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lunedì 30 novembre 2015

Il particulare ai tempi del Jobs Act (una pronuncia della Cassazione)

In attesa di dire la mia sulle fantasmagoriche dichiarazioni di Poletti (presumo: mercoledì; a ogni giorno la sua pena), volevo segnalare agli happy few la recente Cass., sez. lavoro, 18 novembre 2015, n. 23620.
Non sarà ricordata come sentenza pilastro, sicuramente; ma aiuta a ribadire bene chi ha il cetriolo dalla parte del manico, e chi da un'altra parte.
Bene, secondo gli Ermellini, a base del potere di licenziare per giustificato motivo oggettivo vi è "la necessità di ristrutturazione aziendale e la conseguente soppressione del posto spettante al lavoratore poi licenziato", anche se tale riorganizzazione, "realizzata con la soppressione di uno o più posti di lavoro, persegue... il fine di evitare perdite o incrementare il profitto". Infatti - ecco il delirio - al "controllo giudiziale sfugge necessariamente anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore..., considerato altresì che un aumento del profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio del suo patrimonio individuale, ma principalmente in un incremento degli utili dell'impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori" (quelli che restano, aggiungerei. La Cassazione però non lo scrive).
Volevo sottolineare due questioni.
La prima. La Suprema Corte si sforza in tutti i modi di ribadire che non le è permesso sindacare le scelte imprenditoriali, ma soltanto considerare l'oggettiva verificabilità della motivazione datoriale. Ricorda qualcosa? Ne abbiamo parlato al post precedente.
L'art. 18, c. 7, Statuto dei Lavoratori post riforma Fornero dispone che il giudice "può altresì applicare la... disciplina [del reintegro] nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base  del  licenziamento per giustificato motivo oggettivo; [invece], nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del... giustificato motivo [oggettivo],  il giudice applica la" mera tutela risarcitoria. L'art. 3, c. 1, D. Lgs. n. 23 del 2015, addirittura, prevede sempre e in ogni caso la sola tutela risarcitoria in caso di giustificato motivo oggettivo (anche se poi la giurisprudenza ha comunque chiarito che, in caso di "insussistenza giuridica" del fatto contestato, la reintegra è possibile checché ne pensi Matteo). La sentenza in questione va un po' in questo senso: il licenziamento, se motivato, è irreversibile; e ciò anche se il motivo è "sbagliato".
Bene. Questo per dire che, quando qualcuno si troverà a spasso perché one is megl' che du (nel senso che, al contrario della nota pubblicità, un lavoratore costa meno di due... "e tanto gli straordinari non glieli pago"), cioè nel caso estremo di licenziamento davvero per un mero incremento del profitto, beh... almeno saprà chi ringraziare.
(P.S. per i fenomeni che "ma hai appena detto che serve un motivo giuridicamente rilevante": a giustificazione della decisione dell'imprenditore, basterà addurre un avverso ciclo economico che ha un po' ridotto le commesse; in questi periodi fiorenti non mi sembra così improbabile...).
La seconda, che mi preme maggiormente. La Cassazione, sia pure nello stile paludato e concettoso che le è proprio, sembra voler mettere in guardia i lavoratori. Attenzione, si legge infatti tra le righe della sentenza, che il licenziamento di uno, potrebbe essere la salvezza di altri, perché in tanto saranno mantenuti i posti di lavoro, in quanto l'imprenditore potrà aumentare, a suo piacere, il proprio profitto. Dunque, si inferisce, non è il caso di solidarietà tra lavoratori, o di fronti condivisi di lotta; piuttosto ciascuno si rifugi nel suo particulare, applichi il detto mors tua vita mea (che "viene comunemente usata per descrivere efficacemente un comportamento connotato da caratteri opportunistici", dice il saggio) e vada avanti.
Questo, in Italia, sta succedendo da qualche anno, sia a livello di singola azienda, sia - soprattutto - a livello di categorie produttive, l'un contro l'altra armate. Mitologiche le campagne stampa, normalmente molto interessate, contro i dipendenti pubblici improduttivi (almeno si privatizzano le galline dalle uova d'oro: sanità, trasporto locale...), contro i notai, contro i tassisti, contro i farmacisti (così vendiamo i farmaci da banco alla Coop e alla Conad).
Le poche voci che si sono alzate contro questo atteggiamento, come quella di Alberto Bagnai, solo ora iniziano ad essere ascoltate. In passato, sono state snobbate, addirittura sono state calunniate e si è cercato di metterle a tacere. Ovvio anche qualche scatto d'ira.
Se i lavoratori vogliono mantenere qualche diritto, o provare a riprendersi quelli già persi, devono invece recuperare la propria coscienza e dignità di classe in un periodo storico in cui le classi sociali sono state abolite per decreto, devono comprendere quali sono i loro interessi comuni (che sono, in gran parte, coincidenti con quelli di alcune delle categorie sopra bistrattate, ma anche con quelli di professionisti, artigiani - evasori per definizione, sempre secondo certa stampa - e piccoli o medi imprenditori), devono identificare chi ha invece obiettivi incompatibili con il proprio benessere (e sa, tra l'altro, perseguirli molto bene).
Insomma. Più solidarietà. Meno narrazione. E anche un po' di palle.
Questo ci vuole. Lo si capisce anche dalle sentenze della Cassazione.

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