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lunedì 30 novembre 2015

Il particulare ai tempi del Jobs Act (una pronuncia della Cassazione)

In attesa di dire la mia sulle fantasmagoriche dichiarazioni di Poletti (presumo: mercoledì; a ogni giorno la sua pena), volevo segnalare agli happy few la recente Cass., sez. lavoro, 18 novembre 2015, n. 23620.
Non sarà ricordata come sentenza pilastro, sicuramente; ma aiuta a ribadire bene chi ha il cetriolo dalla parte del manico, e chi da un'altra parte.
Bene, secondo gli Ermellini, a base del potere di licenziare per giustificato motivo oggettivo vi è "la necessità di ristrutturazione aziendale e la conseguente soppressione del posto spettante al lavoratore poi licenziato", anche se tale riorganizzazione, "realizzata con la soppressione di uno o più posti di lavoro, persegue... il fine di evitare perdite o incrementare il profitto". Infatti - ecco il delirio - al "controllo giudiziale sfugge necessariamente anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall'imprenditore..., considerato altresì che un aumento del profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio del suo patrimonio individuale, ma principalmente in un incremento degli utili dell'impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori" (quelli che restano, aggiungerei. La Cassazione però non lo scrive).
Volevo sottolineare due questioni.
La prima. La Suprema Corte si sforza in tutti i modi di ribadire che non le è permesso sindacare le scelte imprenditoriali, ma soltanto considerare l'oggettiva verificabilità della motivazione datoriale. Ricorda qualcosa? Ne abbiamo parlato al post precedente.
L'art. 18, c. 7, Statuto dei Lavoratori post riforma Fornero dispone che il giudice "può altresì applicare la... disciplina [del reintegro] nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base  del  licenziamento per giustificato motivo oggettivo; [invece], nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del... giustificato motivo [oggettivo],  il giudice applica la" mera tutela risarcitoria. L'art. 3, c. 1, D. Lgs. n. 23 del 2015, addirittura, prevede sempre e in ogni caso la sola tutela risarcitoria in caso di giustificato motivo oggettivo (anche se poi la giurisprudenza ha comunque chiarito che, in caso di "insussistenza giuridica" del fatto contestato, la reintegra è possibile checché ne pensi Matteo). La sentenza in questione va un po' in questo senso: il licenziamento, se motivato, è irreversibile; e ciò anche se il motivo è "sbagliato".
Bene. Questo per dire che, quando qualcuno si troverà a spasso perché one is megl' che du (nel senso che, al contrario della nota pubblicità, un lavoratore costa meno di due... "e tanto gli straordinari non glieli pago"), cioè nel caso estremo di licenziamento davvero per un mero incremento del profitto, beh... almeno saprà chi ringraziare.
(P.S. per i fenomeni che "ma hai appena detto che serve un motivo giuridicamente rilevante": a giustificazione della decisione dell'imprenditore, basterà addurre un avverso ciclo economico che ha un po' ridotto le commesse; in questi periodi fiorenti non mi sembra così improbabile...).
La seconda, che mi preme maggiormente. La Cassazione, sia pure nello stile paludato e concettoso che le è proprio, sembra voler mettere in guardia i lavoratori. Attenzione, si legge infatti tra le righe della sentenza, che il licenziamento di uno, potrebbe essere la salvezza di altri, perché in tanto saranno mantenuti i posti di lavoro, in quanto l'imprenditore potrà aumentare, a suo piacere, il proprio profitto. Dunque, si inferisce, non è il caso di solidarietà tra lavoratori, o di fronti condivisi di lotta; piuttosto ciascuno si rifugi nel suo particulare, applichi il detto mors tua vita mea (che "viene comunemente usata per descrivere efficacemente un comportamento connotato da caratteri opportunistici", dice il saggio) e vada avanti.
Questo, in Italia, sta succedendo da qualche anno, sia a livello di singola azienda, sia - soprattutto - a livello di categorie produttive, l'un contro l'altra armate. Mitologiche le campagne stampa, normalmente molto interessate, contro i dipendenti pubblici improduttivi (almeno si privatizzano le galline dalle uova d'oro: sanità, trasporto locale...), contro i notai, contro i tassisti, contro i farmacisti (così vendiamo i farmaci da banco alla Coop e alla Conad).
Le poche voci che si sono alzate contro questo atteggiamento, come quella di Alberto Bagnai, solo ora iniziano ad essere ascoltate. In passato, sono state snobbate, addirittura sono state calunniate e si è cercato di metterle a tacere. Ovvio anche qualche scatto d'ira.
Se i lavoratori vogliono mantenere qualche diritto, o provare a riprendersi quelli già persi, devono invece recuperare la propria coscienza e dignità di classe in un periodo storico in cui le classi sociali sono state abolite per decreto, devono comprendere quali sono i loro interessi comuni (che sono, in gran parte, coincidenti con quelli di alcune delle categorie sopra bistrattate, ma anche con quelli di professionisti, artigiani - evasori per definizione, sempre secondo certa stampa - e piccoli o medi imprenditori), devono identificare chi ha invece obiettivi incompatibili con il proprio benessere (e sa, tra l'altro, perseguirli molto bene).
Insomma. Più solidarietà. Meno narrazione. E anche un po' di palle.
Questo ci vuole. Lo si capisce anche dalle sentenze della Cassazione.

lunedì 23 novembre 2015

L'art. 18, il contratto a tutele crescenti e... i primi licenziati

(Come al solito il post è troppo lungo. Per cui faccio anche la "versione breve", come il Vangelo della domenica. In sostanza, le parti in corsivo si possono saltare).

Quando ho iniziato a tenere questo blog, mi ero ripromesso di parlare a trecentosessanta gradi del Jobs Act, lasciando da parte soltanto il "contratto a tutele crescenti" (D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23). Sì, perché la polemica sul superamento dell'art. 18 - soprattutto dopo la devastazione del 2012 - mi sembrava sinceramente pretestuosa e forviante, un modo come un altro per evitare che si parlasse delle altre disposizioni dei Decreti.
Dunque, sulle prime, ho lasciato correre anche la notizia relativa ai primi tre licenziati con contratto a tutele crescenti. Nella mia ottica, sono semplicemente tre in più, dopo i milioni degli anni scorsi. Lo smarrimento, lo lascio a chi pensava che ridurre le tutele aiutasse ad assumere (quando, invece, aiuta ovviamente a licenziare).
Per i più distratti, comunque, si tratta della seguente notiziola:
Però, poi, ho letto questo, scritto nientepopodimeno che da Francesco Rotondi, un vero e proprio principio del foro (il che dimostra che il tipo umano del prof. Cottard non solo non è confinato in un romanzo, ancorché immortale, ma vive sempre, in ogni luogo in ogni epoca). Ne riporto qualche simpatico stralcio.
"Qualcuno davvero pensava che con il contratto a tutele crescenti non ci sarebbero stati licenziamenti?... La notizia... del primo licenziato con il contratto a tutele crescenti... in realtà non è una notizia... Le ragioni che hanno portato al licenziamento dell’ex operaio... dopo esser stato assunto 8 mesi prima con un contratto a tutele crescenti, bonus incluso, sono di natura economica. Ebbene, questo tipo di licenziamento era previsto anche con le vecchie regole, articolo 18 incluso... La questione vera non è la possibilità o meno di licenziare più o meno facilmente e nemmeno la tipologia della sanzione in caso di licenziamento illegittimo. La riforma del mercato del lavoro si muove attorno ad un principio ed un sistema diverso: il cuore della riforma riguarda ciò che accade o deve accadere nel momento in cui il lavoratore perde il posto di lavoro. A fronte di ciò il problema non è la sanzione..., bensì il recupero dell’occupazione e della professionalità. Per assurdo, seguendo il pervicace tema della reintegra si arriva a negare il vero ed unico diritto che deve essere assicurato e perseguito: il diritto al lavoro! ... Invece sembra che per una certa area il tema sia solo reintegrazione nel posto di lavoro o nulla! Come si poteva supporre, il reale cambiamento fatica ad entrare nel DNA soprattutto del sindacato... Si licenziava prima e si continuerà a licenziare oggi, ciò che si vuole tentare di cambiare è la sorte del lavoratore licenziato... Solo propaganda ed ignoranza: nel merito della questione, quello che è avvenuto con il contratto a tutele crescenti sarebbe avvenuto anche con le vecchie regole. Il problema, semmai, può essere in un utilizzo improprio, e in alcuni casi anche fraudolento del bonus di 8 mila euro l’anno... Ma qui non si tratta di fallimento del Jobs Act, semmai di fallimento del senso civico che difficilmente una 'legge' può far resuscitare nella nostra società attuale...".
Secondo il Nostro, dunque, il superamento dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori da parte del Decreto 23 non ha nulla a che fare con assunzioni o licenziamenti. Cosa riguardi, a dire il vero, non ce lo spiega, ma tant'è: se lo può permettere. Magari, però, questo originale punto di vista lo potrebbe comunicare almeno al nostro Presidente del Consiglio ed al suo Ministro del Lavoro, che mostrano idee un po' confuse in materia. Parlando addirittura, evidentemente a vanvera, di incremento di occupazione.
Probabilmente, sarò io che non capisco, per carità. D'altronde, in materia di rapporti di lavoro, è quasi sempre solo questione di terminologia:



Dice: un operaio, se era di troppo, si licenziava anche con l'art. 18, che prevedeva - appunto - anche il licenziamento economico. Vero, in parte (cioè: falso, per lo più).

Breve ripasso per mi' cuggino. L'art. 18, nella sua versione originaria, prevedeva il reintegro del lavoratore, occupato in una azienda con oltre 15 dipendenti, in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Il licenziamento era "illegittimo" quando si riscontrava la mancanza di:
  1. una giusta causa (integrata da un comportamento talmente grave da non permettere la continuazione del rapporto di lavoro neanche in via provvisoria: art. 2119, c.c.; su detta "clausola generale", cfr. Cass., 24 marzo 2015, n. 5878) o un giustificato motivo soggettivo (comportamenti che costituiscono inadempimento degli obblighi contrattuali, come l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro, minacce e/o percosse, reiterate violazioni del codice disciplinare, ma anche lo "scarso rendimento": v. L. n. 604 del 1966, nonché Trib. Firenze, sez. lavoro, 6 novembre 2014, in Lavoro nella Giur., 2015, 4, 420). Si parla, in questo caso, di "licenziamento disciplinare". Il licenziamento disciplinare, in quanto tale, era peraltro illegittimo anche laddove non fosse assicurato un effettivo diritto di difesa al dipendente: per la sua validità, pertanto, doveva verificarsi l'affissione in bacheca del codice disciplinare, la tempestiva e circostanza contestazione del comportamento sanzionando (per un caso di "contestazione generica": v. Cass., 23 febbraio 2015, n. 3535; per l'obbligo di tempestività, p.e. Trib. Firenze, sez. lavoro, 9 gennaio 2015, in Lavoro nella Giur., 2015, 6, 644 e Trib. Bologna, sez. lavoro, 11 novembre 2014, inedita), il rispetto - in generale - dell'art. 7 del medesimo Statuto dei lavoratori.
  2. un giustificato motivo oggettivo (cioè ragioni attinenti ad una eventuale crisi aziendale, oppure motivi di natura economica e/o tecnica, quali una riorganizzazione del lavoro, ecc.: v. Trib. Firenze, 11 novembre 2011, in Lavoro nella Giur., 2015, 5, 529). Ovviamente, il giustificato motivo oggettivo imponeva prima l'espletamento di un tentativo di "repêchage". In merito all'onere della prova, infine, scrive Trib. Firenze, sez. lavoro, 7 novembre 2014 (in Lavoro nella Giur., 2015, 4, 421): "in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'effettività delle ragioni che giustificano l'operazione di riassetto".
Non è chiaro se l'avv. Rotondi si riferisca all'art. 18 "prima maniera" oppure a quello di oggi. Sì, perché la norma - prima di essere superata dal Jobs Act - era già stata completamente snaturata dalla L. 92 del 2012, concepita dalla nostra Madonnina Laica di Civitavecchia.

La novella, in effetti, prevede quattro livelli di protezione: a) quello della tutela reale piena, per i casi di licenziamento discriminatorio o per i licenziamenti “orali” (la disposizione, peraltro, si applica ora indipendentemente dal limite dei 15 dipendenti e si estende ai dirigenti); b) quello della tutela reale attenuata (nel caso di licenziamento disciplinare: ove sia provata l’insussistenza del fatto contestato, ovvero quando la legge o i CCNL prevedono, per quel fatto, una sanzione meno grave rispetto al licenziamento. La disposizione non chiarisce se il fatto debba esser interpretato come fatto materiale o come fatto giuridico: la giurisprudenza va nel senso del fatto giuridico, cioè del fatto considerato alla luce di tutte le sue componenti, quali dolo, colpa, attenuanti, ecc.: per una interpretazione più restrittiva cfr. però Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in Foro It., 2014, 12, 1, 3418); c) quello della tutela indennitaria forte (tra 12 e 24 mensilità, in caso di mancanza di un giustificato motivo oggettivo: laddove detto "motivo" sia "manifestamente insussistente", eccezionalmente è previsto il reintegro); d) quello della tutela indennitaria debole (da 6 e 12 mensilità, in caso di licenziamenti disciplinari con mancato rispetto del requisito formale di motivazione, perché mancante o troppo generica: Trib. Roma, sez. lavoro, 17 novembre 2014, in Lavoro nella Giur., 2015, 4, 382 nota di Giorgi). Come al solito, l'indennizzo è legato alla retribuzione: come sempre, chi guadagna meno è in pole position per il cetriolo più grosso. D'altronde gli ultimi saranno i primi, ecc. ecc..
Apro anche una parentesi per chiarire cosa è il licenziamento discriminatorio. Per l'art. 18 post Fornero, è quello che viola l'art. 3, L. 108 del 1990 (che richiama gli artt. 4, L. n. 604 del 1966 e 15, Statuto dei Lavoratori), quello intimato in concomitanza di matrimonio, quello che non rispetta le norme a tutela della maternità, quello contrario alle disposizioni in materia di tutela dei disabili, ma anche - in generale - quello con motivo illecito determinate ai sensi dell'art. 1345, c.c. (caso tipico: il licenziamo ritorsivo, p.e. perché il lavoratore - spesso la lavoratrice - non ha accettato il part-time). Matteo, invece, all'art. 2, D. Lgs. n. 23 del 2015, si limita a fare riferimento all'art. 15, L. n. 300/1970 (discriminazioni per attività sindacale, o partecipazione ad uno sciopero, o motivi politici, religiosi, razziali, di lingua, di sesso, di handicap, o di età, orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore, ecc.), al D. Lgs. n. 68 del 1999, e a non meglio precisati "altri casi previsti dalla legge". Ma tant'è. Lui è così. Un tweet e via.
Non entro invece nella delirante procedura contenziosa prevista dalla Fornero. Spero che a nessuno tocchi esperirla.

Dunque, un operaio si sgombrava per motivi economici anche prima del 2012 (sia pure con qualche difficoltà, connessa alla necessità di una riorganizzazione e all'espletamento di un tentativo di repêchage), anche tra il 2012 e il 2015 (rischiando comunque di pagare il fio, sia pure solo a livello economico), ma certo - dopo giugno 2015 - è tutta un'altra vita. Sì, perché qual è il personale apporto di Matteo in questo campo (quello, cioè, della distruzione delle tutele dei lavoratori)? Sono due: la totale sparizione della tutela reale in caso di licenziamento economico e, soprattutto, la commisurazione dell'indennità risarcitoria all'anzianità di servizio (1 o 2 mensilità per anno di lavoro, con i massimi uguali a quelli della Fornero: art. 3, c. 1, e art. 4, D. Lgs. n. 23 del 2015). Niente più rischi di sanzioni giudiziarie elevate, semplicemente si applica il sistema LIFO al magazzino-lavoratori. Genio assoluto.

In realtà Matteo apporta anche qualche altra piccola modifica qua e là. Alla cattiva riscrittura della disposizione sul licenziamento discriminatorio ho accennato sopra. Tra le altre, mi piace ricordare il voluto riferimento - si veda quanto detto sopra - alla necessità, per la reintegra a seguito di licenziamento disciplinare, al "fatto materiale" (art. 3, c. 2). La giurisprudenza, però, non ha capitolato, e stavolta il colpo è andato a vuoto.
Per chi fosse interessato a tutta la questione, v. più approfonditamente Buconi, Tutele crescenti: il sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, in Lavoro nella Giur., 2015, 11, 993.

Certo che il fatto che esistano licenziamenti è indipendente dal Jobs Act; certo che nel Jobs Act ci sono anche norme sul mercato del lavoro, sugli ammortizzatori sociali, sulla riqualificazione professionale. Questo è indubbio. Ma anche inconferente. Quello che l'avv. Rotondi nota solo di sfuggita è che, molto semplicemente, il D. Lgs. n. 23 del 2015 oggettivamente aiuta chi vuole licenziare, non serve a nulla a chi vuol assumere.
A chi assume, invece, hanno fatto molto comodo gli sgravi fiscali del governo. Francesco Rotondi questo, bontà sua, lo nota, ma solo per buttarla in vacca auto-razzista. Non si tratta di un fallimento del Jobs Act, no, fosse mai!, si tratta di un fallimento del senso civico di noi italiani mandolinisti, ladri, pizzaioli che non fanno fare la fattura all'idraulico. In Germania, per esempio, questi strumenti non li hanno mai usati, la Siemens - per citare un'azienda particolarmente integerrima - avrebbe orrore di certi mezzucci.
Francesco Rotondi, invece, non si chiede (visto che lo sa) perché le risorse pubbliche in questione siano state utilizzate, come al solito, in politiche supply-side e non di rilancio della domanda. Il perché, come al solito, deriva dal fatto che, nell'Unione Europea, siamo liberi di fare solo quello che ci dicono. Perché poi ci dicano proprio questo (tradotto: perché le élites europee perseguano pervicacemente un sistema economico volto alla continua compressione salariale, alla distruzione del mercato interno... Monti docet, al mercantilismo aggressivo nei confronti degli altri Paesi, perché in una parola si adattino al credo economico tedesco), non ve lo spiego io, perché non sono un economista. Lo potete comodamente leggere qui, però.

mercoledì 18 novembre 2015

Mobbing e demansionamento: una nuova pronuncia della Cassazione

(Oggi si parla davvero di diritto. Però in italiano. Dunque, per i super-esperti, si fa sin da subito presente che mancano nel testo qui sotto le seguenti parole: ultroneo, ermeneutica, teleologico, eziologia. Detto questo: sebbene la questione fuoriesca un po' dalla consuetudine di questo blog, la sentenza mi pare davvero interessante, ed un chiarimento sul mobbing comunque utile). 

È stata di recente depositata una importante sentenza della Corte di Cassazione (sent. n. 22635 del 2015), che ha chiarito come, anche nel caso in cui il giudice non accolga una domanda di riconoscimento di mobbing (basata su una serie di circostanze tra cui quella, provata, di avvenuto demansionamento), pur tuttavia il datore di lavoro può essere condannato al risarcimento del danno biologico (e alla professionalità) subito dal dipendente proprio in connessione del citato demansionamento.
La pronuncia, come detto, risulta particolarmente interessante.
Per prima cosa, ci dà l'occasione per chiarire che cosa è il mobbing. In Italia, un reato con questo nome non esiste. Esistono però tante norme che, in qualche modo, vi si ricollegano: in campo civile e amministrativo gli artt. 2049, 2087 e  2103 c.c. (obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, divieto di demansionamento, responsabilità del datore per i fatti lesivi dei dipendenti: tale responsabilità ex art. 2049 c.c. è trattata espressamente da Cass., 15 maggio 2015, n. 10037), il D. Lgs. n. 81 del 2008 (tutela della salute nei luoghi di lavoro) e l'art. 15 dello Statuto lavoratori (norma che sanziona gli atti discriminatori in danno del lavoratore); in sede penale gli artt. 572 c.p. (maltrattamenti a persona sottoposta all'altrui autorità), 582 e 610 c.p. (lesioni e/o minacce anche psichiche), 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione). In generale, comunque, si definisce il mobbing come una serie di atti vessatori, collegati tra loro allo scopo precipuo di produrre l’emarginazione del soggetto passivo.
(I) Una "serie" di atti vessatori: vi devono essere dunque plurimi comportamenti di carattere persecutorio, posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo (senza che gli atti debbano necessariamente essere illeciti: v. Cass., sent. 19 gennaio 1999, n. 475, in relazione a continue visite fiscali). (II) Con uno "scopo" che li colleghi: vi deve essere l'elemento soggettivo, rappresentato da un intento persecutorio comune a tutti i comportamenti. (III) Tali da produrre un danno: va dunque provato il nesso causale fra comportamenti e pregiudizio del lavoratore.
Scrive Cass., sent. 31 maggio 2011, n. 12048 (per chi è interessato: v. Lavoro nella Giur., 2011, 8, 844; Dir. e Pratica Lav., 2012, 1, 64; Dir. e Pratica Lav., 2013, 26, 1683): "per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità".
Per capire se determinati comportamenti risultano mobbizzanti, si fa talvolta riferimento al c.d. "Metodo Ege", che isola sette requisiti specifici: Ambiente (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro), Frequenza (le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese), Durata (il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi), Tipo di azioni ostili (almeno due tipi tra: (i) attacchi ai contatti umani, (ii) isolamento sistematico, (iii) cambiamenti di mansioni, (iv) attacchi alla reputazione, (v) violenza e minacce di violenza), Dislivello tra gli antagonisti (la vittima è in una posizione costante di inferiorità).
Chi è vittima di mobbing può pacificamente chiedere gli eventuali danni esistenziali, nel quadro, fra l'altro, di una azione di natura contrattuale (ex art. 2087, c.c.).
Dunque, dal punto di vista dell'onere della prova, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psicofisica del prestatore, mentre grava sul lavoratore l'accertamento della correlazione tra lesione alla integrità psicofisica e l’eventuale inadempimento datoriale; dal punto di vista del contenuto, ai sensi dell’art. 2059 c.c. "il danno non patrimoniale deve essere risarcito... nei casi determinati dalla legge" (intendendosi per "casi di legge" tutti quelli che comportano la "lesione di un interesse costituzionalmente garantito": C. Cost., sent. n. 203 del 2013). Tale danno non patrimoniale, denominato nei più svariati modi (danno morale, quale turbamento transeunte dello stato d'animo; danno biologico, cioè la lesione psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che incide sul suo quotidiano e sulle sue relazioni ma che prescinde dalla sua capacità reddituale; danno esistenziale, che, ledendo altri diritti costituzionalmente tutelati, compromette la possibilità di svolgere le attività che realizzano la persona umana), è tuttavia una "categoria generale, non suscettibile di suddivisione" se non a livello descrittivo (cfr. sul punto la nota Cass., SS.UU., sent. n. 26972 del 2008).
Secondariamente, il rapporto tra mobbing e demansionamento. Da quanto precede si capisce, dunque, che il solo demansionamento non è di per sé mobbing, "occorrendo [piuttosto], al fine della deduzione del mobbing, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all'emarginazione del dipendente” (Cass., ,sent. 2 aprile 2013, n. 7985)
La sentenza in commento è però, da questo punto di vista, piuttosto innovativa: secondo la Cassazione, infatti, le domande risarcitorie (il c.d. petitum) devono essere individuate dal giudice (che, come è noto, non può giudicare oltre quanto richiestogli) non soltanto sulla base di quanto riportato nelle conclusioni dell'atto di citazione, ma partendo dalla verifica del "contenuto sostanziale" dell'intero atto introduttivo. Dunque,secondo la Suprema Corte, nella domanda di risarcimento da mobbing è ricompresa, di per sé, anche quella, di minor portata, volta al risarcimento dei danni da demansionamento. Il giudice che esclude che il semplice demansionamento (provato in giudizio) integri la più ampia fattispecie di mobbing (non provata in giudizio) ben può condannare il datore di lavoro per la violazione acclarata (art. 2103, c.c.), anche senza una specifica richiesta in tal senso da parte del dipendente. (Tralascio qui i riflessi della modifica dell'art. 2103, c.c., portata dal Jobs Act: ne parlo qui e qui).
Ma come individuare i "danni"? E come valutarli?
Intanto, chiariamo che, anche in questo caso, la responsabilità datoriale ha natura contrattuale (ex art. 2103, c.c., anziché ex art. 2087, c.c.).
Ciò premesso, secondo alcuni al lavoratore demansionato deve essere riconosciuto un danno risarcibile da quantificare in via equitativa senza che la necessità per l'attore di provare alcunché (p.e. Cass. n. 11727 del 1999; Cass. n. 10713 del 2010; Cass., n. 7667 del 2013), mentre secondo più ampia corrente giurisprudenziale, è onere del lavoratore la “specifica allegazione” dei pregiudizi subiti in campo sia reddituale sia relazionale. Cass., SS.UU., sent. n. 6572 del 2006 ha confermato questo secondo indirizzo (nesso di causalità fra inadempimento e danno, ai sensi dell'art. 1223, c.c.; precisazione di quale, fra le molteplici forme di danno da dequalificazione, il lavoratore ritenga di aver subito, fornendo, a tal proposito, ogni elemento utile per la ricostruzione della loro entità); tuttavia, ancora Cass., sent. 9 settembre 2014, n. 18965, ha riaffermato la legittimità della liquidazione in via equitativa del danno, purché siano indicati "i criteri seguiti per determinare l'entità del risarcimento, risultando il... potere discrezionale [del Giudice di merito] sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell'ammontare dei danni liquidati".

(Tanto vi dovevo).

domenica 15 novembre 2015

OT: Parigi, il terrorismo e il "più Europa"

La tremenda strage di Parigi ha suscitato - sebbene non sia stata l'unica, in questi giorni - ovvie reazioni di dolore, rabbia, sdegno.
Le prese di posizione sono state le più disparate: "è una guerra contro il nostro stile di vita e la libertà, e per difenderci ora dobbiamo attaccare", si presume la Siria, sebbene non si specifichi come (Sallusti); "in una società dove i valori della democrazia sono stati usurpati dal populismo, dalla xenofobia e dalla violenza non resta che rivolgersi a chi offre un’identità, un senso di appartenenza, e quindi al nazionalismo o al fondamentalismo religioso", per cui la scelta - sembra di capire - è fra la Le Pen e l'Isis (Giuliana Sgrena).
La rete, da par suo, si è divisa, come fra torinisti e juventini, o romanisti e laziali: ha ragione la Fallaci!, no ha ragione Terzani! E così via sloganeggiando.
Ora, a mente fredda, a me pare che in tutti questi discorsi ci sia una parte di verità, il che equivale a dire che c'è anche una parte, piuttosto elevata, di errore. Soprattutto, mi pare di riscontrare un vizio di fondo, e cioè la confusione fra problemi tra loro sì interrelati, ma in fondo assai differenti. Tra questi il terrorismo, l'Islam, l'immigrazione.
Si ripete la famosa storia russa dell'elefante nel museo di storia naturale: si perde di vista quello che è ovvio. Alcuni e non tutti gli islamici sono terroristi, così come alcuni e non tutti i terroristi sono musulmani (essendovene anche di cristiani, per dire); l'Islam, in alcune sue forme integraliste, soprattutto wahabite, è una religione aggressiva, ma vi sono molte forme di islam (che, come dimostra il link sopra, si amano da morire... a proposito: il primo risultato dell'attacco a Parigi è stato la cancellazione del viaggio in Europa di Rohani); i flussi migratori pongono una serie di problemi, tra cui anche (ma certo non solo) quello dell'infiltrazione di terroristi, i quali tuttavia sempre più spesso sono europei, per lo più immigrati di seconda o terza generazione, magari tornati dalla jihad (come è successo, appunto, a Parigi).
Dunque prendersela con tutti i musulmani è da dementi, mentre sarebbe un po' più intelligente cercare di prevenire, e poi eventualmente di punire, i musulmani (o i cristiani, o gli induisti, o gli atei) che delinquono. Il terrorismo va dunque combattuto, per prima cosa, nel quadro dello Stato "nazionale" (sulla questione, ci ritorno sotto), come problema interno: con la polizia, con l'intelligence, con il rispetto delle norme di legge senza isterismi ma neanche con malcelata paura (noi siamo tranquilli, perché a capo delle operazioni abbiamo Angelino).
Infatti, con la grande consequenzialità che sempre lo contraddistingue, Hollande oggi ha bombardato Raqqa (mancandola, ça va sans dire). Uno dei terroristi di Parigi, nel frattempo, continua ad aggirarsi indisturbato per l'Europa, che a confronto il fantasma del comunismo gli fa un baffo. Sempre l'ineffabile Hollande, comunque, ha deciso di chiudere le frontiere (in questo caso, viene a fagiolo il proverbio: dopo che i buoi erano già scappati) e ha promesso ai suoi contentissimi elettori un qualche provvedimento restrittivo delle libertà costituzionali, tipo Patriot Act. Riporto qui sotto tutto il discorso. Però, a essere onesti, basta vedere la faccia.



(Apro lunga parentesi. Non voglio con questo dire che il terrorismo non debba essere combattuto anche fuori casa. Per chiarezza: concordo con Meluzzi che dice che "con Isis pensare di tagliare le unghie ai tentacoli senza schiacciare militarmente la testa della piovra è una stupidaggine propagandistica"; però, per prima cosa, magari Isis bisognava non crearlo. Se gli USA e i loro amichetti-canaglia arabi, leggi Arabia Saudita e Qatar, avessero evitato di finanziare Al Qaeda prima e l'Isis poi in funzione antisovietica e antirussa (oltre che anti-iraniana), forse oggi non ci troveremmo in queste pezze. Se la Turchia non massacrasse i Kurdi con la scusa di far la guerra all'Isis, uguale. Secondariamente, in qualche modo la situazione in Siria, in Libia, in Egitto, e si potrebbe continuare, va risolta. Ma visti i risultati di anni di bombardamenti ad minchiam, forse ora sarebbe il caso di cambiare strategia... o no? Sopratutto, quanto è intelligente continuare a voler isolare la Russia, comportandoci da bulletti del quartiere in Ucraina, in Siria, perfino nell'atletica? E quanto è furbo non trovare, in quei luoghi, degli interlocutori affidabili per ricostruire l'area, indipendentemente da quanto stanno simpatici allo Zia Sam? Su questo, ad ogni modo, rimando a chi ne sa più di me, oppure usate Google, c'è apposta. Chiusa parentesi).
Parlavo sopra dello "Stato nazionale", di quell'entità, cioè, che ancora riassume - piaccia o no - l'identità di un popolo. Se quest'identità è forte, quel popolo si può confrontare e anche contaminare con il diverso, ma se quest'identità si perde, i più vengono assimilati, i pochi travolti nel gorgo della xenofobia e della violenza.
I flussi migratori non devono essere uno "scontro di civiltà", bensì fenomeni da governare, sotto il profilo dell'ordine pubblico (i profughi sono profughi ed i clandestini sono clandestini, le frontiere a Dio piacendo esistono ancora, e dunque le necessarie conseguenze devono essere tratte) e degli equilibri economici e sociali di un Paese (se facciamo entrare tutti coloro che vogliono, come dice la Boldrini, ma poi non diamo a nessuno un lavoro e li stipiamo nelle periferie più degradate che ci vengono in mente, poi non ci lamentiamo degli attacchi kamikaze).
Chi parla dei "migranti" (ora si dice così, neanche fossero rondini) in termini diversi, fa i filmini sulla famigliola siriana ricongiunta a Berlino, oppure mostra poveri bambini esanimi su qualche spiaggia turca, è perché ha un preciso interesse (oppure serve, magari senza neanche saperlo, l'interesse di qualcun altro). I vecchietti, per esempio, ricorderanno "l'esercito industriale di riserva" di cui si parlava in un vecchio libro un po' démodé: oggi questo esercito marcia compatto da molto lontano (e poi, come è successo in Germania, travolge chi pensava di governarlo, ma glissons).
Qualche esempio per gli happy few. Uniamo i puntini:



Quando non si portano i bambini a vedere una mostra artistica, oppure quando si nega il Presepe, non dobbiamo prendercela con coloro che, giunti in Italia (o in Spagna, o in Inghilterra), non credono in quello che il Presepe rappresenta o si sentono offesi (?) da determinate immagini religiose. Bisogna arrabbiarsi con una società che, per vigliaccheria e nichilismo, vigliaccheria e nichilismo, non riconosce più i propri valori fondanti e, dunque, si inchina - in nome di una malintesa tolleranza - ai valori degli altri: anche se questi valori sono lo chador, o il niqab, o soltanto il divieto di mangiare la porchetta di Ariccia.
Il che non vuol dire che tutti i cittadini dei Paesi europei debbano essere Cristiani. Si può essere serenamente atei e capire che, se siamo quello che siamo, è perché abbiamo appreso la lezione di Gesù, di Socrate, Pericle, Alessandro, Giustiniano, Francesco, Montesquieu. Dobbiamo cioè tornare a riconoscere che quel bagaglio culturale rappresenta radici che, se fossero irrimediabilmente tagliate, porterebbero a disseccare del tutto la pianta, i nostri figli.
I miei, per dire, guardano spesso i cartoni animati della Walt Disney e della Pixar, sulla cui base si potrebbe serenamente concludere che Natale è la festa di un ciccione vestito di rosso che rutta dopo aver bevuto troppa Coca Cola, in cui ci si scambiano i regali e - chissà perché - siamo tutti più buoni, mentre Pasqua segna il primo giorno serio di primavera, spesso ahimé rovinato da un coniglio sotto LSD che lascia uova colorate da per tutto. Il meglio l'ho visto raggiungere però in una puntata natalizia di Handy Manny (chi ha bambini sotto i cinque anni sa di che parlo), in cui gli sceneggiatori si sono lanciati in una storia comparata delle religioni che spazia da Hanukkah alla Kwanzaa. Grave mancanza, l'assenza di un riferimento al Sole Invitto. Alla fine di questo percorso, c'è soltanto un approdo: il nichilismo, cioè il padre di tutte le mostruosità che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli della nostra storia.
In Russia, dopo la tragedia dell'aereo caduto nel Sinai, pregavano. In Francia, cantavano la Marsigliese. I nostri orrendi politici, invece, hanno come al solito risposto nel modo più bieco, cioè chiedendo "più Europa" (che significa: meno democrazia e più potere tecnocratico all'estero del Paese), cioè la negazione di una identità religiosa, la negazione di una identità nazionale, il Moloch orrendo di un neo-liberismo cieco che si fa, tra l'altro, neo-nazionalismo aggressivo nel momento stesso in cui ambisce a distruggere gli Stati-Nazione (vedi il caso Ucraino: ma questo leggetelo qui). La lettera del nostro Presidente della Repubblica alla famiglia della povera ragazza uccisa al Bataclan fa, da questo punto di vista, veramente sussultare (tra parentesi: ma una segretaria che sappia dattilografare, in tutto il Quirinale, non c'era proprio?).
D'altronde, appena vi è una manifestazione di Piazza, non mancano mai - in Italia almeno - le bandiere blu con le stelline gialle che, come ognun ben sa, ciascun italiano tiene in casa propria, insieme alla bandiera dell'Italia, da tirare fuori ogni quattro anno per i Mondiali di calcio...
Magari questa non è una guerra. Ma se non ci svegliamo, riappropriandoci degli spazi di democrazia che ci competono, noi abbiamo già perso.

venerdì 6 novembre 2015

Verso il precariato e oltre: Buzz Lightyear spiega i "voucher"

Parliamoci chiaro: i "voucher" (già fa incazzare solo il nome) sono il più grande successo del Jobs Act. Sì, sì, proprio loro, quei buoni che si comprano dal tabacchino (mi correggo, "rivendite autorizzate") e, insomma, fanno davvero tanto lavoro stabile e di qualità.
Siccome si tratta, come ognun capisce, di un argomento particolarmente raffinato a livello giuridico, e io non Enea, non Paulo sono; me degno a ciò, né io né altri 'l crede, ho deciso di farmi aiutare da un insegnate di eccezione. Niente po' po' di meno che da Buzz Lightyear, cioè dall'archetipo di colui che sa di sapere (e invece non sa una fava), ma più simpatico (e che comunque ben presto, già nel primo film, si ravvede).
Intanto, il buon Buzz, come prima cosa, mi ha spiegato che con i "voucher" Renzi non c'entra nulla, e che è colpa del Berlusca. (Prima regola di Buzz: dare la colpa al Berlusca, o - in assenza di tale possibilità - buttarla in vacca. Di solito funziona.)
Ovviamente Buzz ha, come sempre, ragione: i "voucher" erano già stati inseriti dagli artt. 70 e ss. del D. Lgs. n. 276 del 2003 (Legge Biagi), per remunerare le "prestazioni occasionali di tipo accessorio (cioè - in parole povere - il lavoro, spesso temporaneo, di colf, badanti, giardinieri, insegnanti privati, per compensi annui non superiori a 5.000 Euro) svolti da "soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne" (disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati, disabili, extracomunitari: art. 71).
All'epoca, però, l'idea fu un flop. Ed era giusto così, nel senso che - facendo riferimento a prestazioni accessorio - anche il ricorso ai voucher non poteva che essere accessorio. Però, siccome l'uomo è per sua natura filantropo, vi fu chi non mancò di notare alcune caratteristiche assai appetibili di questi fantastici "buoni": principalmente, quella di non costituire un vero e proprio rapporto di lavoro (per cui in Italia abbiamo i subordinati, i parasubordinati, gli autonomi e... i voucheristi: non lo dico io, ma l'INPS in due - due - circolari: la n. 88/2009 e la n. 17/2010) e quella di comportare una contribuzione previdenziale molto inferiore a quella di un dipendente (25% contro 38%: d'altronde ai "voucheristi" non spetta tutela per malattia, maternità e disoccupazione).
Dunque, siccome già vi era chi fiutava l'affare, tutti ad accorrere al capezzale del malato per vedere come curarlo. Risultato: solo l'art. 70 è stato modificato nel 2004, due volte nel 2005, nel 2008, due volte nel 2009, nel 2010, due volte nel 2011, fino a che, stremato, è stato integralmente sostituito nel 2012 da Nostra Signora delle Lacrime ed infine ha cessato di soffrire con Matteo, che riscritto il tutto nel D. Lgs. n. 81 del 2015.
Un passo per volta, chiaramente. Verso l'infinito e oltre, ma con juicio Pedro (frase, peraltro, ripresa da uno che al nostro Buzz assomiglia molto, ma coniata molto prima da un altro, assai più riflessivo). Dunque, prima si è permesso di utilizzare i voucher in agricoltura (per vendemmie, raccolta di pomodori e olive, ecc.), poi si è allargata la platea degli utilizzatori a "qualsiasi settore produttivo il sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza da parte di giovani con meno di venticinque anni di età", infine si è data la possibilità di utilizzare i voucher anche agli enti locali. Nel 2010, si sono aggiunti fra i possibili fruitori cassaintegrati, iscritti a liste di mobilità, lavoratori a part-time ed è stato eliminato il massimale di giornate lavorabili presso un solo committente.
Infatti, la Fornero la riscrive da capo e la snatura. (Quindi in questo caso, la colpa, più che di Matteo è effettivamente di Elsa nostra. Ma per me, questo governo in sostanza è il Monti-ter, dunque in concreto fa poca differenza.)
Dunque, dal 2012 è "lavoro accessorio" quello "di natura meramente occasionale" che "non dà luogo... a compensi superiori a 5.000 Euro" annui (di cui non più di 2.000 da uno stesso committente). Se i voucheristi sono cassintegrati o in liste di mobilità o ricevono l'assegno di disoccupazione, il limite massimo percepibile nell'anno è di 3.000 Euro.
Punto.
Dunque, i voucher possono essere utilizzati da chiunque, imprenditore o meno, con limitazioni risibili (sono vietati in caso di appalto e limitati in agricoltura). Detto in professorese: "il lavoro accessorio non è più relegato ad ipotesi marginali, ma - del tutto affrancato dalla vocazione sociale e di politica attiva che lo animava - costituisce modalità ordinaria per la regolazione di tutti i rapporti di lavoro" (Bollani, La nuova disciplina del lavoro occasionale di tipo accessorio, in AA.VV. (a cura di), Previdenza, mercato, lavoro, competitività, Torino, 2008, 404); pertanto "la natura occasionale ed accessoria della prestazione - e dunque la legittimità del ricorso al lavoro accessorio - deve essere valutata... in base all'unico criterio quantitativo di 5.000 Euro nel corso dell'anno solare" (Putrignano, in Argomenti Dir. Lav., 2014, 3, 811).
D'altronde, tutti ci siamo imbattuti in commesse a voucher nei negozi di abbigliamento, in banconiste a voucher in pizzeria, in qualche caso, in autotrasportatori a voucher in autostrada (la loro esatta localizzazione sarà a cura di Onda Verde, al fine di minimizzare incidenti e relative code).
Il meccanismo, come si vede, tende leggermente a spingere i lavoratori verso il precariato sottopagato e sotto-contribuito, i datori di lavoro verso il vero e proprio lavoro nero (ma solo perché siamo italiani, negli altri Paesi non succederebbe mai). Tanto per dare un'idea:

Oh, ora puoi parlare del Jobs Act!, mi intima Buzz. Che ha fatto Matteo, in questo campo?, chiedo. Buzz mi guarda malissimo. Come, non lo sai? Lo sanno tutti: ha aumentato il tetto massimo percepibile da 5.000 Euro a 7.000 (che poi, lordi, sono 9.333) ed ha confermato che i voucher non danno diritto a forme di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, malattia e maternità. (Potete controllare gli artt. 48 e ss. de D. Lgs. n. 81 del 2015, se volete. Ma questo è il succo).
Che lo sappiano tutti è proprio vero. I "buoni di lavoro" acquistati nel 2008 non superano il mezzo milione, nel 2009 siamo già a 2 milioni e 700 mila, poi si registra il boom: 9 milioni e 700 mila nel 2010, 15 milioni e 300 mila nel 2011. Fra il 2012 e il 2014 l'incremento è inarrestabile: 24 milioni nel 2012, addirittura 69 milioni del 2014. Nei primi otto mesi del 2015 sono stati venduti più di 71 milioni di "voucher".
Questo, d'altronde, mi sembra faccia capire abbastanza bene l'andazzo.
Marta Fana, che non è Buzz Lightyear (vedi), in un suo articolo ha notato due dati interessati: il primo, che in media, il numero di voucher per lavoratore aumenta da 19 buoni riscossi nel 2008 ai 62 del 2014, per un reddito annuale medio che cresce da 143 Euro a 465 Euro nel 2014; il secondo, che l’età media dei lavoratori interessati dai "voucher" decresce nel tempo, stabilizzandosi intorno ai 37 anni di età. Tradotto: esiste ormai una generazione che, mai entrata o espulsa dal mondo del lavoro, ormai vive proprio di questo estremo precariato.
Per dirla con le di lei parole:
Quando si riflette su una situazione del genere, non si riesce più a scherzare.