

Europa: Dice Renzi che se vince il sì saremo più forti in Europa, che poi sarebbe l'Unione Europea. Tuttavia, approvando la riforma costituzionale, ci priviamo del principale strumento concessoci per - sempre per usare un'espressione del premier - poter "battere i pugni sul tavolo". Questo strumento è l'uscita dall'UE.
La riforma Renzi-Boschi, infatti, costituzionalizza l'Unione Europea (e la c.d. Legge Comunitaria), anzi impone al Senato l'obbligo di "concorrere all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea", partecipando "alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea".
Con questa norma, in sostanza, si cancellano cinquant'anni di giurisprudenza costituzionale sul dualismo degli ordinamenti italiano e comunitario, senza neppure citare i c.d. "controlimiti", che sempre per giurisprudenza costante la Corte Costituzionale ha considerato al di sopra delle norme europee.
Il risultato pratico potrebbe essere lo svuotamento dell'anima sociale della nostra Costituzione a vantaggio dell'iper-liberismo competitivo dei Trattati UE. V. alla voce: Fiscal Compact.

Fiscal compact: Qui sta il cuore della Riforma. Perché potenziare i poteri del governo (non scordiamo che questo non solo godrà di una importantissima maggioranza parlamentare - v. alla voce: Democrazia -, ma potrà anche contingentare i tempi per la discussione delle leggi più importanti e ridurre significativamente gli spazi di autonomia delle Regioni - v. alla voce: Governo regionale), perché introdurre un vincolo europeista assai più perspicuo di quello di cui all'art. 117, c. 1, Cost. attuale?
Per rendere effettivo il principio del "pareggio di bilancio" e con esso il relativo "vincolo monetario", principale grimaldello utilizzato per l'arretramento dello Stato a "Stato minimo" e per la privatizzazione di interi settori del nostro welfare, a partire dalla Sanità. D'altronde noi viviamo in un sistema in cui ci siamo privati del diritto di battere moneta (lo fa la BCE, cioè un organo c.d. indipendente, che poi significa NON ELETTO né soggetto ad alcuna RESPONSABILITÀ rispetto agli Stati dell'UEM: v. art. 105, Statuto BCE) e di monetizzare il deficit (art. 123 del TFUE).
Non solo: dice sempre Renzi, ma anche Gentiloni oggi a Berlino, che grazie alla nuova Costituzione le "riforme strutturali" saranno più celeri; e ormai penso che chiunque ha capito che "riforma strutturale" significa compressione dei diritti sociali dei lavoratori (minore stipendio, tramite Jobs Act; minore istruzione, tramite Buona scuola; minori pensioni, tramite Legge Fornero, ecc.).
L'attuale art. 81, Cost., approvato in fretta e furia ("fate presto!") dal governo Monti, dispone infatti: "lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte...... Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale".
L'attuale art. 97, c. 1, Cost. ugualmente prevede: "Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico".
Questi testi non sono modificati dalla riforma. Che però aggiunge all'art. 119, c. 4, Cost.: "con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell'esercizio delle medesime funzioni". E all'art. 116, c. 3, Cost.: "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia... possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse, sentiti gli enti locali..., purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio...".
Il disegno complessivo è spiegato dallo stesso governo nella Relazione accompagnatoria al d.d.l. oggetto di referendum: "lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall'internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale; le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione tesa a valorizzare la dimensione delle Autonomie territoriali e in particolare la loro autonomia finanziaria (da cui è originato il cosiddetto federalismo fiscale), e l’esigenza di coniugare quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad impegni internazionali: il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Carta, ma che non sono stato accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche".

Governo regionale: L'attuale Titolo V della Costituzione, con l'identificazione di materie proprie dello Stato, altre delle Regioni, altre ancora a competenza concorrente, ha effettivamente creato non poche incertezze, lentamente risolte - con grande acribia - dalle sentenze della Corte Costituzionale (che, negli anni, ha fatto molta chiarezza, ma non per il Ministro Madia che lamenta una "evoluzione giurisprudenziale" che forse, a ben vedere, non c'è).
Ora si vuole cambiare. Penso che nessuno, in Italia, non lo ritenga opportuno. Per questo una riforma equilibrata del solo Titolo V sarebbe passata a larghissima maggioranza parlamentare, senza necessità di referendum (e lo stesso dicasi per altri "tratti minori" della riforma). Qui, però, la legge costituzionale usa la "mano pesante", nel senso che riattribuisce allo Stato centrale competenze molto significative ed incidenti sia sull'autonomia del governo regionale, sia sulla vita delle comunità locali. Ad esempio tornano allo Stato:
- le "norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese  ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale" (la Legge Madia si era già spinta su questo sentiero, e infatti è stata sonoramente bocciata);
-  le "disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare", cioè i famosi costi standard della sanità (la differenza, nelle Regioni meno virtuose, è presumibile ce la metta il cittadino, con il ticket);
- la "previdenza complementare e integrativa";
- le norme su "produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia", nonché sulle "infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale". In sostanza, deciderà lo Stato centrale, e solo quello, cioè il governo, e solo lui, dove far passare autostrade e ferrovie, dove costruire porti, o gasdotti, o impianti chimici, o termovalorizzatori.
La riforma, inoltre, riesce nel difficile intento di produrre Regioni di serie A, Regioni di serie B e Regioni di Lega Pro. Le prime sono quelle a Statuto speciale (cioè quelle che, tra le altre cose e proprio a voler parlare di soldi, costano di più alla collettività), per le quali è previsto dalla riforma un inaudito iter di modifica dei relativi Statuti: servirà infatti una legge costituzionale previa intesa con la Regione medesima, che dunque avrà diritto di veto. Le seconde sono le "Regioni virtuose" di cui all'art. 116, c. 3, di cui si è detto. Le terze, tutte le altre. Il che si sposa male con il supposto intento della Riforma di rendere omogenee le condizioni di vita in tutto il territorio nazionale.


Io, stando così le cose, voto no.
Voto no perché la nostra Costituzione garantisce non soltanto la "libertà di" (libertà di parola, libertà di movimento, ecc.), ma anche la "libertà da" (dal bisogno, dalla disoccupazione, dalla paura di ammalarsi senza potersi curare). Questa riforma, come tutte le riforme ispirate dall'UE o che comunque si pongono nel solco dei principi dei Trattati UE, sovverte questo dato di fatto, limitando ciascuna delle succitate libertà in relazione ai vincoli di bilancio predeterminati al di fuori del circuito democratico.
Il diritto alla pensione, il diritto alla salute, il diritto al lavoro in tanto possono essere concessi e attuati in quanto lo Stato non produca deficit.
Le politiche industriali e del lavoro in tanto potranno essere attuate in quanto siano congruenti con l'obiettivo della BCE di mantenere basso il tasso di inflazione.
Il dibattito democratico in tanto potrà esprimersi in quanto non vi sia necessità - in mancanza di strumenti di politica fiscale e monetaria (l'Euro è uno per tutti) - di scaricare shock economici asimmetrici sui salari dei lavoratori (le note riforme strutturali).


Se poi non avete voglia di leggere tutto questo papello, potete anche seguire il consiglio del Civico 21 (quattordici minuti illuminanti).

venerdì 25 novembre 2016

Il CNEL e l'imbarbarimento del messaggio politico

Quando studiavo, non c'era Organo costituzionale che mi stesse più sulle palle del CNEL.
Non capivo proprio cosa fosse: "è composto... di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa", "è organo di consulenza delle Camere e del Governo", "può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge". Ad uno studente di giurisprudenza del primo anno (per di più digiuno di nozioni macroeconomiche, oltre che di vita reale) sembra di leggere un testo di Averroè (ovviamente in lingua originale).
Nel corso degli anni, il mio giudizio non è cambiato. Per dire: De Rita, Larizza, Marzano sono tutti personaggi che non mi hanno mai ispirato particolare simpatia.
Però, come sempre mi accade, quando vedo sparare impenitentemente su un cadavere, mi si risveglia dentro il Francesco Ferrucci e sento la necessità di dissociarmi. Subito e nettamente.



Ma il rispetto dov'è finito? La correttezza istituzionale dove si è nascosta? La vergogna! Sei un politico di professione che non ha mai lavorato un giorno fuori dalle istituzioni - cosa peraltro commendevole, ci mancherebbe altro - e ti permetti di additare altri al pubblico ludibrio, di parlare di "casta", di "tagli di poltrone", di "enti inutili", di "politici"?
Concepisci una riforma della Costituzione inqualificabile, tutta volta a ridurre gli spazi democratici a favore delle istanze lobbistiche della grande finanza e dei tecnocrati dell'Unione Europea (che poi sono la stessa cosa), per raccattare una maggioranza parlamentare che te la voti ti inventi un diritto di veto perenne a favore delle Regioni a statuto speciale, disegni un sistema di elezione del nuovo Senato che non funzionerebbe neanche in un condominio, e te la prendi col CNEL?
Viene quasi da pensare che ci sia qualcosa di più. Che Matteo nostro, uno che notoriamente non porta rancore, non abbia apprezzato certe analisi.

E comunque è troppo facile parlare solo per slogan. Per macchiette. Troppo facile offendere, insinuare, polemizzare, fingere, spararla più grossa possibile. L'unica risposta possibile a questo comportamento anti-istituzionale è allora quello di Giorgia Meloni, l'altra sera, da Vespa, che dopo essere stata annoverata fra gli eletti di Forza Italia (e non nelle liste di Alleanza Nazionale, Partito delle Libertà e Fratelli d'Italia) si inalbera leggermente, e spiattella nel muso al nostro amato Presidente un bel "bugiardo".


Ma alla sullodata puntata di Porta a Porta è successo anche di peggio. Il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, quella che ha elaborato i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) scordandosi però la relativa copertura, e che pertanto - così, per sicurezza - ha partorito in clinica privata, si è lanciata in un triplo salto carpiato con avvitamento verbale, collegando direttamente il sì alla riforma costituzionale e migliori cure ai malati di diabete.
E non era la prima volta.



Il Ministro fa intendere che le cure si livelleranno verso l'alto, ma non spiega dove le Regioni, che hanno come obiettivo il pareggio di bilancio (art. 97 attuale) e che devono essere, nella loro gestione, "virtuose" (artt. 119 nuovo), prenderanno le necessarie risorse. Metteranno ticket, chi può pagherà (o si farà l'assicurazioncina alla Unipol, ché non si sa mai), chi non può si curerà meno, mentre lei all'Ospedale S. Pietro una cameretta la troverà sempre.
Soldi dallo Stato, neanche a parlarne...


Campagna elettorale sulla pelle dei malati. Il peggio del peggio, incommentabile. Per questo mi affido ad alcune riflessioni scritte da chi ha idee completamente diverse dalle mie (per esempio in materia di aborto), ma mette bene in evidenza la bassezza di chi crea false speranze in soggetti per definizione deboli, esponendoli alla disillusione o - peggio - alla disperazione.

Allora, in fine dei conti, quello che resterà per sempre imputato a Renzi non sarà tanto il Jobs Act, o la Buona Scuola, o tutte le altre disposizioni che hanno distrutto il sistema giuridico e sociale di questo Paese, quanto piuttosto di aver distrutto - in una Nazione storicamente divisa, a partire dalle date fondative della Repubblica - l'unico punto di sintesi condiviso, cioè la Costituzione. Che passi il sì o che passi il no, dal 5 dicembre sarà la Costituzione di alcuni, non più di tutti.

martedì 15 novembre 2016

L'Euro finisce!

Alberto Bagnai ha da tempo dimostrato che l'Euro finirà ad esito di una terrificante crisi bancaria (il post completo lo potete leggere qui).
"Il botto finale potrebbe effettivamente presentarsi sotto forma di crisi bancaria in un paese grande... In termini finanziari il paese più suscettibile di innescare una crisi risolutiva resta l'Italia, per il semplice fatto che è, fra i grandi, il paese nel quale la qualità del credito si è deteriorata di più e più rapidamente... Dopo la botta del 2009 (inevitabile, data l'entità del crollo statunitense) il governo italiano, come quello spagnolo e quello francese, erano riusciti ad arginare la situazione. Fra 2008 e 2009 c'è uno scalino nella deteriorazione dei crediti erogati, ma fra 2009 e 2010 la situazione sostanzialmente si stabilizza. Dal 2011, però, con l'arrivo di Monti liberatore, per noi è una catastrofe...".

BENE. SECONDO ME, CI SIAMO.

Qualche mese fa, sulla scorte di quella lezione, avevo azzardato una previsione di massima.
Le cose sono andate per un verso più lentamente (il referendum si terrà a dicembre), per un altro più velocemente (la crisi di Montepaschi). Il che, però, crea una peculiarissima convergenza: la (auspicabile) crisi politica, la (più o meno) connessa crisi del debito pubblico e la (terribile) crisi bancaria potrebbero verificarsi tra fine 2016 e inizio 2017, tutte insieme.

La crisi bancaria
Montepaschi deve cedere 27 miliardi di sofferenze ad un prezzo di circa 9 miliardi. Una parte, per un controvalore di un miliardo e mezzo (la tranche mezzanine), se la dovrebbe comprare Atlante; un'altra (la tranche junior), più o meno per lo stesso controvalore, sarà regalata agli azionisti attuali della Banca; il resto, press'a poco 5 miliardi, sarà ceduta sul mercato, previo ottenimento della GACS e rimborso di un prestito ponte da parte di JP Morgan.
Per coprire gli interessi e le commissioni dovute all'Istituto americano, nonché le minusvalenze derivanti dalla cessione delle sofferenze a prezzo inferiore a quello di bilancio, e per ricostituire il capitale richiesto dalla Vigilanza europea, Montepaschi - tra dicembre 2016 e giugno 2017 - lancerà un aumento di capitale da 5 miliardi.
Il mercato tutto questi soldi non è disposto a darli.
Per questo, le alternative sono soltanto due: o gli attuali obbligazionisti subordinati (compresi i piccoli risparmiatori cui furono affibbiati più di 2 miliardi di upper Tier 2 al tempo dell'acquisto di Antonveneta) convertono almeno una metà degli oltre 4 miliardi di obbligazioni in loro possesso e, nel frattempo, il fondo del Qatar accetta di fare da anchor investor per almeno un paio di miliardi, oppure il Consorzio di garanzia si sfila e si va al bail-in.
In pratica: o burden sharing e svendita all'estero, o bail-in vero e proprio.
(Ricordo che qatarioti non sono samaritani. Si copriranno, come fatto con Barclay's. Ricordo anche che l'art. 2358, c.c., non è stato ancora abrogato).
Stamattina, per dire, si leggevano amenità di questo genere.
La lista, per chi fosse interessato, è questa (al netto - per il momento - del Fresh II, strumento talmente purulento che neppure la Banca riesce a capire cosa farne).


Poi c'è Unicredit, che deve vendere Pekao, Pioneer e una ventina di miliardi di sofferenze, poi trovare tra i 10 e i 15 miliardi per l'aumento di capitale (di cui una buona metà cash).
Miliardi che, anche in questo caso, il mercato non è disposto a sborsare.
Al contrario che per Mps, però, Unicredit ha già il cavaliere bianco. Si tratta di Société Générale, che (Antitrust permettendo) ne farà un sol boccone.
Un'altra società francese che entra a gamba tesa nel mercato italiano, come Axa per Generali (indipendentemente dalle smentite), come Vivendi per Mediaset e Telecom, come - in passato - Lactalis per la risanata Parmalat. Quando qualcuno parla di Euro 1 ed Euro 2, magari il secondo con i Paesi del Sud compresa la Francia, faccia un pensierino su queste dinamiche.
Non finisce qui.
Capitolo 4 banche oggetto di risoluzione lo scorso dicembre: è passato un anno ed è chiaro che le famose good bank non valgono assolutamente nulla. I geni che hanno pensato il bail-in, infatti, fra i tanti errori commessi, hanno aggiunto anche l'idea che il cliente buggerato da un Istituto potesse continuare a servircisi, soltanto perché qualcuno aggiunge un "nuova" all'insegna.

Del Veneto non ne parliamo: l'unica idea per salvare due banche fallite è fonderle insieme. In modo da fare un botto ancora più grosso. Meravigliose le parole - quasi poesia - di un giornale economico che di crisi se ne intende: "certo è che occorre fare presto [è una fissa: N.d.R.]. La Bce è in pressing, e così ha fatto anche nel corso di un incontro avvenuto la scorsa settimana con Alessandro Penati. Nessuna indicazione specifica in termini di strategie, ma Francoforte preme perché vuole evitare il rischio di «zombie-bank» [rischio...: N.d.R.]. Da qua la richiesta, a valle di alcune ispezioni sui crediti delle due banche, di ulteriori accantonamenti sugli Npl, che potrebbero comportare 2 miliardi circa di nuove provision [in realtà, saranno poco poco 2 miliardi e mezzo: N.d.R.], con effetti pesanti sul capitale delle due banche. Il problema sarebbe stato dettagliato anche nella bozza di lettera SREP inviata a fine settembre ad entrambi gli istituti, che si sono messe subito al ragionare sul da farsi. Certo è che le due banche sarebbero costrette a una ricapitalizzazione, anche se non è chiaro con quali capitali".
No, non è chiaro per niente.
Nel frattempo, quello che inizia a essere piuttosto chiaro è che nessuno, dico nessuno, è più al sicuro.
Tralascio le frattaglie: la Popolare di Bari che a breve si trasformerà in S.p.A. bruciando i risparmi di chissà quanti azionisti, la Popolare di Marostica che - grazie ad anni di falsi in bilancio - sta trascinando in un gorgo senza fondo la bolzanina Volksbank (anche questa in procinto di diventare una S.p.A.), la Sparkasse di Bolzano che - dopo aver dovuto effettuare un aumento da 270 milioni di euro - ha intentato un’azione di responsabilità contro i vecchi amministratori, e così via.
In sostanza. Il nostro sistema bancario è al collasso (e i presumo minori requisiti SREP che saranno diffusi a fine mese non credo cambieranno la situazione).

Crisi politico-finanziaria
Premetto che, secondo me, la risalita dello spread non ha nulla a che vedere con le vicende politiche italiane, se non che - così come accaduto prima della Brexit e della elezione di Trump - agiscono sui mercati certe "manine" il cui interesse è essenzialmente quello di seminare il panico (senza capire che la maggior parte delle persone, ormai, di soldi da parte non ne hanno più, e comunque quando vota è così esasperata che se ne sbatte).
Il nuovo project fear è già partito.
(Questo collabora con IBL. Per dire).
Ma, diciamo, è nato morto.

Tuttavia, indipendentemente dal risultato del referendum (anche e forse soprattutto se - come inizio a temere - vincerà il sì), la situazione dei conti pubblici italiani andrà sicuramente a deteriorarsi nei prossimi mesi, indipendentemente dal fatto che - come pare - la Commissione Europea (chi ha voglia, si può leggere il documento) decida o meno di riporre l'austerità tra i ferri vecchi (almeno per un po').
Il perché lo spiega molto bene e in poche righe, sulla propria pagina Facebook, Paolo Cardenà, il cui blog (da cui è tratta anche l'immagine qui accanto) consiglio a tutti caldamente.


In questo scenario (cui si aggiunge la sempre maggiore ostilità dei Paesi del Nord a politiche di QE da parte della BCE, stante sia la sofferenza del sistema pensionistico tedesco in un ambiente di tassi prossimo allo zero, sia la incipiente inflazione nella parte core della UE: vedi qui), le alternative per il governo sono poche e comportano tutte l'utilizzo della leva fiscale.
Che, a sua volta, provocherà non soltanto ulteriore deflazione, ma anche un altro peggioramento della situazione del sistema bancario, messo non tanto bene (come detto sopra). La frase di Bagnai a inizio post dovrebbe ricordare che se oggi ci troviamo con le pezze in determinate zone dei calzoni è soprattutto perché Monti ci ha tanto liberato, come titolò un altro giornale che, ci auguriamo, sparirà presto e definitivamente dalle edicole.


La spirale, che appare inarrestabile, può essere fermata soltanto al di fuori delle regole europee. Oppure sarà la catastrofe. Per questo non sono del tutto sicuro che Renzi - nonostante tutta la propaganda che sta mettendo in piedi - auspichi davvero di vincere il referendum (cosa che pure, forse, succederà), né di restare in sella in caso di no. Come nei migliori casi di eterogenesi dei fini, la bocciatura della riforma potrebbe essere il suo modo per salvarsi dall'abisso.

Qualcuno l'uscita dall'Euro (o la dissoluzione dell'Euro) - che, ripeto, è ormai imminente, diciamo nel 2017 - la dovrà gestire e non sarà una passeggiata.

Non è detto che il nocchiero di questa traversata sia anche colui che se ne avvantaggerà politicamente, nel medio periodo.

venerdì 4 novembre 2016

Regole bancarie a geometria variabile (a ciascuno il suo)

Per correr peggior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, o almeno spero. Perché trattare la materia mi richiede davvero un grande sforzo, senza per questo aver alcunché di particolarmente attraente. Però, come nella più famosa Cantica, anche qui si tratta di purgare, tra i tormenti, peccati assai gravi. Quelli del sistema bancario, soprattutto... del Nord Europa.
Ripartiamo da principio.
Anche grazie alla subalternità della nostra classe dirigente, nel 2014 nasce ufficialmente il c.d. SSM, cioè la struttura regolamentare mediante la quale la BCE diviene Autorità di Vigilanza per le 130 banche più importanti d'Europa (cioè praticamente tutte quelle importanti, escluse le banche locali tedesche, le quali - come si sa - stanno in un mondo a parte).

Primo atto della nuova struttura è il c.d. comprehensive assessment ("valutazione approfondita"), "esercizio non contabile" basato su due pilastri: (i) la revisione della qualità degli attivi (asset quality review, o AQR) allo scopo di verificare se il capitale "di migliore qualità" (il famigerato common equity tier 1, o CET1) delle banche fosse adeguato a fronteggiare la rischiosità degli asset detenuti; (ii) gli stress test, volti a verificare la "resistenza" delle banche a due scenari economici, uno "di base" e l'altro "avverso".
Non c'è bisogno di ricordare che:
1. quanto al punto (i), la revisione degli attivi si risolse soltanto in un occhiuto ricontrollo degli impieghi, con conseguente esplosione delle sofferenze, soprattutto nei Paesi, come l'Italia, in cui maggiore era la propensione bancaria a prestare a privati e imprese
2. quanto al punto (ii), "nel caso italiano lo scenario [avverso risultava] molto sfavorevole perché ipotizza[va] una grave recessione per l’intero periodo 2014-16, dopo quella già sofferta dall'economia italiana nel 2012-13, che faceva seguito a quella del 2008-09, [e] ipotizza[va] inoltre un riacutizzarsi della crisi del debito sovrano" (Banca d'Italia dixit)
Risultato: aumenti di capitale esorbitanti in Italia, ulteriore riduzione del credito alle imprese, avvitarsi della crisi su se stessa.

Secondo atto (definito anche pillar 2): lo SREP (Supervisory Review and Evaluation Process, "processo di revisione e valutazione prudenziale").
In soldoni, si tratta di un processo valutativo che, partendo dall'analisi di tutti i rischi aziendali, ivi compresi quelli relativi alla governance e ai controlli interni, giunge ad individuare un livello di capitale "prudenziale" minimo in ragione degli attivi della banca, come di consueto ponderati per la loro rischiosità intrinseca (RWA: Risk-Weighted Assets).
Senonché, anche in questo caso, la fregatura è dietro l'angolo. Come tutti i rapporti (CET1 / RWA), la correttezza del risultato finale dipende in egual misura dalla correttezza tanto del numeratore quanto del denominatore. Ora, per un caso assolutamente fortuito, finora la BCE si è concentrata molto sulle modalità di "pulizia" del numeratore (per esempio facendo venire i capelli bianchi al legislatore ed al regolatore italiani in materia di valutazione dei crediti per imposte anticipate per perdite su crediti, o DTA: qualcuno avrà sentito parlare del compromesso danese), mentre ha lasciato un po' da parte l'altra questione, cioè l'armonizzazione delle RWA (che, per stessa ammissione della BCE e del FMI sono calcolate in modo molto differente da Paese a Paese).
O perché mai questa negligenza da parte degli occhiuti regolatori? A pensar male...
(Apro parentesi.
In realtà Deutsche Bank, senza qualche aiutino, non passava neppure gli stress test taroccati della BCE.
Chiusa parentesi).

Però a tutto c'è un limite. La questione è stata così posta con forza al Comitato di Basilea (di cui, si badi bene, fanno parte le banche centrali di quasi tutto il mondo, non soltanto quelle europee). In breve, le idee del Comitato per armonizzare la valutazione degli attivi - idee espresse in vari documenti, qui ad esempio uno particolarmente significativo - si muovono lungo quattro direttrici: (i) riduzione della possibilità di utilizzare modelli non standardizzati di valutazione delle RWA (v. qui il testo completo); (ii) revisione dei modelli standardizzati di valutazione delle RWA; (iii) revisione del trattamento del "rischio sovrano" (cioè del rischio insito nei Titoli di Stato); (iv) attenzione ai rischi di mercato e operativi connessi a determinate operazioni che, nel corso della crisi, hanno comportato impatti significativi sui CET1 delle banche.
Siccome l'antifona è abbastanza chiara, alcune banche centrali (in particolare, le banche olandese, inglese e svedese) si sono già mosse, per iniziare una specie di phase-in fatto in casa, da qui al 2019, quando Basilea IV sarebbe dovuta entrare in vigore. Sì, perché per ora la valutazione dei rischi bancari è molto più lasca nel rigidissimo Nord Europa rispetto al corrottissimo e mandolinaro Sud.
Chi non si è mosso, sono la Banque de France e la Bundesbank.
La Banque de France.
E la Bundesbank.
Nel frattempo, la BCE cazzeggia di MDA (il maximum distributable amount), di limiti (impliciti) minimi di copertura delle sofferenze (famosa la lettera, ai limiti del delirio, inviata a Banco Popolare e Popolare di Milano in vista della fusione), anche di una qualche forma di armonizzazione degli RWA, appuntandosi però - ma guarda un po' il caso - in particolare su una delle questioni sollevate dal Comitato di Basilea, e cioè la riconsiderazione del rischio insito nel debito sovrano. Ovviamente, un'altra coincidenza...
(Che poi vuol dire questo:
Ed è anche giusto, dal momento che gli Stati che aderiscono all'UEM sono tra i pochissimi, al mondo, a non poter battere liberamente moneta.
Chiusa parentesi).

Il treno, comunque, ormai è partito e fermarlo è difficile. C'è già chi inizia a tremare (non solo Deutsche Bank, ma anche Lloyds Bank, Barclays, UBS, Barclays, HSBC, BNP, ecc.). Alcuni analisti hanno parlato di aumenti di capitale per qualcosa come 150 miliardi di Euro in tutta Europa. Potrebbe essere la crisi bancaria finale, che porterà - più che l'Italia ad uscire dall'Euro - l'Euro ad uscire dall'Italia (oltre che dalla Storia).

Ora, visto che, per una volta, si rischia di mettere in difficoltà i belli ed i buoni, vi è stata l'immediata alzata di scudi non soltanto da parte degli esponenti delle banche europee, ma anche da parte dei Ministri delle finanze dell'Eurozona, gli stessi che hanno plaudito agli stress test "a denominatore casuale" ed hanno introdotto senza colpo ferire la disciplina del bail-in.
L'ineffabile Schäuble ha di recente espresso, bontà sua, "viva preoccupazione", poiché un irrigidimento ulteriore delle regole rischierebbe di penalizzare le banche europee più di quelle americane; secondo Schäuble perché gli Istituti europei sarebbero maggiormente indebitati rispetto a quelli statunitensi in quanto maggiormente esposti nel sostegno dell'attività economica delle imprese, in realtà perché regole più stringenti sul calcolo delle RWA gli americani le hanno già. Il Ministro ha infine proposto di differenziare gli standard di calcolo a per aree geografiche; si presume che, nella sua testa, tutto quello che c'è da togliere al Nord possa tranquillamente essere riaddebitato al Sud; è la via tedesca ai trasferimenti all'interno dell'Unione.
Lo fanno soprattutto per noi, tant'è che subito si è trovato qualche corifeo anche nel bel Paese là dove 'l sì suona. Anche Philippe Bordenave, uno dei principali esponenti di Bnp Paribas (ma guarda tu il caso), e Douglas Flint, Presidente di Hsbc (vedi un po'), si sono stracciati le vesti perché le norme di Basilea IV "andranno a svantaggiare le economie che dipendono maggiormente dal sistema bancario e i Paesi con i mercati finanziari meno sviluppati".
Nel coretto generale non poteva mancare l'ineffabile Patuelli (che, mi pare, non si stracciò le vesti per l'introduzione del bail in).



Il risultato pratico di questo fuoco di fila è che Basilea IV, la cui struttura regolamentare sarà pronta già nel corso del 2017, non entrerà in vigore prima del 2019, se non dopo. O forse mai. Nel frattempo, però...

1) ...la BCE inizia ad abbassare la soglia SREP delle banche, "anticipando" l'entrata in vigore di normative più penalizzanti. BMN, una banca spagnola tra l'altro con coperture ridicole sui crediti problematici (la metà del sistema spagnolo, press'a poco), ha avuto in regalo qualcosa come 2 punti percentuali (da 10% a 8%!). Un paio di punticini sono stati regalati, di recente, anche a BNP. Non è difficile immaginare che, presto, lo stesso andazzo sia utilizzato per tutti (o, più probabilmente ancora, per molti).

2) ...Commissione e Parlamento Europeo mettono a punto questo bel documentino (con punte di dadaismo tipo: "considerando che i coefficienti patrimoniali e di liquidità delle banche dell'UE sono costantemente migliorati nel corso degli ultimi anni; che i rischi per la stabilità finanziaria, tuttavia, rimangono; che la situazione attuale richiede cautela al momento dell'introduzione di modifiche normative"; oppure: "considerando che nessun Paese al di fuori dell'Eurozona ha ancora espresso la propria volontà di aderire all'Unione Bancaria").


In sostanza, il cuore del discorso (che vi consiglio vivamente di leggere per intero, tanto è breve) - dopo la richiesta agli Stati membri di peggiorare ulteriormente le legislazioni in tema di insolvenza (cioè di espropri) e l'inopinato ricorso alla dott.sa Arcazzo ("stimolare la crescita per meglio contrastare gli NPL") - è di nuovo rivolto proprio al Comitato di Basilea: aspettiamo con interesse i risultati del Comitato in materia di riconsiderazione del rischio sovrano; non si azzardi invece a rivedere tutto il sistema di calcolo delle RWA, perché se le banche tedesche o francesi, povere stelle, dovessero fare ulteriori aumenti di capitale, scateneremo una bella campagna di stampa parlando al solito di riduzione del credito e difficoltà delle piccole imprese. Non bastasse questo, siccome tutti i Salmi finiscono in Gloria, qualche parolina sull'EDIS (cosa di poca importanza, come si sa), che è tanto importante signora mia, ma lo facciamo solo quando non ce ne sarà più bisogno (§§ 19 e 21).

Perché - in sostanza - le regole per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano, per le banche del Nord Europa, addirittura, non si scrivono.