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martedì 15 dicembre 2015

Interludio: lavoro in azienda e codice (da Stato) etico

Normalmente, in questo blog, si fa il tiro al piccione al Jobs Act (questo, a proposito, è da intenditori). Oggi, però, vorrei parlare di qualcosa di completamente diverso.
Vi ricorderete tutti il caso di quella signorina inglese dallo scarso senso dell'umorismo, che - prima di partire per il Sud Africa - scrisse un tweet non proprio condivisibile:


Durante le 12 ore di volo, la battutaccia era stata ritweettata oltre 3.000 volte, ripresa dai media di tutto il mondo, oggetto di risposte al vetriolo. Il Daily Mail ha ripreso l'autrice all'arrivo all'aeroporto di Città del Capo sconvolta, mentre parla al telefono. Sia il tweet, sia l'account sono scomparsi immediatamente, per sempre.
La storia è stata raccontata un miliardo di volte e ci sono stati articoli, anche molto acuti, in merito a come un social network possa distruggere la vita di una persona. Io, però, nel caso di specie, mi voglio concentrare su un singolo aspetto della vicenda, cioè che Justine Sacco, per aver scritto un'idiozia su Twitter, è stata licenziata. Il suo datore di lavoro, infatti, ha "bollato il comportamento della sua dipendente come 'scandaloso' e ha assicurato che avrebbe preso 'misure appropriate'" (ancora il Daily Mail).
Tutta la faccenda mi è tornata in mente l'altra sera leggendo un articolo, pubblicato su una prestigiosa rivista giuslavoristica, di Paola Salazar (avvocato milanese che tiene un blog assai interessante).
In breve: l'articolo dell'avv. Salazar parte dal caso di un lavoratore licenziato per aver postato sulla propria pagine Facebook "espressioni offensive riferite sia alla società datrice di lavoro, sia... alle colleghe definite... MILF". (Sì, lo so, tutti a guardare il link... è solo wikipedia). La sentenza è il pretesto per considerazioni più ampie, tra cui quella che definisce il rapporto di lavoro
non più solo scambio tra le due obbligazioni principali 'prestazione lavorativa' e 'retribuzione', bensì scambio tra... "capitale intellettuale" e... "benessere e valori" nel quadro del complesso organizzato dell'impresa... Risulterebbe quindi ammissibile chiedere al lavoratore, in questo mutato contesto, di non adottare - anche nella vita privata - comportamenti non coerenti con l'obiettivo di quel 'benessere condiviso'.
Sempre secondo l'avv. Salazar, poiché la giurisprudenza ha talvolta ritenuto che l'ingiuria o la diffamazione non gravi non integrassero un giustificato motivo di licenziamento, risulterebbe
opportuna e rilevante l'implementazione del Codice disciplinare interno... nonché la redazione di Linee Guida, Regole di comportamento utili a gestire anche tali nuovi comportamenti rivendendo il Codice Etico, i Regolamenti e le policy interni...
Ora, capisco benissimo che le intenzioni dell'avv. Salazar sono buone e che il suo discorso, letto nell'intero contesto dell'articolo, è anche condivisibile; tuttavia, estremizzata, l'idea che un'azienda possa richiedere, al di fuori del luogo di lavoro, non soltanto certi comportamenti, ma addirittura determinati "set di valori", mi pare un tantinello antidemocratica.
Certo, mi si dirà, la giurisprudenza ha già chiarito che le regolamentazione aziendali non possono comunque essere lesive della libertà e della dignità della persona (famoso il caso "della minigonna" presso Pret. Milano, 12 gennaio 1995, annotato da G. Pera... uno che in facoltà ci veniva sempre doppiopetto e farfallino) e che, in ogni caso, vi è ormai per legge assoluta parità di trattamento tra le persone sul posto di lavoro, indipendentemente dalla razza, o dall'origine etnica, o dalla religione, o ancora dalle convinzioni personali, età, orientamenti sessuali. E mi si ricorderà anche che, almeno per un altro po', la Costituzione mette dei paletti in materia.

(Parentesi. Io, della Costituzione, me ne impipo. Come Matteo.
Chiusa parentesi).

Ma qui il punto è un altro e attiene alla libertà dell'individuo di esporre le proprie idee per quanto le stesse siano non condivisibili o addirittura odiose. In altri termini: è veramente giusto che la signorina Sacco sia stata licenziata per aver espresso, fuori dal proprio contesto lavorativo, un'opinione razzista? Non è, tra l'altro, il solo caso di licenziamento... o di "strane dimissioni"... per motivi ideologici, sconnessi da qualsiasi rapporto col posto di lavoro:
Dice: sì, ma i licenziamenti non sono per violazioni di chissà quale codice etico, bensì per motivi reputazionali, connessi alle campagne stampa contro queste persone (poi ci sono anche i casi opposti, ma lasciamo stare). Risponde: è vero, per questo non sembra il caso di dare appigli giuridici a certe pratiche. Anzi: la legge dovrebbe fare da scudo all'ordalia mediatica che si abbatte su questo o quel lavoratore.
E poi, oggi si tratta di razzismo, o di misoginia. Domani, magari, di antieuropeismo, di scarso affetto per l'ordoliberalismo imperante, per un certo attaccamento - così âgé, signora mia - per questo vecchio arnese definito democrazia. Far definire l'etica alle imprese (mi si passi il termine, questo davvero âgé: il capitale) è un discreto metodo di controllo sociale.
ItaliaOggi del 19 novembre 2015 ospita la consueta paginata filo-tedesca di Roberto Giardina, in cui si racconta (con un certo tono di compiacimento) che Matthias Matussek, "61 anni, editorialista del conservatore Die Welt, su Facebook ha scritto che, dopo quanto era avvenuto in Francia, si sarebbe dovuto vedere con altri occhi l'invasione di Flüchtlinge...: un milione entro Natale, di cui 300 mila, secondo lui..., non controllabili, e tra loro si possono nascondere potenziali terroristi", e che per questo è stato licenziato. Il motivo? "Con le sue parole, si metteva sulle posizioni di Pegida, il movimento razzista, e su quelle di AfD... che, se si votasse domani, entrerebbe al Bundestag con quasi il 10%". Ed ecco il gran finale: "Le sue opinioni coinvolgono inevitabilmente anche il quotidiano del gruppo Springer... Ci sono dei limiti: la Cancelliera può sbagliare, ma non va attaccata in modo populista".
La signorina Sacco ha scritto un'idiozia. Ma, appunto, una. Matussek una sua opinione. Ma, appunto, sua. Licenziati, solo per questo.

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