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martedì 29 dicembre 2015

Ancora su banche e debito (poi basta)

Leggo sull'ottimo sito "voci dall'estero" l'ennesima proposta del Ministro Schäuble volta, in questo caso, a creare un "meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani" (l'articolo in lingua originale, di Bastasin, lo trovate invece qui). In sostanza, al fine di evitare qualsiasi condivisione dei rischi fra diversi Paesi dell'Eurozona, si prevedrebbe un sistema di ristrutturazione dei Titoli degli Stati che si rivolgano al MES, volto ad un aumentarne in modo coattivo la scadenza (deprimendone, correlativamente, il valore).
Secondo Schäuble, in questo modo i Titoli di Stato diverrebbero asset intrinsecamente più rischiosi, così da ridurre l'incentivo dei governi ad accumulare debito e aumentare la propensione delle banche a prestare all'economia reale, senza imbottirsi di bond governativi (ricordo che Schäuble da sempre lotta contro le regole di vigilanza che considerano i Titoli di Stato strumenti privi di rischio ai fini del calcolo dell'assorbimento patrimoniale).
Ovviamente le cose non stanno così, e Bastasin lo evidenzia: "anziché imporre una sana disciplina ad alcuni Paesi membri, il nuovo regime potrebbe ampliare i differenziali di rendimento dei Titoli di Stato e rendere impossibile la convergenza dei debiti, aumentando la probabilità di rottura dell’Eurozona".
Tradotto: una proposta di questo tipo, qualora si traducesse in una norma positiva, comporterebbe un'immediata divaricazione degli spread fra Paesi del centro e Paesi della periferia (i famosi PIGS... per quelli che l'Unione Europea ci affratella: i vostri cari fratellini vi danno senza tanti giri di parole dei "maiali"), dunque un forte aumento degli interessi passivi dovuti dall'Italia e - nel contempo - una violentissima svalutazione dei Titoli governativi detenuti dalle banche (vi ricordate il disegnino qui?), pertanto - in ultima analisi - la necessità per il nostro governo di ricorrere al sullodato MES con conseguente haircut sul debito sovrano, ulteriori crisi bancarie, e così via.
In sostanza, si tratterebbe della prima profezia auto-avverante tradotta in legge. Una profezia che, vorrei sottolineare, farebbe in un colpo solo saltare il sistema bancario italiano, imporre al governo di ricorrere al MES (e, dunque, alla Troika), far perdere a voi (noi) tutti i risparmi accumulati. Per quelli che tanto io mica ce li ho 100.000 Euro in banca, riporto questo simpatico tweet:
Bene. È di sicuro già molto. Ma non è tutto.
Bastasin (personaggio che, peraltro, ricordiamo sempre con affetto) aggiunge che la proposta di Berlino sarebbe volta anche ad impedire il ricorso degli Stati membri - in particolare, Italia e Francia - alle clausole di flessibilità: "nelle trattative coi primi ministri dell’Eurozona..., Juncker è stato costretto a scegliere tra autorizzare i governi in carica ad ampliare i loro deficit per ogni sorta di ragioni oppure fomentare i movimenti populisti anti-europei che vogliono mandare all'aria l’intera unione monetaria. Questa specifica debolezza nella coordinazione delle politiche fiscali a livello centralizzato ha convinto le autorità tedesche a chiedere la decentralizzazione dei rischi e un controllo depoliticizzato...", attraverso la separazione "della funzione di supervisione svolta dalla Commissione dal suo ruolo nell'orientare le scelte politiche". Eventualmente, anche creando "una nuova istituzione tecnica e indipendente". D'altronde, "se questi meccanismi dovessero ancora fallire nel tenere a freno il debito pubblico, allora la minaccia di un semplice meccanismo automatico di ristrutturazione del debito farà il trucco: i mercati diventeranno subito estremamente sensibili alla mancanza di disciplina fiscale, e puniranno ciò che i politici perdonano".
In queste poche righe c'è tutto un mondo, che descrive al meglio la distopia europeista.
In sostanza, dicono i nostri confratelli tedeschi (precisiamo: non i tedeschi, bensì quella parte di élites tedesche che influenzano il proprio governo e, tramite quello, le istituzioni europee), i popoli europei - ivi compresi, ahimé, quelli del sud - vorrebbero mantenere il tenore di vita faticosamente costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale, un tenore di vita basato su un ampio sistema di welfare, politiche per l'occupazione, sanità e scuola pubblica, pensioni decorose. Addirittura, i Paesi più scandalosi (d'altronde... sono cattolici!) hanno riportato questo sistema nero su bianco nelle proprie Costituzioni. A causa di queste incivili aspirazioni, i sullodati popoli votano per coloro che, ritengono, possa garantirne il perseguimento (Marine Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria, la Lega in Italia) e la Commissione - invece di schiacciare questi rigurgiti edonistici sotto il tallone dell'austerity, come tanto bene è riuscito in Grecia - ha talvolta avallato qualche concessione.
Lo capite? Schäuble, ancora una volta, sta dicendo che stare nell'Euro significa sposare l'austerità e che - in altri termini - un'altra Europa, o un altro Euro, non possono esistere. Lo dice Schäuble, non qualche così detto no-Euro.
In questo senso, mi sembra interessante quello che scrive, sulla questione, Bill Mitchell. Nel caso in cui la proposta in questione divenisse legge, "a recession would become almost guaranteed, the deficit would worsen as the tax revenue collapsed further, and the government would be forced to default on its outstanding euro liabilities. The only way out would be exit. In other words, the logical extension of the German proposal is that nations, which find themselves mired in recession, would exit". O recessione, o uscita. Altro non c'è, nell'Eurozona.
Spero che il ragionamento sia chiaro e distolga dall'errore, una volta per tutte, i tanti "questisti". Se non basta, potete anche leggere qui:
Tiremm innanz.
Schäuble (o Bastasin, non so) non si ferma qui. Aggiunge che tutte queste aberrazioni derivano dal fatto che la Commissione non è abbastanza "depoliticizzata". Cioè, in Italiano corrente, è ancora troppo legata al processo democratico. Questo, peraltro, lo aveva spiegato molto bene Monti, quando - interrogato da Federico Rampini sul "perché la Commissione europea avesse accettato di diventare il capro espiatorio su cui scaricare l’impopolarità dei sacrifici" - rispondeva che ciò dipendeva, "tutto sommato, [dal fatto che] alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento e hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale" (Rampini, Intervista sull'Italia in Europa, p. 40 e ss.).
Monti, d'altronde, è questo:



Ma non finisce il cielo.
Secondo Schäuble, un modo per risolvere la questione sarebbe la creazione di "una nuova istituzione tecnica e indipendente". Vi ricorda qualcosa? Acqua... fuochino.. fuoco! "Conformemente all'art. 108 del Trattato, nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dal trattato e dal presente statuto, né la BCE, né una banca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro
organismo..." (art. 7 dello Statuto del SEBC e della BCE). Ora capite cosa si intende quando si parla di "organismo indipendente"? Si parla di qualcosa che sia "indipendente" dai parlamenti e dai governi eletti dai cittadini, "indipendente" dai popoli europei, in ultima analisi "indipendente" dal concetto stesso di democrazia (sulla questione BCE, trattata in modo interessantissimo e quasi paradossale, potete andare a leggere qui).
Se poi anche questo non bastasse, ecco pronta la bomba atomica economica. "Se questi meccanismi dovessero ancora fallire nel tenere a freno il debito pubblico, allora la minaccia di un semplice meccanismo automatico di ristrutturazione del debito farà il trucco: i mercati diventeranno subito estremamente sensibili alla mancanza di disciplina fiscale, e puniranno ciò che i politici perdonano". Per chi ha vissuto la deposizione di B. nel 2011 - tanto cara al giornalino di regime (v. foto accanto) - e l'ascesa del sempre esecrando Super Mario (fantastico Alessandro Greco qui), non c'è neppure da spiegare alcunché. Per chi invece fosse stato distratto (auto nuova, fidanzata nuova, non so), si ribadisce che tutta la costruzione europea, da Maastricht in poi, ha avuto come solo scopo quello di comprimere vieppiù il potere statale attraverso l'asservimento dei governi alle forze della finanza internazionale. E ciò non come eterogenesi di fini nobili (il "sogno" di Ventotene), ma come obiettivo principale, al fine di togliere alla sullodata finanza qualsiasi parvenza di controllo o limitazione.
Eh, ma è il mercato! Eh, ma è la globalizzazione!
Il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia è il mercato? I parametri di Maastricht li ha imposti la globalizzazione? Sono state oscure forze aliene a far abrogare il Glass-Steagall Act (chi ha fatto abrogare il nostro vecchio Testo Unico Bancario per adottare quello nuovo, invece, è abbastanza noto)? No. Non sono stati né il mercato, né la globalizzazione, né la Cina, né la signora TINA. Sono stati i nostri politici, asserviti - chi per fede, chi per opportunismo, chi per imbecillità - ai voleri di lobby che, lentamente, stanno svuotando dall'intero la nostra democrazia, la nostra Costituzione, il nostro stile di vita.
Se tutto questo non vi basta, legge Barra Caracciolo. Se non vi basta nemmeno quello, beati voi.

mercoledì 23 dicembre 2015

Matteo leghista! (ovvero: i miei auguri di Natale)

Che c'entra Salvini col Natale? Niente, ma io non mi riferivo a lui, ma a quell'altro, quello che un paio di millenni fa ha scritto uno dei quattro Vangeli canonici. Tra l'altro, essendo siriano, in questo periodo va anche piuttosto di moda.
Insomma, ho scoperto che S. Matteo è leghista.
Sì, perché - mi spiegava chi se ne intende - al giorno d'oggi i populisti che difendono il Presepe (che vuol dire greppia, per l'appunto)  non pensano che Giuseppe e Maria sono due profughi e che Gesù nasce poverissimo in una stalla, come un migrante qualsiasi. Se non che, per Matteo la Sacra Famiglia a Betlemme ci abita da sempre (quello che "non c'era posto per loro nell'alloggio" è Luca); al massimo sfolla in Egitto, ma dopo un paio d'anni torna a casa... evento raro, di questi tempi di sbarchi a ripetizione.
I più immaginifici hanno addirittura cercato di trovare gli antenati dei disperati giornalmente traghettatici dagli scafisti nei Magi d'oriente; il che sarebbe come dire che è un migrante anche Obama quando fa compie un viaggio di Stato all'estero. D'altronde, anche in questo caso i fenomeni del Natale cascano male, perché Luca al posto di cammelli e oro e incenso e mirra mette in scena una banda di comuni pastori (ah Luca, che cattivo gusto, sempre a parlare di poveri...).
Il problema, a dirla tutta, è che il Natale non si presta a questi giochetti.
Natale è il giorno in cui si fa memoria della nascita, nella città di Davide, di un Salvatore, che è il Cristo Signore (Lc 2,10-11, che richiama Is 9,5 e Mi 5,1). Dio guarda con sollecitudine non solo il Suo popolo, ma tutte le Nazioni, poiché Colui che nasce è figlio di Davide e figlio di Abramo (Mt 1,1), "corno di salvezza" per Israele e "aurora... per risplendere su quelli che giacciono nelle tenebre" (Lc 1,69.78-79). Non a caso la Chiesa, con intelligenza pastorale, ha sovrapposto il Natale alle feste pagane connesse al solstizio di inverno.
Natale, al contrario, non è il giorno in cui cade dal cielo un ciccione rosso con la sbornia da Coca Cola, o in cui siamo tutti talmente più buoni che si riesce anche a far fallire qualche squalo della finanza taroccando il report sulla raccolta delle arance, o in cui prima si mangia tutti insieme fino a sentirsi male e poi la smaltiamo pian pianino al cinema.
Lasciamo perdere le attualizzazioni fasulle e pensiamo - in un periodo così difficile come quello attuale - al messaggio radicalmente rivoluzionario di Colui che è nato. "Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è giunto a voi il regno di Dio!” (Lc 11,20). E questo messaggio è distillato in quei capolavori di teologia che sono i due racconti dell'infanzia, quello di Luca e - appunto - quello di Matteo. Basta capirli, senza violentarne il significato. Un regalo azzeccato, per una volta, potrebbe allora essere un libro come questo:


Almeno, è un po' più serio dell'ultima fatica di Bruno Vespa (e non è la solita cravatta).

lunedì 21 dicembre 2015

Quello che le banche non dicono

Sì, lo so, l'argomento banche non c'entra nulla con questo blog. Però, visto che il lavoro ormai ci è stato portato via, mi sembrava giusto ricordarvi che, dall'anno prossimo, probabilmente dovremo salutare anche i nostri pochi risparmi. Sì, lo so, lo spirito del Natale mi pervade (parleremo anche del Natale, tranquilli. Non è una promessa. È una minaccia).
Dunque. Ora la parola più alla moda è la locuzione inglese bail-in (che tanti dubbi semantici ha portato a Genova e zone limitrofe). Per capire di che cosa si tratti, potete leggere un documento abbastanza agevole della Banca d'Italia, che trovate qui.
Se invece avete tempo da perdere, continuate a leggere. Nel quadro delle azioni volte alla creazione di quella che - pomposamente - viene definita "Unione Bancaria", l'Unione Europea ha creato due nuove istituzioni.
La prima è il Meccanismo di vigilanza unico (o MVU), di cui al Regolamento n. 468/2014 della Banca Centrale Europea del 16 aprile 2014, che in sostanza attribuisce alla BCE in collaborazione con le singole Banche Centrali nazionali la vigilanza prudenziale sui principali Istituti di ciascun Stato Membro. Cardine di questa vigilanza prudenziale è il supervisory review and evaluation process, o SREP, di cui all'art. 97 della Direttiva 2013/36/UE (in altri termini, gli stress test). Ovviamente, le "principali banche" escludono le Sparkassen tedesche ai sensi dell'art. 4, c. 10, Dir. BRRD (v. sotto).
La seconda istituzione è il Meccanismo di Risoluzione Unico (MRU), che interviene a valle del MVU, quando - ad esito del processo di supervisione - si verifichi una situazione di dissesto di una banca (si tratta del Regolamento 806/2014/UE). Obiettivi del MRU sono due: evitare - in caso di insolvenza di una banca - che si verifichi un rischio sistemico per il sistema bancario di un Paese o dell'Unione, ridurre al minimo i costi dei salvataggi bancari per i contribuenti.
Se la cosa non fosse tragica, sarebbe terribilmente comica: al fine di evitare shock del sistema finanziario non si costituisce un prestatore di ultima istanza, anzi si crea un meccanismo che alimenta l'incertezza e potrebbe favorire panico e bank-run; per evitare spese al contribuente, lo si massacra nella sua qualità di risparmiatore.
Non ci credete? Per dire:

Ma anche:
Quanto tutto questo sistema sia iniquo, asimmetrico, anche pericoloso soprattutto dopo il rifiuto tedesco a implementare un sistema di mutua garanzia tra banche a livello europeo (si tratta dell'EDIS, o European Deposit Insurance Scheme), lo spiegano benissimo Giacché qui e Bagnai qui. Leggeteli, approfonditamente. Mentre li leggete, ricordate anche cosa è successo in altri Stati, vicini a noi, solo pochi anni fa (ah... ma allora, dice Feld, il contagio era già in atto!).
Ora invece, "per evitare spese al contribuente", al Regolamento MRU si affianca la Direttiva 2014/59/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, meglio nota (o famigerata) come Direttiva BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive). In particolare, la disciplina (alquanto farraginosa) sul bail-in si trova agli artt. 43 e ss. della Direttiva ed è trasfusa in Italia nell'infausto D. Lgs. n. 180 del 2015.
La "risoluzione" della crisi di una banca, d'altronde, differisce dalla liquidazione coatta della stessa (procedura che, comunque, continuerà ad essere prevista dal Testo Unico Bancario: art. 20, lett. b del Decreto) perché - ferme restando le condizioni di partenza: dissesto o rischio di dissesto dell'Istituto e impossibilità di procedere ad aumenti di capitale significativi - è volta a garantire e la continuità dei servizi offerti dall'impresa. Si ha "dissesto o rischi di dissesto" quando "risultano irregolarità... o violazioni di disposizioni legislative... di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività; risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da privare la banca dell'intero patrimonio o di un importo significativo del patrimonio; le sue attività sono inferiori alle passività; essa non è in grado di pagare i propri debiti alla scadenza; elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni... [precedenti] si realizzeranno nel prossimo futuro; è prevista l'erogazione di un sostegno finanziario pubblico straordinario a suo favore..." (art. 17, c. 2, D. Lgs. n. 180/2015).
Come? Vendendo parte delle attività a un cliente privato (art. 40 e ss. del Decreto 180), scorporando le attività buone da rivendere a terzi (mediante costituzione di una bridge bank, artt. 42 e ss. del Decreto 180) rispetto a quelle cattive da liquidare (bad bank), svalutando infine le azioni ed i crediti vantati nei del vecchio Istituto e convertendoli in azioni del nuovo (bail-in: artt. 48 e ss. del Decreto 180). In sostanza: la banca va male? Ha troppi debiti? Bene, questi debiti li converto in capitale e i creditori, cioè noi, di fatto diventiamo i prestatori di ultima istanza del sistema (il "fondo di risoluzione" interviene solo dopo che il contributo privato al ripianamento delle perdite ha riguardato al meno l'8% delle passività totali).
Ovviamente, non sono convertiti né le passività interbancarie, né i debiti verso dipendenti, fornitori e Stato (tasse), né le passività garantite tipo covered bonds (art. 49 del Decreto 180). Una precisazione: sono creditori di una banca i possessori di obbligazioni dell'Istituto (subordinate o senior che siano), ma anche coloro che hanno un conto corrente o un conto deposito. Sì, perché - tecnicamente - quando depositiamo i soldi su un conto in realtà li prestiamo alla banca, che si obbliga a rendercene pari quantità. Per ora, anche i depositi fino a 100.000 Euro, ma qualcosa mi fa pensare che, presto, questa cifra perderà qualche zero (intanto, per sicurezza, con una decisione al limite del delirante la Commissione Europea ha bollato come "aiuto di Stato" l'utilizzo del Fondo interbancario di tutela dei depositi, costituito per intero da soldi privati, delle stesse banche: v. qui. Gli eurodementi, bontà loro, mentre permettono ben altro ad altri Paesi, e non necessariamente i più importanti, all'Italia negano tutto (derubricando qualsiasi azione ad "aiuto di Stato": la letterina qui sotto è un esempio, ma si potrebbe ricordare anche il caso-Tercas) e suggeriscono il ricorso al MES, cioè alla Troika. Per chi non lo sapesse, il MES è una nuova Istituzione dell'Unione, con capitale garantito pro quota dai singoli Stati, con piena capacità giuridica, che aiuta gli Stati in difficoltà - leggi: le banche in difficoltà - purché questi rispettino le regole relative al Patto di stabilità e di crescita, cioè in sostanza le prescrizioni di Maastricht, e i Memorandum d’intesa proposti dal MES medesimo. Per ulteriori informazioni, citofonare Grecia).
Bene. Andiamo avanti. Mi auguro che finora il tutto sia abbastanza chiaro. Comunque ridiciamocelo: tutte le grandi banche europee (escluse le sparkassen) sono sottoposte a un meccanismo di vigilanza prudenziale accentrato, basato sull'implementazione periodica di stress test ad esito dei quali le autorità competenti possono richiedere azioni significative sul capitale delle banche stesse. Laddove queste azioni non possano essere realizzare con successo, invece di procedere alla liquidazione dell'Istituto si procede alla "risoluzione" della situazione di crisi mediante risanamento dello stesso. Detto risanamento avviene, soprattutto, attraverso l'azzeramento del valore delle quote degli azionisti e la trasformazione in capitale dei crediti di obbligazionisti, subordinati e non, e correntisti sopra una certa soglia di garanzia. I singoli Stati, laddove vogliano ridurre i costi sociali di operazioni di questo tipo, devono rivolgersi al MES, cioè far entrare la Troika a casa propria. In altri termini:

CHI VUOLE L'EURO VUOLE IL BAIL-IN, CHI VUOLE IL BAIL-IN VUOLE LA TROIKA, CHI VUOLE LA TROIKA... © Alberto Bagnai.

Dimostrazione in tre disegnini.

(Avvertenza: io non sono un'economista. Una tale proposizione, se non è assoluta, al massimo regge una conclusiva, mai un'avversativa, pena il girone dei permeisti. In questo caso, però, mi sento di fare un'eccezione, pubblicando alcuni dati, disaggregati una volta tanto, che mostrano un sistema bancario italiano a mio avviso nel complesso solido ma che - con queste regole, con queste autorità - potrebbe essere facilmente oggetto di un attacco via stress test o via spread sul debito italiano. Ci hanno già provato, mi pare).

Primo. Consideriamo le sofferenze nette di alcune delle principali banche italiane (dati 2014) ed applichiamo il folle tasso di recupero stimato dal "Decreto salva banche" del nostro amico Matteo in relazione agli NPL delle 4 banche coinvolte (17,6%, contro un tasso "normale" del doppio). Come si vede, le perdite potenziali (righe rosse) si attestano fra 1/3 del capitale di prima qualità (quello che, usualmente, si definisce CET1, cioè la riga verde; la riga viola è invece il capitale complessivo, quello che considera anche i subordinati), fino a casi in cui lo stesso si ridurrebbe a poco più del 20% (il grafico di Mps è parzialmente forviante perché non tiene conto dell'aumento di capitale del 2015, voluto proprio dalle Autorità Europee a seguito degli stress test di novembre 2014, ma insomma il senso è quello).


Quanto sarà fatta pesare questa situazione evidentemente molto difficile, da parte dei regolatori, nella determinazione di un eventuale "rischio di dissesto" di questa o quella banca? L'indirizzo tenuto in passato dalla BCE - sempre molto attenta alle sofferenze e assai meno ai rischi da prodotti finanziari complessi, tipo derivati - qualche dubbio lo lascia (per inciso: ricordo che a seguito degli ultimi stress test, come ho accennato, Banca Mps ha dovuto lanciare un significativo aumento di capitale, Deutsche Bank, beata, no).
Penso che, da tutto quello che precede, sia chiaro quanto importante sarebbe, per il sistema italiano, la costituzione di una bad bank di sistema in cui conferire le sofferenze dei principali Gruppi finanziari. Ma, anche in questo caso, la Commissione Europea nicchia. Pubblico qui di seguito, in spregio a qualsiasi norma sul copyright, un grafico della nota velina rosa, che (riportando dati aggregati) fa capire di che massa di soldi stiamo parlando.


Secondo. Gli attivi delle banche hanno, tradizionalmente, quantità importanti di Titoli di Stato, soprattutto italiani. Questa circostanza è peraltro fonte di grossi mal di pancia colà dove si puote e, tra l'altro, espone gli Istituti a qualche problema di bilancio nel caso in cui lo spread sui nostri Titoli subisca nuove, improvvise impennate.
(Chiarisco. Per semplicità, prendiamo il BTP, cioè un titolo a tasso fisso. Quando lo spread rispetto al Bund tedesco sale, lo Stato italiano deve emettere nuovi BTP a tassi più alti, viceversa quando scende. Ovviamente, se i nuovi BTP sono emessi a tassi più alti, i vecchi BTP perdono di valore; se i nuovi BTP sono emessi a tassi inferiori, i vecchi BTP aumento di prezzo. Ammettiamo un rialzo improvviso dello spread: i titoli nei bilanci delle banche perdono valore, creando perdite che - ancorché non realizzate - possono appesantire pesantemente i conti economici).
Qualche numero (di nuovo, del 2014):





Come si vede, il rapporto fra il valore attuale dei Titoli di stato detenuti e il capitale totale delle banche è pari, in media, a 2,5. Tensioni molto forti sul debito sovrano italiano, anche indotte, potrebbero mettere a dura prova la solidità anche dei nostri migliori Istituti.

Terzo. Che la situazione non sia del tutto rosea - anche se non per tutti uguali - lo dimostra anche l'andamento dei CDS sui singoli Istituti che, da un anno a questa parte, resta sostanzialmente stabile (con alcune non secondarie impennate).
(Il CDS è una assicurazione sul rischio di fallimento di una azienda. Dunque, l'aumento del prezzo di un CDS significa, pari pari, l'aumento del rischio di fallimento dell'impresa cui si riferisce).




Questa è la situazione delle banche più grandi. Le medie e piccole, ovviamente, sono anche più vulnerabili. È inutile ricordare, ancora, le 4 recentemente salvate (a che prezzo!) dal nostro idolo Matteo, o il caso di Veneto Banca (sottoposta a vigilanza europea, con annesso pizzino). È inutile anche ricordare i salvataggi - a suon di miliardi pubblici - delle banche nord-europee, prima che le norme sul bail-in entrassero in vigore.
Giova invece sottolineare, ora e sempre, l'incredibile, oscena, indecorosa incompetenza (a pensare bene) delle nostre élites, che non hanno saputo (o voluto) negoziare altro, a Bruxelles, che un'Unione bancaria che - per come è stata concepita - non ci porterà altro che povertà e distruzione del nostro tessuto industriale. L'avete letto Barbagallo? Tanto per rinfrescare la memoria:
"Con i provvedimenti di risoluzione [il Salva-banche] è stata assicurata la continuità operativa delle banche in crisi, sono stati tutelati i risparmi raccolti in forma di depositi, conti correnti e obbligazioni ordinarie, è stata preservata l’occupazione, non sono state impiegate risorse pubbliche. L’avvio della risoluzione ha evitato, nel contempo, il bail-in dei creditori, obbligatorio dal 1° gennaio 2016, e la prospettiva di una liquidazione “atomistica”. Con il bail-in, le nuove norme avrebbero costretto a coinvolgere – oltre alle azioni e ai titoli subordinati – i circa 12 miliardi di euro di massa “non protetta” delle quattro banche, inclusi i 2,4 miliardi di obbligazioni non subordinate. Con la liquidazione “atomistica”, non sarebbe stata assicurata la continuità delle funzioni essenziali delle quattro banche; alle 200.000 piccole imprese affidate si sarebbe dovuto chiedere il rientro immediato, con danni ingentissimi per le economie locali; sarebbero stati tutelati i soli portatori di depositi garantiti, sacrificando i crediti di un milione di risparmiatori e i posti di quasi seimila lavoratori, con una devastante distruzione di valore".
In questo quadro, prendersela con il Ministro Boschi è assurdo.

(lo dice, bene, anche Riccardo Ruggeri
su ItaliaOggi del 22 dicembre).

È colpa sua, se siamo finiti dentro questo sistema assurdo, che ci strangola? E poi, è proprio l'unica in conflitto di interessi? Sono io visionario, oppure è effettivamente più delicata la posizione di altri Ministri, tipo Poletti, o Guidi (Ducati Energia, Aspen, Confindustria, Sviluppo Economico)?
Il che ci porta - non vorrei parlare di politica, ma mi ci tirate proprio dentro - al ruolo del M5s, il quale propone alla Camera una mozione di sfiducia alla suddetta Boschi, prendendo addirittura tre piccioni con la medesima fava (lascio a voi immaginare chi sia, la fava sullodata): (1) la Boschi si auto-assolve in Parlamento e esce dalla vicenda rafforzata senza aver realmente rischiato alcunché; (2) è tutta colpa della casta, della cricca, del familismo amorale, al massimo degli impiegati infedeli o degli investitori avidi, non certo dell'Euro e del folle sistema sopra raccontato, che anzi resta nascosto come dietro a tre veli (copyright, ancora una volta, Bagnai); (3) tutto il polverone fa passare in secondo piano lo scandaloso accordo con il PD sui giudici costituzionali, tre pasdaran - ne riparleremo - della flessibilità nel lavoro e del pareggio di bilancio.
Gatekeeping.

sabato 19 dicembre 2015

Il Jobs Act è inutile... secondo il New York Times

Che il Jobs Act non funzioni lo abbiamo già visto citando un lavoro di Marta Fana che ha avuto un'eco importante. Il fatto però che analisi molto simili - le nuove norme sul lavoro non riducono il precariato, chi ha assunto lo ha fatto non per il contratto a tutele crescenti ma per gli incentivi fiscali, si assume non sulla base di norme giuslavoristiche bensì relazione alla propria visione della situazione economica prospettica - siano fatte anche dal New York Times lascia - almeno secondo me - piuttosto stupefatti.
Di seguito un articolo che, lancia in resta, attacca a tutto campo la stessa filosofia del Jobs Act. Evito qualsiasi commento perché, obiettivamente, c'è poco da commentare.

Quando, questo mese, i dati sulla disoccupazione italiana hanno segnato il punto più basso da tre anni a questa parte, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dichiarato trattarsi della prova del successo del Jobs Act, la propria riforma-bandiera del mercato del lavoro
Tuttavia, una lettura più attenta dei numeri dimostra che il Jobs Act non ha funzionato poi così bene. I dati dell'ISTAT evidenziano che, dopo l'entrata in vigore della riforma fra gennaio e marzo del 2015, i posti di lavoro a tempo indeterminato - che la legge avrebbe dovuto incrementare - hanno subito una stagnazione, mentre quelli precari - che il Jobs Act avrebbe dovuto eliminare - hanno continuato a crescere.
Non solo: la modesta crescita del tasso di occupazione non è dovuta ad un incremento dei posti di lavoro per i giovani, bensì agli effetti della riforma delle pensioni realizzata dai governi precedenti, che ha comportato un aumento dell'età pensionabile ("Riforma Fornero").
Renzi ha puntato tutto, in relazione alla sua credibilità, su una riforma che - ha promesso - avrebbe creato posti di lavoro e dato finalmente ai giovani la possibilità di un lavoro stabile, non più precario. Egli continua ad essere il più strenuo difensore delle sue riforme: "i numeri sono più forti delle opinioni; un anno fa avevamo la disoccupazione al 13% ed oggi è all'11,5%", ha scritto il 4 dicembre scorso.
Il Jobs Act ha ridotto le limitazioni ai licenziamenti per le grandi imprese ed al a contempo offerto generosi incentivi fiscali alle aziende che assumessero lavoratori con nuovi contratti a tempo indeterminato (peraltro garantiti da minori tutele). Secondo Renzi, le imprese sono meno riluttanti ad assumere personale, se sanno di poterlo licenziare più facilmente. Gli incentivi avrebbero posto fine a una situazione in cui la maggior parte dei giovani sono impiegati con contratti precari di breve termine.

MEGLIO L'ANNO SCORSO

Dopo il varo della riforma, con un'economia tornata timidamente a crescere, sono stati creati 83.000 nuovi posti di lavoro netti tra gennaio e ottobre. Nel medesimo periodo del 2014, però, con un'economia al terzo anno consecutivo di recessione e sotto le precedenti norme di diritto del lavoro, il numero di nuovi posti di lavoro toccò quota 174.000... più del doppio! Gli occupati, invero, si sono ridotti di 39.000 unità ad ottobre dopo un calo di 45.000 a settembre.
"Il Jobs Act non serve a niente" dice Alessandro Vergili, gestore di un vivace bar aperto un paio di anni fa nel centro di Roma "Quello di cui abbiamo bisogno è una minore pressione fiscale, utenze meno care, un sistema bancario che torni a fare credito". La ripresa economica, secondo Vergili, è ancora troppo fragile per assumere nuovo personale o anche solo per trasformare i rapporti precari in rapporti a tempo indeterminato.
All'estremità opposta in termini di grandezza sta la multinazionale Brembo, leader nella costruzione di freni per auto, che impiega 7.800 operai in tutto il mondo, di cui 2.950 in Italia. Paolo Ferrari, capo del personale, definisce "molto positivo" il Jobs Act - un punto di vista comune tra i maggiori industriali - ma non un "fattore determinante" rispetto alla decisione di assumere, quest'anno, 200 persone, due terzi delle quali con contratto a tempo indeterminato.
"Li avremmo assunti comunque" dichiara. "Gli affari vanno bene e le assunzioni dipendono dalla crescita in termini di investimenti, innovazione e produttività, non dal Jobs Act".
La multinazionale delle calzature Tod's dichiara di aver assunto 432 persone nel 2015, di cui 290 con contratti a tempo determinato. L'impresa ha accelerato la conclusione di alcuni contratti a tempo indeterminato per usufruire degli incentivi fiscali, che dopo quest'anno andranno lentamente esaurendosi.

LA RESA

I dati ISTAT's mostrano che il tasso di disoccupazione - che considera soltanto coloro che cercano attivamente un lavoro - è scesa drasticamente da giugno essenzialmente perché migliaia di disoccupati hanno perso la speranza di trovare un lavoro ed hanno dunque semplicemente messo di cercarlo.
Quest'osservazione è confermata dal fatto che la forza lavoro - la somma di coloro che lavorano o cercano lavoro - è calata in ottobre ai minimi da più di tre anni.
Il Jobs Act è una legge contestata. Le grandi aziende hanno salutato con favore le agevolazioni fiscali e l'allentamento delle restrizioni ai licenziamenti, mentre per i sindacati la maggior facilità di licenziamento ha minato i diritti fondamentali dei lavoratori. Secondo alcuni economisti le nuove norme attrarranno investitori stranieri, mentre secondo altri ciò che effettivamente servirebbe per incrementare l'occupazione sono investimenti in formazione e tecnologia e - come in Germania - un collegamento più stretto fra scuole, università e mondo del lavoro. Un critica comune riguarda l'inapplicabilità delle nuove norme a chi un lavoro lo ha già, nonché ai dipendenti pubblici.
Renzi ha vinto la resistenza della sinistra del suo partito, promettendo per quest'anno quasi 2 miliardi di Euro di denaro pubblico in incentivi finanziari per le imprese che assumono. Per Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro presso l'Università di Modena, normalmente sono necessari quattro o cinque anni per valutare i pieni effetti di una riforma del lavoro. Renzi, che affronterà prima le elezioni, insiste sul fatto che il Jobs Act sta già producendo risultati. Egli sottolinea il numero di persone assunte con il nuovo contratto a tutele crescenti e cita i dati mensili pubblicati dal Ministero del lavoro e dal'INPS.
Tuttavia, soltanto l'ISTAT predispone statistiche che considerano l'intera forza lavoro ed utilizza una metodologia internazionalmente accettata. E secondo l'ISTAT, da dicembre 2014 (l'ultimo mese prima degli incentivi) i nuovi contratti a tempo indeterminato, netti, mostrano un incremento di circa 2.000 unità, cioè un dato statisticamente trascurabile. Se poi consideriamo i dati da marzo, quando è entrato in vigore il contratto a tutele crescenti, il numero dei contratti a tempo indeterminato si è addirittura ridotto di 23.000 unità. Di contro: i contratti a tempo determinato - cioè proprio quei contratti che il Jobs Act avrebbe dovuto scoraggiare - si sono incrementati di 178.000 unità da inizio 2015, di 190.000 da marzo; l'occupazione degli over-50 è aumentata di 186.000 unità a causa della riforma pensionistica del 2012, mentre i posti di lavoro degli under-50 si sono ridotti di 103.000 unità.

giovedì 17 dicembre 2015

Crisi economica e deflazione salariale: la ricetta della BCE

Come vi ricorderete, abbiamo già visto che il Jobs Act, lungi dall'essere un'idea di Matteo, è in realtà tutto made in BCE. Molto succintamente - e rimandando a chi ha spiegato con stupefacente chiarezza la questione: per esempio qui - abbiamo anche notato come ciò derivi dalla circostanza che, in caso di perdita di competitività relativa di un Paese, l'impossibilità di una svalutazione della moneta comporta la necessità di una svalutazione del lavoro.
Non a caso, quando vedo nelle sedi sindacali la bandiera con le stelline (il manto della Madonna: cosa che a me fa doppiamente male) reagisco così:
Siccome so che siete miscredenti e quando si afferma senza prove tendete ad alzare il sopracciglio, peggio di un San Tommaso qualunque, oggi porto le prove. Traduco, qui di seguito, un breve estratto del Bollettino Economico BCE n. 8 del 2015 (l'originale, lo trovate qui: guardatelo tutti, anche chi l'inglese lo fischia, perché nella traduzione - in quanto incapace informatico - non ho riportato i grafici e le tabelle. Ora una versione completa è pubblicata da "voci dall'estero").
Le profonde riflessioni dei nostri euroburocrati le trovate in corsivo grassetto, le mie povere considerazioni in tondo.

Si analizza il ruolo delle riforme strutturali e delle regolamentazioni del mercato del lavoro nel processo di adeguamento dei salari nell'Eurozona, con un focus sulla riduzione della rigidità salariale. Oltre alla possibilità che la produttività dei lavoratori si riduca in dipendenza della riduzione degli stipendi, come sostenuto dalla teoria dell’efficienza dei salari, la rigidità verso il basso dei medesimi ha altre importanti conseguenze macroeconomiche.

(Notare: fare deflazione salariale ha tante belle conseguenze macroeconomiche, ma ne ha soprattutto una, cioè quella di distorcere la corretta allocazione dei fattori produttivi, con conseguente sovrastima del fattore lavoro e connessa riduzione dell'efficienza del medesimo: della questione ha parlato di recente Alberto Bagnai).

L’evidenza empirica sembra essere a sostegno della tesi secondo cui l’aggiustamento del mercato del lavoro è più lento quando i salari sono rigidi e che le riforme strutturali possono facilitare detto processo di aggiustamento. Sembra che la reazione dei salari al tasso di disoccupazione nell’Eurozona vari in modo significativo in diversi periodi di tempo. Nel periodo di forte crescita del PIL che ha preceduto la crisi, i salari hanno reagito in modo relativamente sensibile alle variazioni del tasso di disoccupazione. Di contro, nella prima fase della crisi (la “Grande Recessione”), questo rapporto si è indebolito sostanzialmente, mostrando una probabile rigidità verso il basso delle remunerazioni dei lavoratori. La reattività dei salari alla disoccupazione si è rafforzata nuovamente durante la seconda fase della crisi (da fine 2011), ma in misura ancora notevolmente più debole rispetto al periodo pre-crisi.

(...e l'acqua bolle a 100 gradi. Dieci righe per dire che, all'inizio della recessione, i salari non sono scesi immediatamente, mostrando una certa tendenza alla rigidità, ma che anni e anni di crisi nera, uno di fila all'altro, alla fine sono riusci a fare breccia. Sottolineo come, tra le righe, si legga un certo dispetto, ed anche tutto sommato incomprensione, per il tentativo dei lavoratori di non farsi tagliare lo stipendio ad ogni accenno di perdita di quote di mercato).

Le differenti reazioni dei salari, rispetto al variare del tasso di disoccupazione, in relazione a diverse fasi del ciclo economico sembrano spiegarsi, almeno in parte, con la rigidità dei salari verso il basso che caratterizza i vari Paesi dell’Eurozona. Le prove, in ambito micro, della rigidità salariale sono relativamente solide e supportano la constatazione della difficoltà di tagliare i salari. Questo viene confermato anche dai recenti risultati della terza serie di sondaggi a livello delle imprese condotta dal Wage Dynamics Network. A livello macro, Heinz e Rusinova (2011) mostrano che i salari sembrano essere meno reattivi alla disoccupazione in presenza di un “divario positivo” della disoccupazione. Ciò è confermato da un recente studio di Anderton e Bonthuis (2015), che mostra una minor capacità di risposta verso il basso dei salari a seguito di una maggiore disoccupazione durante le fasi di contrazione economica… L’andamento nel tempo del parametro di rigidità dei salari stimato da Anderton e Bonthuis (2015)… suggerisce che la rigidità dei salari verso il basso si sia ridotta col protrarsi della crisi.
Le regolamentazioni del mercato del lavoro sembrano giocare un ruolo importante nella regolazione dei salari. [Sulla base di] una panoramica delle caratteristiche di contrattazione salariale dei mercati del lavoro dell’Eurozona, si conferma una sostanziale eterogeneità tra i diversi Paesi in relazione a dette regolamentazioni. Alcuni, come ad esempio gli Stati baltici, sono solitamente definiti come “flessibili”, dato il loro processo di contrattazione salariale decentrata e la relativamente bassa densità sindacale. Molti altri Paesi dell’Eurozona, invece, sono caratterizzati da una presenza forte del sindacato (Belgio, Malta e Finlandia), un alto grado di coordinamento dei processi salariali di contrattazione (Belgio, Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia) e l’imposizione di un salario minimo (Grecia, Spagna, Francia, Lettonia, Portogallo e Slovacchia). Questa situazione, soprattutto se combinata con clausole di indicizzazione e una legislazione rigorosa a tutela dell’occupazione, può causare rigidità dei salari verso il basso.

(Ecco a cosa serve il Jobs Act ed ecco a cosa serve il sindacato unico tanto vagheggiato da Matteo. Serve a rendere i salari flessibili verso il basso. Cioè, serve per tagliarvi gli stipendi. A tutti. Ai metalmeccanici, ai lavoratori del commercio - che domani e domani l'altro scioperano per un contratto scaduto da qualche era geologica e rispetto al quale si discute di aumenti da 50 Euro al mese -, ma anche ai bancari, ai lavoratori pubblici sotto forma di mancato adeguamento degli stipendi al costo della vita da mille anni a questa parte. Se poi non ci fossero neanche i sindacati a protestare, anche meglio: se proprio però si vogliono lasciare, perché insomma li cita anche la Costituzione signora mia, basta che siano come quelli italiani).

I Paesi dell’Eurozona, in particolare quelli più colpiti dalla crisi, hanno attuato programmi di riforme strutturali globali. Ciò è confermato dai cambiamenti nella legislazione a tutela dell’occupazione, dove le riforme del mercato del lavoro sono state attuate soprattutto dai Paesi in difficoltà. Queste riforme includono il decentramento della contrattazione salariale collettiva, spostata maggiormente a livello aziendale, una limitazione delle clausole automatiche di indicizzazione dei salari, un minor numero di contratti collettivi, maggiore flessibilità di orari di lavoro e una riduzione dei costi di assunzione e di licenziamento.

(Contrattazione a livello aziendale: art. 51, D. Lgs. n. 81 del 2015, se ne è parlato qui; riduzione costi di assunzione e finanziamento: D. Lgs. n. 23 del 2015 e defiscalizzazione delle assunzioni, v. qui e qui; maggiore flessibilità del lavoro: col lavoro agìl, c'est plus facìl... v. qui. Bravo Matteo, sei un gradissimo esecutore).

Le riforme del mercato del lavoro hanno il potenziale per aumentare la capacità di risposta dei salari al ristagno economico. Anderton e Bonthuis (2015), per esempio, dimostrano che, in presenza di una normativa di rigorosa tutela dell’occupazione e una forte copertura sindacale, i salari possono essere meno sensibili alla disoccupazione. Pertanto, riduzioni di questi indicatori durante la crisi possono spiegare in parte la riduzione della rigidità salariale verso il basso sopra notata. Ad esempio, Font et al. (2015) spiegano che la reattività dei salari reali alla disoccupazione in Spagna sembra essere aumentata dopo l’attuazione delle riforme del mercato del lavoro nel 2012-2013. Trovano anche che la tendenza pro-ciclica dei salari è più bassa per i lavoratori con contratti a tempo indeterminato e per i lavoratori anziani, che sono più protetti contro adeguamenti salariali in recessione economica. Inoltre, Martin e Scarpetta (2012) hanno fornito evidenza del fatto che la regolamentazione del mercato del lavoro ha effetto su una serie di altri canali di propagazione, tra cui la riallocazione del lavoro e perfino la produttività, il che può influenzare indirettamente l’evoluzione dei salari.
È molto difficile ottenere forti evidenze empiriche sugli effetti di alcuni tipi di riforma, soprattutto se si guarda l’evoluzione dei dati salariali aggregati. Le difficoltà sorgono, per esempio, nel distinguere l’impatto sui salari delle riforme dall'impatto dei cambiamenti nella composizione dell’occupazione e del consolidamento fiscale. Sono pertanto necessarie ulteriori analisi per comprendere appieno i fattori che guidano gli adeguamenti salariali nell’Eurozona nella durante i periodi di crisi.
Per migliorare la resistenza dell'economia agli shock, i salari devono riflettere adeguatamente le condizioni del mercato del lavoro e della produttività: ecco l’importanza di riforme che favoriscano una maggiore flessibilità salariale e differenziazione tra lavoratori, imprese e settori. In aggiunta ai fattori di cui sopra, una maggiore efficienza delle politiche attive del lavoro, così come una maggiore mobilità dei lavoratori all'interno e tra i Paesi dell’Eurozona, aiuteranno anche a ridurre sia i casi di incongruenza fra professionalità offerte e professionalità richieste, sia la disoccupazione strutturale, aumentando così la reattività dei salari alla disoccupazione.

(L'ultimo paragrafo deve essere letto con in sottofondo la Marcia imperiale di Guerre Stellari. Tradotto significa che, all'interno dell'Eurozona, dove non sono possibili gli aggiustamenti dei cambi e dove la monetizzazione del deficit è vietata - vietata! -, gli shock economici possono essere superati in un modo solo, cioè creando disoccupazione e, per quella via, riducendo i salari. Però, ammette la BCE, questo non basta per superare gli shock: serve anche la "maggiore mobilità dei lavoratori". Avete capito a che serve Schengen? O pensavate che fosse per farvi prendere l'aereo per Disneyworld più velocemente? E le capite, sotto questa ottica, anche certe tasse espropriative sulle abitazioni che ci sono state propinate? D'altronde, la Tinagli lo diceva chiaro e tondo...).

Bene, ora tutte queste cose la ha scritte la BCE. Ora, le sapete. Tirate voi le somme.

martedì 15 dicembre 2015

Interludio: lavoro in azienda e codice (da Stato) etico

Normalmente, in questo blog, si fa il tiro al piccione al Jobs Act (questo, a proposito, è da intenditori). Oggi, però, vorrei parlare di qualcosa di completamente diverso.
Vi ricorderete tutti il caso di quella signorina inglese dallo scarso senso dell'umorismo, che - prima di partire per il Sud Africa - scrisse un tweet non proprio condivisibile:


Durante le 12 ore di volo, la battutaccia era stata ritweettata oltre 3.000 volte, ripresa dai media di tutto il mondo, oggetto di risposte al vetriolo. Il Daily Mail ha ripreso l'autrice all'arrivo all'aeroporto di Città del Capo sconvolta, mentre parla al telefono. Sia il tweet, sia l'account sono scomparsi immediatamente, per sempre.
La storia è stata raccontata un miliardo di volte e ci sono stati articoli, anche molto acuti, in merito a come un social network possa distruggere la vita di una persona. Io, però, nel caso di specie, mi voglio concentrare su un singolo aspetto della vicenda, cioè che Justine Sacco, per aver scritto un'idiozia su Twitter, è stata licenziata. Il suo datore di lavoro, infatti, ha "bollato il comportamento della sua dipendente come 'scandaloso' e ha assicurato che avrebbe preso 'misure appropriate'" (ancora il Daily Mail).
Tutta la faccenda mi è tornata in mente l'altra sera leggendo un articolo, pubblicato su una prestigiosa rivista giuslavoristica, di Paola Salazar (avvocato milanese che tiene un blog assai interessante).
In breve: l'articolo dell'avv. Salazar parte dal caso di un lavoratore licenziato per aver postato sulla propria pagine Facebook "espressioni offensive riferite sia alla società datrice di lavoro, sia... alle colleghe definite... MILF". (Sì, lo so, tutti a guardare il link... è solo wikipedia). La sentenza è il pretesto per considerazioni più ampie, tra cui quella che definisce il rapporto di lavoro
non più solo scambio tra le due obbligazioni principali 'prestazione lavorativa' e 'retribuzione', bensì scambio tra... "capitale intellettuale" e... "benessere e valori" nel quadro del complesso organizzato dell'impresa... Risulterebbe quindi ammissibile chiedere al lavoratore, in questo mutato contesto, di non adottare - anche nella vita privata - comportamenti non coerenti con l'obiettivo di quel 'benessere condiviso'.
Sempre secondo l'avv. Salazar, poiché la giurisprudenza ha talvolta ritenuto che l'ingiuria o la diffamazione non gravi non integrassero un giustificato motivo di licenziamento, risulterebbe
opportuna e rilevante l'implementazione del Codice disciplinare interno... nonché la redazione di Linee Guida, Regole di comportamento utili a gestire anche tali nuovi comportamenti rivendendo il Codice Etico, i Regolamenti e le policy interni...
Ora, capisco benissimo che le intenzioni dell'avv. Salazar sono buone e che il suo discorso, letto nell'intero contesto dell'articolo, è anche condivisibile; tuttavia, estremizzata, l'idea che un'azienda possa richiedere, al di fuori del luogo di lavoro, non soltanto certi comportamenti, ma addirittura determinati "set di valori", mi pare un tantinello antidemocratica.
Certo, mi si dirà, la giurisprudenza ha già chiarito che le regolamentazione aziendali non possono comunque essere lesive della libertà e della dignità della persona (famoso il caso "della minigonna" presso Pret. Milano, 12 gennaio 1995, annotato da G. Pera... uno che in facoltà ci veniva sempre doppiopetto e farfallino) e che, in ogni caso, vi è ormai per legge assoluta parità di trattamento tra le persone sul posto di lavoro, indipendentemente dalla razza, o dall'origine etnica, o dalla religione, o ancora dalle convinzioni personali, età, orientamenti sessuali. E mi si ricorderà anche che, almeno per un altro po', la Costituzione mette dei paletti in materia.

(Parentesi. Io, della Costituzione, me ne impipo. Come Matteo.
Chiusa parentesi).

Ma qui il punto è un altro e attiene alla libertà dell'individuo di esporre le proprie idee per quanto le stesse siano non condivisibili o addirittura odiose. In altri termini: è veramente giusto che la signorina Sacco sia stata licenziata per aver espresso, fuori dal proprio contesto lavorativo, un'opinione razzista? Non è, tra l'altro, il solo caso di licenziamento... o di "strane dimissioni"... per motivi ideologici, sconnessi da qualsiasi rapporto col posto di lavoro:
Dice: sì, ma i licenziamenti non sono per violazioni di chissà quale codice etico, bensì per motivi reputazionali, connessi alle campagne stampa contro queste persone (poi ci sono anche i casi opposti, ma lasciamo stare). Risponde: è vero, per questo non sembra il caso di dare appigli giuridici a certe pratiche. Anzi: la legge dovrebbe fare da scudo all'ordalia mediatica che si abbatte su questo o quel lavoratore.
E poi, oggi si tratta di razzismo, o di misoginia. Domani, magari, di antieuropeismo, di scarso affetto per l'ordoliberalismo imperante, per un certo attaccamento - così âgé, signora mia - per questo vecchio arnese definito democrazia. Far definire l'etica alle imprese (mi si passi il termine, questo davvero âgé: il capitale) è un discreto metodo di controllo sociale.
ItaliaOggi del 19 novembre 2015 ospita la consueta paginata filo-tedesca di Roberto Giardina, in cui si racconta (con un certo tono di compiacimento) che Matthias Matussek, "61 anni, editorialista del conservatore Die Welt, su Facebook ha scritto che, dopo quanto era avvenuto in Francia, si sarebbe dovuto vedere con altri occhi l'invasione di Flüchtlinge...: un milione entro Natale, di cui 300 mila, secondo lui..., non controllabili, e tra loro si possono nascondere potenziali terroristi", e che per questo è stato licenziato. Il motivo? "Con le sue parole, si metteva sulle posizioni di Pegida, il movimento razzista, e su quelle di AfD... che, se si votasse domani, entrerebbe al Bundestag con quasi il 10%". Ed ecco il gran finale: "Le sue opinioni coinvolgono inevitabilmente anche il quotidiano del gruppo Springer... Ci sono dei limiti: la Cancelliera può sbagliare, ma non va attaccata in modo populista".
La signorina Sacco ha scritto un'idiozia. Ma, appunto, una. Matussek una sua opinione. Ma, appunto, sua. Licenziati, solo per questo.

giovedì 10 dicembre 2015

Le collaborazioni, come Lazzaro si alzano e camminano (grazie al Jobs Act)

Ricordo che, anche recentemente, un noto perito agrario assurto addirittura a Ministro della Repubblica (cosa che, fra l'altro, gli ha confermato una certa intuizione in ordine all'assoluta inutilità dello studio per riuscire nella vita... cosa serva invece capitelo da voi), un noto perito agrario - dicevo - sosteneva che il Jobs Act avrebbe avuto, come primo effetto, la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, affetti nel nostro Paese da precariato cronico.
(Ci si potrebbe anche chiedere quali siano le cause di questa situazione. Forse qualcosa c'entrano la regolamentazione previdenziale dei contratti di collaborazione nel 1995, il Pacchetto Treu con relativo lavoro interinale e co.co.co. nel 1997, il Decreto n. 368 sui contratti a termine nel 2001, la Legge Biagi nel 2003, la Riforma Fornero nel 2012. Faccio sommessamente notare che si tratta di "riforme" decise, in egual misura, da governi di destra, di sinistra e tecnici. A dimostrazione che chi comanda, davvero, è sempre lo stesso e non sta a Roma).
Comunque, alla stessa conclusione di Poletti è arrivato anche il di lui capo, il quale, come è noto, per far capire al volgo come stanno le cose ama la sintesi di Twitter.
Ora, alcune cellule sovversive che continuano ad annidarsi in Europa paiono mostrare che le cose non stanno proprio così. Secondo tali cellule bolsceviche, il lavoro precario ("temporary employment") è aumentato in Italia, dal 1998 al giugno 2015 (cioè dopo l'entrata in vigore del Jobs Act), da meno dell'8% degli impieghi totali ("total employment") a quasi il 14% e che i giovani precari sono addirittura il 60% del totale dei lavoratori entro i 24 anni (nel 1998, erano circa il 20%). Ora, dire che questa ricerca dimostra l'inutilità della riforma renziana del lavoro mi sembra (ancora) un po' forzato, ma certo qualcosa - una tendenza - questi numeri l'indicano.
La cosa più interessante, tuttavia, è che, in fin dei conti, il dato non si modifica neppure nella seconda parte dell'anno, dopo l'introduzione del Jobs Act. Il grafico, sempre di Marta Fana, riportato qui accanto, mostra con particolare chiarezza la situazione.
Certo, soprattutto a giugno molti rapporti un po' border line sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato (nel senso che, dopo il D. Lgs. n. 23 del 2015, non si sa quanto durano), ma questo è avvenuto soltanto grazie alla significativa decontribuzione prevista dalla Legge di stabilità 2015 (peraltro l'art. 1, c. 83, d.d.l. Stabilità 2016 approvato al Senato prevede che il bonus per le nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato si riduca da 3 anni a 2, con un tetto limite massimo di 3.250 Euro annui, invece degli attuali 8.060: vedremo nei prossimi mesi i flussi di nuovi TI...); non solo, il contratto precario per eccellenza (anzi, il non-contratto) che tanto piace a questo governo, il voucher, ha subito un'ulteriore impennata, tanto che ad agosto 2015 (agosto!) erano già stati venduti oltre 71 milioni di buoni.
Ora, i dati di Marta Fana - come una nota squadra di calcio della Capitale - non si discutono.
(Lei, da questo punto di vista, è bravissima. A volte, magari, si possono non condividerne le ricette).
Dicevo: i dati di Marta Fana non si discutono. Io, molto più prosaicamente, vorrei mostrare come il Jobs Act, al di là delle dichiarazioni di maniera, in questo senso non sta fallendo; anzi, è stato creato anche per permettere nuove sacche di precariato.
Dei voucher, oltre a parlarne sopra, si è già detto in altro post.
Che i contratti a tutele crescenti siano stabili solo per modo di dire, è ovvio.
In questo post vorrei dunque concentrarmi sulle collaborazioni coordinate e continuative. Dice: ma sono state abrogate! Risponde: eh no, è stato abrogato il lavoro a progetto, il che è ben diverso. Dice: e quindi? Risponde: siamo tornati, di colpo, al 1995.
Mi spiego. In principio fu l'art. 409 c.p.c., disposizione eminentemente processuale, che devolveva al giudice del lavoro, fra gli altri, anche i "rapporti di collaborazione che si concretizzino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato". Prassi e giurisprudenza definirono, col tempo, la figura giuridica: requisiti tipici della collaborazione coordinata e continuativa erano (e sono) l’autonomia (il collaboratore decide autonomamente tempi e modalità di esecuzione della commessa, ma non impiega mezzi propri: diversamente, si tratterebbe di lavoro autonomo professionale), la continuità (intesa come permanenza nel tempo del vincolo di parasubordinazione: diversamente, si tratterebbe di lavoro autonomo occasionale), il potere di coordinamento con le esigenze dell’organizzazione aziendale esercitato dal committente, la prevalente personalità della prestazione.
Nel 1995, viene istituita la Gestione separata INPS: ai lavoratori coordinati e continuativi si applica una specifica disciplina previdenziale, che prevede il pagamento di contributi per due terzi a carico del committente e per un terzo a carico del collaboratore. Nel 2001, venuto meno anche il riferimento alla natura artistica della prestazione coordinata e continuativa, i relativi redditi non sono più considerati - fiscalmente - "lavoro autonomo", ma sono assimilati a quelli di lavoro dipendente.
Questa situazione diviene il paradiso della frode. Qualsiasi lavoro - anche il più routinario - trova la strada per trasformarsi in una co.co.co., che non solo sconta aliquote contributive più basse, ma neppure pone problemi di applicazione dell'art. 18 (quando ancora esisteva).
Su questo scandalo interviene la Legge Biagi.
(Per incidens, noto che la Legge Biagi, pur piena di difetti, aveva anche un sincero afflato anti-frode e anti-lavoro nero. Quello che ho scritto sulla storia dei voucher, per tanti versi simile a quella di cui ci occupiamo qui, sta a dimostrarlo. Invece le disposizioni di questo governo, oggettivamente, vanno nella direzione opposta. Intelligenti pauca).
In pratica, il D. Lgs. n. 276 del 2003 (modificato nei dettagli nel 2010 e nel 2012) lasciava invariata la precedente legislazione limitatamente ai pensionati, ai membri di C.d.A. o Collegi Sindacali o Commissioni, a sportivi e artisti, nonché ai rapporti strettamente occasionali (entro un mese e sotto i 5.000 Euro); per tutte le altre collaborazioni imponeva che le stesse fossero collegate a "uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore", avendo cura di specificare che "il progetto doveva essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non poteva consistere in una mera riproposizione dell'oggetto sociale del committente". Per maggior chiarezza, si sottolineava che "il progetto non poteva comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi". In sostanza, si voleva evitare il proliferare di commesse e segretarie "collaboratrici".
O cosa ti combina il buon Renzi? All'art. 2, D. Lgs. n. 81 del 2015 spara subito la petizione di principio: "a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro" (con le consuete eccezioni: collaborazioni previste nei CCNL - leggi: co.co.co. nei call center -, professioni intellettuali, organi di amministrazione e controllo di società, sportivi).
Siccome, dopo cotanto principio , "il  contratto  di  lavoro  subordinato  a  tempo indeterminato" dovrebbe davvero costituire "la forma comune di rapporto di lavoro" (art. 1), l'art. 52, c. 1, può disporre che "le disposizioni... [sui contratti a progetto] sono abrogate...". Così, semplicemente.
Tutto bene? No.
Il sospetto ti viene quando leggi il c. 2 dell'art. 52: "resta salvo quanto disposto dall'articolo 409 del codice  di procedura civile.". Perché si è sentita la necessità di questa precisazione? Forse per spiegare meglio proprio la petizione di principio dell'art. 2. Le due disposizioni, in combinato disposto, finiscono infatti per suonare così: l'abrogazione del lavoro a progetto fa rivivere la precedente disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative, le quali si distinguono dal lavoro subordinato soltanto per non prevedere un orario e (oppure: o?) una sede di lavoro fissi. Gli abusi, come ognuno ben capisce, si sprecheranno, soprattutto nel caso in cui quella "e" sarà letta come una disgiuntiva (sì, effettivamente, lei fa la segretaria, ma viene un po' quando le pare; è vero, guardi, lui mi timbra tutti i giorni il cartellino, ma mica ha una scrivania qui, davvero).
Comunque, per sicurezza, il Jobs Act si è anche preoccupato di inserire una norma ad hoc, che permette la certificazione preventiva, presso la DTL, dei singoli accordi individuali. Plastica rappresentazione giuridica della polvere sotto il tappetto. Per eventuali frodi precedenti, uguale: si applica l'art. 54 e tutto è perdonato.
Ora, a tacer d'altro, l'art. 66 della Legge Biagi disponeva in materia di gravidanza, malattia e infortunio del collaboratore, di igiene e sicurezza sul lavoro. Tutto questo, ora, è stato spazzato via. La situazione è, potenzialmente, così esplosiva, che nel corso di ottobre si è parlato di un nuovo intervento normativo (nel mitologico d.d.l. collegato alla Legge di Stabilità che avrebbe dovuto introdurre anche il "lavoro agile" e che, a quanto mi consta, per il momento è stato rimandato a gennaio, equivalente politico delle classiche calende greche) volto a estendere nuovamente ai co.co.co. alcune garanzie minime già previste per i lavoratori a progetto.
Ritorno al quesito iniziale. Possibile che non sia tutto voluto? Io credo di no. Dunque, dire che il Jobs Act non riduce la disoccupazione e il precariato è corretto, aggiungere che, pertanto, ha fallito nei suoi scopi lo è molto meno.
Lo inizia a capire anche quale politico di opposizione (sulla L. di stabilità, poi, ci torniamo).
Il Governo, invece, l'ha sempre saputo.


P.S.: Volevo segnalare questo, twittato qualche giorno dopo questo post...

domenica 6 dicembre 2015

Tanto per essere chiari


venerdì 4 dicembre 2015

L'Euro è solo una moneta!

Mi scuserete se oggi parlo di cose senesi. Si tratta di questo:


Tralascio l'appellativo di "ridondanze" applicato a persone, con le loro storie, le loro specificità, i loro sentimenti. Noto soltanto che, in tutto il comunicato di GSK, non si usa mai la parola "lavoratori"; siccome sono buono, voglio pensare per un moto di vergogna.
La "politica" senese si è scatenata. Come al solito, la maggioranza - tramite esponenti del PD di Siena, ma anche del PD regionale - ha immediatamente chiesto un "incontro urgente" alla società, mentre le opposizioni hanno al solito stigmatizzato l'immobilismo di chi governa da così tanto tempo questi territori. Mi sembrano - entrambi - atteggiamenti un po' velleitari (a meno di non voler mettere su operazioni di grande costo e di corto respiro, di cui certo altre multinazionali, in questo territorio, hanno in passato beneficiato).
Vorrei infatti sommessamente ricordare alcuni titoli dei giornali dell'ultimo paio d'anni: "Alcoa annuncia la chiusura definitiva di Portovesme" (1.000 persone), "Ricatto Bridgestone: stipendi dimezzati o licenziamenti" (200 dipendenti), "Italcementi, Cassa di 20 mesi per 430 lavoratori", e potrei continuare. Mi sembra strano che, dall'Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno, la nostra classe dirigente sia tutta così incapace.
Ci deve essere dell'altro, allora.
Forse, dico forse, ci potrebbe entrare qualcosa la circostanza che, dalla metà degli anni Novanta (tenete la data a mente) la produttività del sistema industriale italiano, nonostante la crescita significativa del monte ore lavorate, subisce una forte crescita nei settori non tradable e un calo significativo nei settori tradable, in particolare il manifatturiero? (un articolo lucidissimo ma divulgativo sulla questione - con relativa bibliografia - lo trovate qui). Evidentemente, un'impresa - soprattutto se straniera (sì, signori, perché sopra si è parlato solo di multinazionali, cioè di quei famosi "capitali", tanto cari a Matteo, che bisognerebbe attrarre. Peccato che quei capitali si muovono con grande facilità non solo in entrata, ma anche in uscita... - un'impresa, dicevo, preferisce investire dove il lavoro è più produttivo, non dove lo è meno.
Vedi? La colpa è nostra! Siamo i soliti nullafacenti... Altro che in Germania! Il Cattolicesimo, il familismo amorale (che colpisce, ho scoperto, anche le balene), la corruzione, tutto questo ci ha rovinati! Chi la pensa così può immediatamente cessare la lettura. Il sito che fa per lui lo può trovare altrove sul web.
No, la colpa non è precisamente nostra. Il fatto è che, proprio nel 1996, guarda caso si assiste alla fissazione dei cambi nominali delle valute nazionali rispetto a quello che sarà poi l'Euro (sì, perché di fatto, per chi non lo sapesse, l'Euro in sostanza è entrato in vigore nel 1996, non nel 2001). Va da sé che questa fissazione comporta una rivalutazione spaventosa della Lira rispetto al Marco e - di converso - pone fine a qualsiasi rivalutazione futura del Marco stesso. Che vuol dire questa cosa? Semplice: le merci prodotte in Italia costano di più, dunque si esportano meno.
Ora, siccome il tasso di crescita della produttività è influenzato positivamente dalla crescita della domanda, minori esportazioni significano ancora minore produttività. E così via in un circolo vizioso. Queste brevi considerazioni dovrebbero far capire perché la produttività dei beni non tradable (p.e. le autostrade) non cali negli ultimi 20 anni e quella dei tradable sì.
Ma se il fattore-lavoro costa di più, come faccio a ridurlo? Evidentemente, taglio i salari! E come faccio a tagliare i salari? Facile, distruggo i diritti dei lavoratori, rendo il lavoro precario, aumento più che posso la disoccupazione. Il Jobs Act, con buona pace dei suoi difensori, serve a questo (ne abbiamo per esempio parlato qui).
Senonché questo atteggiamento produce distruzione di domanda interna, quindi meno produzione, quindi meno produttività, come in una specie di gioco dell'oca sotto LSD. Se poi il curatore fallimentare di tutta la baracca è questo...



Poi c'è l'altra questione, e cioè quella della facilità di spostamento dei capitali internazionali (o voi pensavate che la libera circolazione dei capitali significava che potevate aprire il conto alle Poste in Francia?). Qualcuno si è forse mai chiesto il perché dell'apertura a est dell'Unione Europea? Avrà avuto qualche effetto - in quanto a un tempo serbatoio di manodopera e mercato di sbocco - sulla crescita della Germania negli ultimi 10 anni? E pare normale che, aboliti dazi e frontiere, vi siano entro un'unica Area monetaria e doganale, le più diverse legislazioni in materia di lavoro, di sicurezza, di tutela ambientale? Il tutto, senza neppure rischi di cambio, o con rischi minimi, grazie ancora una volta all'Euro (che, notoriamente, "ci protegge").
Dice: ma i lavoratori italiani hanno competenze maggiori rispetto a quelli di altri Paesi, e quelle non sono esportabili. e infatti... proprio per quello è stato creato l'accordo di Schengen (un acquis comunitario che... ahimé... tanto acquis non sembra più...): oppure, di nuovo, pensavate che l'abbattimento delle frontiere fosse per eliminare qualche fila ai check-in Ryan Air quanto andavate in vacanza a Barcellona (o a Ibizia, a seconda dei gusti)? Schengen è stato creato con un certo scopo, che poi è quello nella foto qui accanto; se serve un lavoratore specializzato italiano, lo lasciamo disoccupato nel suo Paese, così emigra in Olanda dove noi abbiamo l'Head Quarter che non paga neanche mezzo Euro di tasse. La bassa manovalanza, invece, la lasciamo tranquilla in Transnistria.
Dice ancora: ma c'è il made in Italy! Quello, mica si può portare via! Come no! Vogliamo ricordare la recente diffida comunitaria all'Italia per il mancato divieto di detenzione e utilizzo di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per la fabbricazione di prodotti lattiero-caseari (l'UE ci tiene a che mangiamo "formaggio" quello che formaggio non è)? Oppure la mancata adozione della norma che avrebbe imposto di specificare il Paese di origine di tutti i prodotti non alimentari? Poi, penso che ognuno di voi ricordi quella nota puntata di Report, piuttosto chiara sulla questione.
E tutto questo, è ovvio e anche - mi si passi il termine - giusto, se lo si inquadra nella visione iperliberista e tecnocratica (cioè antidemocratica) che fa da sostrato ai Trattati europei, da Maastricht in poi (tralascio il TTIP... chi vuole si documenti).
Ecco che, allora, chi attacca i politici del PD non lo dovrebbe fare perché una multinazionale annuncia 127 esuberi, ma perché è stato proprio il PD (lo stesso dicasi per Forza Italia e per il M5s, comunque) a votare a permettere a quella visione di insinuarsi nel nostro ordinamento giuridico, e trionfare (se vogliamo trovare un atto simbolico, ancora più dell'adozione dell'Euro, basti pensare alla approvazione del Fiscal Compact e della norma costituzionale sul pareggio di bilancio). Non a caso, intellettuali provenienti da campi scientifici assai diversi hanno pubblicato libri il cui titolo evidenzia la dicotomia insanabile fra principi comunitari e principi costituzionali (qui e qui).
Ed anche i giornalisti, per una volta, potrebbero non fermarsi alla superficie, ma grattare la patina delle veline e dei comunicati, e fare quello che, ormai, fanno di meno: informare.
Ed i sindacati, quegli stessi sindacati che si stracciano le vesti, chiedono incontri, si incatenano ai cancelli, potrebbero studiare, comprendere, smettere una buona volta di fare i servi sciocchi del grande capitale che schiaccia quei lavoratori che la Triplice pensa di difendere? Sì, perché, ad oggi, i nostri sindacati sono questi:
Siena è un ingranaggio di un marchingegno assai più grande. Che è l'ora di smontare.

(Queste poche righe devono tutto - esclusi gli errori - al lavoro di Alberto Bagnai, di Luciano Barra Caracciolo, di Vladimiro Giacché. Forse, chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrebbe avere la pazienza di andare a leggere anche gli originali...).