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lunedì 12 ottobre 2015

Franza o Spagna... (demansionamento, deflazione salariale, politiche del lavoro)

Tra i fatti salienti di questi giorni, una certa eco ha suscitato il vivace scambio di idee fra il top management di Air France ed i dipendenti, i quali continuano a non comprendere come un problema nasconda sempre un'opportunità (tra l'altro, mal gliene ha incolto).


In Italia, invece, le cose vanno molto meglio.

Diciamo che non sono cose nuove, né che ci colgono impreparati. Dei problemini francesi, già si occupava Alberto Bagnai la scorsa primavera, mentre Andrea Lignini ha ben spiegato come sia possibile che, in certi casi, "riforma" e "cetriolo" siano sinonimi.

Però la simpatica uscita di Squinzi è comunque interessante. Cosa ci dice il nostro baldo imprenditore internazionale? "Le posizioni del sindacato prima di tutto sono irrealistiche sul piano monetario e poi anche per il futuro del nostro Paese" (la maiuscola a Paese la metto io per carità di Patria, perché il giornaletto rosa che ha pubblicato l'articolo se ne è ovviamente dimenticato). "Se non sono capaci di trovare un accordo per creare un modello di contratto più avanzato e in linea coi tempi che ci impone l'economica globale c'è da essere veramente preoccupati". I problemi sono due: lo scarto degli aumenti salariali proposti rispetto all'inflazione reale (con lo spettro, per di più, dell'introduzione per legge di un salario minimo che porti a una riduzione generalizzata degli stipendi); l'applicazione delle nuove regole sul demansionamento.

Al solito, l'Euro non ci protegge, la libertà di circolazione dei capitali funziona un po' meglio di quella dei lavoratori, competiamo per via di deflazione salariale. Il tutto è talmente lampante, che l'ha capito qualcuno anche nel PD.



Qui quello che interessa è piuttosto il rapporto fra la chiusura di Squinzi e il Jobs Act. La parolina magica, in questo caso, è demansionamento.

Partiamo come al solito dal passato. Secondo l'art. 2103, c.c., versione ante 25 giugno:
il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.
Capito? Ogni demansionamento è nullo (salvi i casi di rischio di licenziamento o di compromissione della salute del lavoratore). Nullo. Punto. Lo dice(va) il nostro codice civile, come modificato dallo Statuto dei Lavoratori 45 anni fa, nel lontano 1970 (ma allora non ce lo chiedeva l'Europa, per evidenti motivi). Certo, dottrina e giurisprudenza si erano esercitate, come spesso accade, per non rispettare la norma (ritenendola, in sostanza, "troppo chiara"), che però c'era, e ognuno - lavoratore e datore di lavoro - ci doveva fare i conti.

Dopo il 25 giugno, tutto cambia. D'altronde, l'#italiariparte. Il primo paragrafo della disposizione si modifica solo in dettaglio (su cui glissiamo) , ma ecco che subito dopo si aggiunge quanto segue:
In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale (c. 2). Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi (c. 4). ... Il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (c. 5). Nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita... (c. 6). Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi (c. 7). Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo (c. 8).
In breve: il demansionamento è consentito non soltanto nelle ipotesi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale (come in passato), ma in tutti i casi di "modifica degli assetti organizzativi". Cioè: sempre. E senza alcun diritto di diniego da parte del lavoratore (il quale, se non è d'accordo, può sempre decidere di incrementare un'antipatica statistica mensile dell'ISTAT). Se poi ci fosse qualche ipotesi residuale che dentro la nozione di legge proprio non ci rientra, soccorreranno i contratti collettivi: il gioco è fatto. Non a caso, ci informa il giornalino confindustriale, "la trattativa di Federalimentare... rischia di arenarsi per il freno da parte del sindacato ad applicare nel contratto le regole del demansionamento approvate nel Jobs Act".

Sì, ma in fondo, e che sarà mai?, direte voi. Il datore di lavoro non può comunque scendere al di sotto della "categoria" attuale del lavoratore (in effetti, qualcuno si è lamentato che il demansionamento può riguardare soltanto un livello... c'è sempre tempo per una novella) ed anche la busta paga non può essere toccata. Effettivamente è un bel problema... che si sono posti anche a Palazzo Chigi. E allora... ecco la genialata! Certo, in Italia è tutta una ripresa e un rifiorire d'industria, ma talvolta può succedere che ci siano - qua e là - alcuni casi eccezionalissimi di crisi aziendali o occupazionali: bene, in questo caso può essere stipulato in sede sindacale, presso la Direzione Territoriale del Lavoro, un accordo individuale di modifica modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Ma non così, a caso, ci mancherebbe! Sempre e solo "nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione" (di nuovo: hai due possibilità; una è la statistica di cui sopra), oppure - e qui siamo al puro dadaismo - per "l'acquisizione di una diversa professionalità" o, addirittura, "per il  miglioramento delle condizioni di vita".

Avete capito bene. Il legislatore si è infatti reso conto che una gran quantità di lavoratori, stanchi di riuscire a pagare il mutuo tutti i mesi, hanno deciso di smettere di lavorare ed esser pagati per quello che sanno fare, per lanciarsi nell'apprendimento di un nuovo mestiere, meno retribuito, s'intende, ma che lasci più tempo per il gioco del golf (in campi prestigiosi da pagare, con ogni evidenza, mediante specifico prestito personale contratto con qualche finanziaria). Non solo: siccome magari al dipendente conviene andare a svolgere le nuove mansioni altrove (ovviamente: più vicino al campo da golf preferito), in tutti i casi in cui è previsto il demansionamento, è possibile anche il trasferimento da un'unità produttiva a un'altra. Anche in questo caso, senza interpellare il lavoratore.

Ora, però, c'è un però. E cioè che la norma è incostituzionale per eccesso di delega. Il Jobs Act, infatti, prevedeva il demansionamento soltanto in caso di processi di riorganizzazione, ovvero anche in altri casi, purché previo accordo sindacale, anche di secondo livello. Nella L. 183 del 2014, insomma, di accordo individuali non si parla (non lo dico io, lo dice Michele De Luca, presidente titolare della sezione lavoro della Corte di Cassazione).

Apro parentesi.

Lo schema di decreto parlava di "contratti collettivi, anche aziendali", mentre il testo finale parla solo di "contratti collettivi": si tratta di una limitazione ai soli CCNL, o di una espunzione della precisazione perché ritenuta superflua? Purtroppo purtroppissimo, la seconda che hai detto. Stabilisce infatti l'art. 51 del D. Lgs. n. 81 del 2015 (lo stesso che ha sostituto l'art. 2103, c.c.), che, "salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali... e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle... rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria". La differenza fra CCNL e contratti di secondo livello è evidente (tutti sappiamo quanto Confindustria - e chissà perché anche parte del sindacato - amino la contrattazione decentrata...), soprattutto se si considera il tenore delle ultime norme lasciateci in eredità dal Governo Berlusconi (ne riparleremo anche in un prossimo post, per vedere che, in fondo, le norme - alla fin fine - non le scrivono né il Berlusca né Matteo...):
i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale... possono realizzare specifiche intese... finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:  ...; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; .... Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese... operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le [succitate] materie... ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.
Non mi avventuro a esporre il mio pensiero su quel riferimento ai "vincoli derivanti dalle normative comunitarie". Sottolineo invece la possibilità, per i contratti aziendali, di derogare in peggio alla legge e ai CCNL su varie materie, tra cui proprie quelle inerenti le mansioni. I risultati che queste norme, lette insieme, possono produrre è facilmente intuibile (e, infatti, vi è chi ha considerato anche queste incostituzionali in quanto contrarie all'art. 35 della Carta).

Chiudo parentesi.

Come al solito ho scritto troppo. Dunque concludo con chi, in poche righe, ha saputo dire quello che io ho scritto in cinque pagine. Qualche parola più in là c'è un link attivo al libro. Compratelo. Soldi ben spesi.



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