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giovedì 29 ottobre 2015

Marino?




P.S.: Per sapere come stanno davvero le cose, potete anche guardare qui e qui.

mercoledì 28 ottobre 2015

Salario minimo, risultato massimo (ovvero: Renzi, la BCE e i sindacati)

Faccio una premessa. Molto spesso i sindacati, in Italia, sono indifendibili. D'altronde, il loro massimo campione propone queste nefandezze:
Tuttavia, i sindacati servono, perché se non ci fossero i sindacati i datori di lavoro non avrebbero alcuna controparte con trattare, e se non hanno una controparte con cui trattare non hanno neppure modo di comporre gli ovvi conflitti di interessi che dividono produttori e lavoratori (con l'ulteriore e altrettanto ovvia conseguenza che, all'inizio, ci guadagnano, poi, più in là, ci perdono... tutti. È lo stesso discorso che vale per la politica e per i politici in rapporto al conflitto distributivo, come ci ha spiegato tanto bene Alberto Bagnai in questi giorni).
Dunque, siccome i sindacati servono (o almeno, dovrebbero servire), e anche visto che la Costituzione, insomma, ne parla (non che conti un piffero), mi parrebbe commendevole dolersi di qualsiasi attentato si porti, più o meno direttamente, allo loro esistenza.
Dixi. Fine della premessa.
Venendo a noi, volevo oggi attirare la vostra attenzione sull'art. 1, c. 7, lett. g) del Jobs Act (L. 183 del 2014), che contiene anche una clausoletta (mai trasposta in alcun decreto delegato) in merito alla possibile introduzione del "compenso orario minimo".
Era l'ora! Manca solo in Italia! Ce l'hanno anche in Germania! (Purché non arrivino altri profughi, ovviamente), direte voi. Io aspetterei a cantare vittoria, perché il tutto puzza di bruciato. Talmente tanto, che se ne è accorto anche uno degli house organ del renzismo dilagante.
Sì, va beh, ma comunque che c'entrano i sindacati?, aggiungerete. C'entrano, c'entrano.
Il piano è abbastanza semplice: l'introduzione del salario minimo serve per depotenziare al massimo i contratti collettivi nazionali (good ol' CCNL) e, specularmente, favorire al massimo quelli aziendali, dove le rappresentanze sindacali hanno sicuramente minore forza negoziale (ne abbiamo già parlato, vi ricordate?); a sostegno del progetto, stanno la messa in fuorigioco dei sindacati minoritari e i tentativi di limitazione del diritto di sciopero, soprattutto nel settore pubblico.

(Apro parentesi. Per quelli che non esiste il frame e non esistono gli spin doctors.

Evito di fare battute sulla recente conoscenza dell'ex sottosegretario in merito ai reati in senso stretto. Chiudo parentesi).

Siccome però bisogna dare a Cesare solo quello che è di Cesare, e a Matteo quello che è di Matteo, in questo caso l'idea non l'ha partorita direttamente il nostro vulcanico primo ministro. Nel bel mezzo della crisi dello spread, era il 5 agosto 2011, Mario Draghi e Jean Claude Trichet si rivolgevano infatti al Silvione nazionale con una simpatica letterina. Ecco alcuni estratti scelti:
Caro Primo Ministro, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce) il 4 agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.  Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali... Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure...: b) ... riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione... Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge... Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio. Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate. Con la migliore considerazione, M.D. e J.-C.T.
(Riapro parentesi. Il lettore poco avveduto a livello di dinamiche macroeconomiche potrebbe chiedersi quale sia il nesso fra la contrattazione collettiva decentralizzata e riduzione del debito pubblico. La spiegazione esula dagli interessi di questo blog e comunque chi scrive non ha le competenze per parlarne... vedi alla voce permeismo. Potete però leggere quello che ne ha detto un fuoriclasse qui. N.B.: i link sono attivi perché siano attivati, dunque cliccateci sopra perché vale la pena. Chiusa di nuovo parentesi).

Dunque, si diceva che - dopo la tiepida risposta del Berlusca (che, infatti, da lì a poco sarebbe stato giubilato a favore dell'Uomo-loden, nuova icona pop della sinistra, come si nota qui a sinistra) - Renzi pare abbia preso di petto, come spesso fa, la situazione (d'altronde, se è amico di Marchionne un motivo ci sarà). Dopo il ballon d'essai del Jobs Act, da cui siamo partiti, ecco dunque che si torna a parlare anche di un vecchio testo di legge del M5s, sperso fra i faldoni parlamentari, che prevedeva - "fatte salve le disposizioni di maggior favore previste dalla contrattazione collettiva nazionale" - un salario minimo di 9 euro all'ora (in Europa, eccettuata la Spagna, si va più o meno dagli 8,5 euro ai 9,5 euro; in Italia i CCNL fissano le più diverse retribuzioni minime, ad esempio si va dai 6,6 euro nell'abbigliamento agli 11 euro nel credito). Siccome sono maligno, ho il sospetto (non proprio un sospetto) che quei 9 euro verranno prontamente abbassati e che l'inciso a tutela della contrattazione collettiva sarà eliminato, o ridotto nella sua portata (ad esempio, togliendo l'aggettivo "nazionali": vi ricordate l'art. 51 del D. Lgs. n. 81 del 2015?). I Pentastellati potranno comunque legittimamente festeggiare (insieme al sito più amato dai Bocconiani), i lavoratori compiranno l'ennesimo passettino verso la deflazione ("è un piccolo passo per un solo uomo...", ecc. ecc.).
Siccome però un indizio è un indizio, ma due o tre insieme fanno una prova, ecco il tentativo di Renzi (in questo, ben supportato dagli stessi Confederali) di ridurre al minimo l'impatto dei sindacati minoritari nelle contrattazioni, fino magari al vagheggiato "sindacato unico" (d'altronde, non che il nostro Premier non sia chiaro...), e di introdurre, per gli scioperi nel campo dei servizi pubblici, addirittura l'obbligo di previo referendum.
Si torna, insomma, al Colosseo. E il cerchio si chiude. Mi piacerebbe dunque concludere, a questo proposito, con le parole di Marta e Simone Fana su Sbilanciamoci:
il Jobs Act non è l’unico attacco sferzato dal governo alla dignità del lavoro, ma un tassello di un disegno generale volto alla legalizzazione dello sfruttamento, da consumare dentro il perimetro del pubblico, in modo da arginare ogni barriera all'azione prevaricatrice nel settore privato. In questo modo, si palesa nettamente uno dei capisaldi del programma renziano, che fin dai suoi albori si scagliava contro l’impiego nel settore pubblico, reo di troppa protezione rispetto a quello privato. Una visione che trova conferma nel protocollo di intesa, attivo dallo scorso febbraio, tra Ministero del Lavoro, Anci e Terzo settore, il quale prevede che i beneficiari di sussidi di sostegno al reddito... possano prestare volontariamente servizio presso le amministrazioni comunali o enti locali, “nell'ambito di progetti di utilità sociale realizzati dalle organizzazioni del terzo settore e da comuni e enti locali”... [senza corresponsione, ovviamente,] di alcuna retribuzione..., [né di] contributi previdenziali.

mercoledì 21 ottobre 2015

Demansionamento reloaded

Un caro amico, leggendo il post precedente, mi ha fatto notare che io sono sempre il solito pessimista, che insomma la modifica delle regole sul demansionamento non è poi così male, che fior di professori di diritto del lavoro hanno notato che si tratta di tanto rumore per nulla.
Sì, perché ora la nuova parola d'ordine è questa: "e che sarà mai?". Prima era: "ma la Spagna!...". Poi la Spagna ha perso, diciamo, un po' di appeal.
Ora, dicevo, è tutto uno sbracciarsi a dire che sì, insomma, qualcosa con il Jobs Act è cambiato, ma non poi tanto signora mia, perché già prima diciamocelo... ecc. ecc..
In questo quadro si situa anche l'articolo (tra l'altro pregevolissimo, vera miniera di riferimenti giurisprudenziali) del prof. Miscione, secondo cui, in buona sostanza, il nuovo art. 2103 c.c. finirebbe per "limitare" e non "ampliare" le ipotesi di legittimo demansionamento.

Apro parentesi per i pochi interessati, gli altri vadano direttamente al paragrafo di sotto.
La giurisprudenza. nel tempo, aveva ridotto l'ambito di efficacia della disposizione inerente la "promozione automatica" del dipendente addetto a mansioni superiori, o facendo ricorso al concetto di "mansioni promiscue" (Cass., 3 novembre 2003, n. 16461) o a quello di "carattere vicario delle mansioni" (Cass., 13 maggio 2004, n. 9141). Si era poi stabilito che - ferma restando la garanzia prevista dall'art. 2103, c.c., che vieta(va) l'indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell'accorpamento convenzionale delle stesse in "aree" - era comunque possibile porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per rendere possibile la valorizzazione della professionalità dei lavoratori (cfr. Cass., SS.UU., 24 novembre 2006, n. 25033). Ancora, era stata sottolineata la "regola del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti l'esternalizzazione dei servizi o la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone(va) in contrasto con il dettato codicistico, se essa rappresenti l'unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo" (Cass., 5 aprile 2007, n. 8596). Infine, si era resa legittima la pratica di adibire a mansioni inferiori il dipendente nel corso di scioperi (Cass., 4 luglio 2002, n. 9709) oppure per esigenze particolarmente gravi e improrogabili (Cass., 12 luglio 2002, n. 10187). Molte ipotesi, dunque, ma spesso di natura residuale oppure scaturenti da singoli comportamenti volti obiettivamente a sfruttare la norma in contrasto con la buona fede che dovrebbe sottostare a ogni rapporto contrattuale (anche di lavoro subordinato).

Ora, è noto a tutti, ivi compreso al prof. Miscione, che al parco giochi tutte le mamme ed i babbi - onde ridurre l'esuberanza dei rispettivi pargoli - non si rivolgano ai medesimi urlando: "guai a te se corri!", bensì: "tesoro, corri pure, ma evita di sudare oltremodo, oppure se sudi, ricordati di togliere la felpa e poi rimetterla, per non prendere il raffreddore!". Lo stesso vale per il legislatore. Siccome il divieto non era rispettato, sarà sicuramente più rispettata la mezza concessione. Quelli acculturati sicuramente controbatteranno parlando dell'inutilità delle Gride manzoniane. Ma siccome nel nostro caso non c'entrano nulla, evito di rispondere.
Al di là delle battute, ripeto che, a mio avviso, si tratta di una delle norme più subdole del Jobs Act. Si prenda il comma 2, che di fatto rende legittimo il "mini-demansionamento" (un livello, uno solo: ricorda un po' la buona vecchia "modica quantità"). (Apro parentesi: la disposizione si applica se - vi è una "modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore": lo ribadisco perché, a quel che mi pare di sentire in giro, non a tutti i datori di lavoro è chiaro. Chiude immediatamente la parentesi).
Oppure si prenda il comma 6, quello, mitologico, che permette di essere demansionati per "migliorare le proprie condizioni di vita" (immagino che la norma sia stata scritta dallo stesso che sta tagliando la sanità per migliorare la salute degli Italiani), con ciò rendendo valido - checché ne dica il comma 9 - ogni "patto contrario" individuale, purché stipulato in sede protetta (sull'effettività della protezione, non mi dilungo onde evitare querele: non sono abbastanza ricco). Si tratta, a mio modestissimo avviso, di una norma aberrante, sia per i principi che sottende, sia - soprattutto - perché (checché ne dicano i cattedratici) dà ai datori di lavoro con minori "anticorpi etici" il falso messaggio che, anche in tema di demansionamento, ormai "tutto si può".
E però... c'è un però. E il però è che, sempre secondo me, ma - incidentalmente - anche secondo qualcuno che conta molto più di me, il sullodato comma 6 è simpaticamente incostituzionale per clamoroso eccesso di delega. L'art. 1, c. 7, lett. e), L. n. 183 del 2014 (che, ricordo, sarebbe il vero e proprio "Jobs Act") parlava infatti di "revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale", nonché di "previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, potesse individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle" testé citate. Nulla diceva, invece, riguardo a questi fantomatici accordi individuali, ancorché "sindacalmente assistiti".
De hoc, satis.


P.S.: Per chi fosse interessato: Miscione, in Lavoro nella giurisprudenza, 2015, 5, 437; De Luca, in Lavoro nella giurisprudenza, 2015, 4, 349.

lunedì 12 ottobre 2015

Franza o Spagna... (demansionamento, deflazione salariale, politiche del lavoro)

Tra i fatti salienti di questi giorni, una certa eco ha suscitato il vivace scambio di idee fra il top management di Air France ed i dipendenti, i quali continuano a non comprendere come un problema nasconda sempre un'opportunità (tra l'altro, mal gliene ha incolto).


In Italia, invece, le cose vanno molto meglio.

Diciamo che non sono cose nuove, né che ci colgono impreparati. Dei problemini francesi, già si occupava Alberto Bagnai la scorsa primavera, mentre Andrea Lignini ha ben spiegato come sia possibile che, in certi casi, "riforma" e "cetriolo" siano sinonimi.

Però la simpatica uscita di Squinzi è comunque interessante. Cosa ci dice il nostro baldo imprenditore internazionale? "Le posizioni del sindacato prima di tutto sono irrealistiche sul piano monetario e poi anche per il futuro del nostro Paese" (la maiuscola a Paese la metto io per carità di Patria, perché il giornaletto rosa che ha pubblicato l'articolo se ne è ovviamente dimenticato). "Se non sono capaci di trovare un accordo per creare un modello di contratto più avanzato e in linea coi tempi che ci impone l'economica globale c'è da essere veramente preoccupati". I problemi sono due: lo scarto degli aumenti salariali proposti rispetto all'inflazione reale (con lo spettro, per di più, dell'introduzione per legge di un salario minimo che porti a una riduzione generalizzata degli stipendi); l'applicazione delle nuove regole sul demansionamento.

Al solito, l'Euro non ci protegge, la libertà di circolazione dei capitali funziona un po' meglio di quella dei lavoratori, competiamo per via di deflazione salariale. Il tutto è talmente lampante, che l'ha capito qualcuno anche nel PD.



Qui quello che interessa è piuttosto il rapporto fra la chiusura di Squinzi e il Jobs Act. La parolina magica, in questo caso, è demansionamento.

Partiamo come al solito dal passato. Secondo l'art. 2103, c.c., versione ante 25 giugno:
il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.
Capito? Ogni demansionamento è nullo (salvi i casi di rischio di licenziamento o di compromissione della salute del lavoratore). Nullo. Punto. Lo dice(va) il nostro codice civile, come modificato dallo Statuto dei Lavoratori 45 anni fa, nel lontano 1970 (ma allora non ce lo chiedeva l'Europa, per evidenti motivi). Certo, dottrina e giurisprudenza si erano esercitate, come spesso accade, per non rispettare la norma (ritenendola, in sostanza, "troppo chiara"), che però c'era, e ognuno - lavoratore e datore di lavoro - ci doveva fare i conti.

Dopo il 25 giugno, tutto cambia. D'altronde, l'#italiariparte. Il primo paragrafo della disposizione si modifica solo in dettaglio (su cui glissiamo) , ma ecco che subito dopo si aggiunge quanto segue:
In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale (c. 2). Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi (c. 4). ... Il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (c. 5). Nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita... (c. 6). Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi (c. 7). Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo (c. 8).
In breve: il demansionamento è consentito non soltanto nelle ipotesi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale (come in passato), ma in tutti i casi di "modifica degli assetti organizzativi". Cioè: sempre. E senza alcun diritto di diniego da parte del lavoratore (il quale, se non è d'accordo, può sempre decidere di incrementare un'antipatica statistica mensile dell'ISTAT). Se poi ci fosse qualche ipotesi residuale che dentro la nozione di legge proprio non ci rientra, soccorreranno i contratti collettivi: il gioco è fatto. Non a caso, ci informa il giornalino confindustriale, "la trattativa di Federalimentare... rischia di arenarsi per il freno da parte del sindacato ad applicare nel contratto le regole del demansionamento approvate nel Jobs Act".

Sì, ma in fondo, e che sarà mai?, direte voi. Il datore di lavoro non può comunque scendere al di sotto della "categoria" attuale del lavoratore (in effetti, qualcuno si è lamentato che il demansionamento può riguardare soltanto un livello... c'è sempre tempo per una novella) ed anche la busta paga non può essere toccata. Effettivamente è un bel problema... che si sono posti anche a Palazzo Chigi. E allora... ecco la genialata! Certo, in Italia è tutta una ripresa e un rifiorire d'industria, ma talvolta può succedere che ci siano - qua e là - alcuni casi eccezionalissimi di crisi aziendali o occupazionali: bene, in questo caso può essere stipulato in sede sindacale, presso la Direzione Territoriale del Lavoro, un accordo individuale di modifica modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Ma non così, a caso, ci mancherebbe! Sempre e solo "nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione" (di nuovo: hai due possibilità; una è la statistica di cui sopra), oppure - e qui siamo al puro dadaismo - per "l'acquisizione di una diversa professionalità" o, addirittura, "per il  miglioramento delle condizioni di vita".

Avete capito bene. Il legislatore si è infatti reso conto che una gran quantità di lavoratori, stanchi di riuscire a pagare il mutuo tutti i mesi, hanno deciso di smettere di lavorare ed esser pagati per quello che sanno fare, per lanciarsi nell'apprendimento di un nuovo mestiere, meno retribuito, s'intende, ma che lasci più tempo per il gioco del golf (in campi prestigiosi da pagare, con ogni evidenza, mediante specifico prestito personale contratto con qualche finanziaria). Non solo: siccome magari al dipendente conviene andare a svolgere le nuove mansioni altrove (ovviamente: più vicino al campo da golf preferito), in tutti i casi in cui è previsto il demansionamento, è possibile anche il trasferimento da un'unità produttiva a un'altra. Anche in questo caso, senza interpellare il lavoratore.

Ora, però, c'è un però. E cioè che la norma è incostituzionale per eccesso di delega. Il Jobs Act, infatti, prevedeva il demansionamento soltanto in caso di processi di riorganizzazione, ovvero anche in altri casi, purché previo accordo sindacale, anche di secondo livello. Nella L. 183 del 2014, insomma, di accordo individuali non si parla (non lo dico io, lo dice Michele De Luca, presidente titolare della sezione lavoro della Corte di Cassazione).

Apro parentesi.

Lo schema di decreto parlava di "contratti collettivi, anche aziendali", mentre il testo finale parla solo di "contratti collettivi": si tratta di una limitazione ai soli CCNL, o di una espunzione della precisazione perché ritenuta superflua? Purtroppo purtroppissimo, la seconda che hai detto. Stabilisce infatti l'art. 51 del D. Lgs. n. 81 del 2015 (lo stesso che ha sostituto l'art. 2103, c.c.), che, "salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali... e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle... rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria". La differenza fra CCNL e contratti di secondo livello è evidente (tutti sappiamo quanto Confindustria - e chissà perché anche parte del sindacato - amino la contrattazione decentrata...), soprattutto se si considera il tenore delle ultime norme lasciateci in eredità dal Governo Berlusconi (ne riparleremo anche in un prossimo post, per vedere che, in fondo, le norme - alla fin fine - non le scrivono né il Berlusca né Matteo...):
i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale... possono realizzare specifiche intese... finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:  ...; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; .... Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese... operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le [succitate] materie... ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.
Non mi avventuro a esporre il mio pensiero su quel riferimento ai "vincoli derivanti dalle normative comunitarie". Sottolineo invece la possibilità, per i contratti aziendali, di derogare in peggio alla legge e ai CCNL su varie materie, tra cui proprie quelle inerenti le mansioni. I risultati che queste norme, lette insieme, possono produrre è facilmente intuibile (e, infatti, vi è chi ha considerato anche queste incostituzionali in quanto contrarie all'art. 35 della Carta).

Chiudo parentesi.

Come al solito ho scritto troppo. Dunque concludo con chi, in poche righe, ha saputo dire quello che io ho scritto in cinque pagine. Qualche parola più in là c'è un link attivo al libro. Compratelo. Soldi ben spesi.



domenica 4 ottobre 2015

Privacy e controlli a distanza: uno scudo?

Prima di cominciare, devo fare pubblica ammenda. Io la legge sulla privacy l'ho sempre odiata, considerandola inutile, quando non dannosa, e comunque foriera di innumerevoli complicazioni lavorative di cui, sinceramente, non ho mai sentito il bisogno. Se poi ripenso a quando Garante era Rodotà-tà-tà... Ora, invece, mi tocca quasi parlarne bene.
Mi pare un raro caso, a pro nostro, di Heterogonie der Zwecke, per dirla con i nostrani fan di quel Paese le cui auto, da qualche giorno, sono un po' meno del popolo.
Bene. Coscienza lavata. D'altra parte
vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
dice il Sommo Poeta. Io ne ho fatti un paio. Venendo a noi.
Nel post precedente ho cercato di dimostrare che il clamore suscitato dalla riscrittura dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori non rappresenta, propriamente, un caso di much ado about nothing, nonostante i pareri, giornalistici e politici, di senso contrario. Per cui, non rientro in argomento, se non per ricordare la differenza fra i controlli a distanza "diretti", che restano vietati, ed i controlli "indiretti", i quali in sostanza divengono immediatamente leciti, laddove siano rispettate le disposizioni del Garante sulla privacy, e segnatamente (per quanto riguarda l'utilizzo di internet e delle e-mail aziendali) il Provvedimento del 1° marzo 2007.
In breve, i sistemi informativi aziendali si devono conformare: (a)  al principio di necessità, secondo cui i programmi informatici devono essere configurati riducendo al minimo l'utilizzazione di dati personali e di dati identificativi; (b) al principio di correttezza, secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note, in modo puntuale, ai lavoratori; (c)  ai criteri di determinatezza e legittimità dei trattamenti.
Questi principi, devono essere trasfusi in un "disciplinare interno redatto in modo chiaro e senza formule generiche". Ripeto: devono essere trasfusi in un "disciplinare interno redatto in modo chiaro e senza formule generiche". Dove questo disciplinare manca, il nuovo art. 4 dello Statuto non si applica. Ricordatevelo.
Il Garante, inoltre, prende in specifica considerazione i "controlli indiretti", evidenziando come il datore di lavoro sia in primo luogo chiamato a promuovere ogni opportuna misura, organizzativa e tecnologica, volta a prevenire il rischio di utilizzi impropri, in modo da minimizzare controlli (che implicano il trattamento di dati personali dei lavoratori) e relative misure "repressive". Ad esempio: rispetto all'utilizzo di internet, è preferibile rendere impossibile, a monte, l'accesso a un certo numero di siti , piuttosto che controllare la cache dei computer per vedere se quei medesimi siti siano stati effettivamente visitati; rispetto alla posta elettronica, è auspicabile che il datore di lavoro renda disponibili indirizzi di posta elettronica condivisi tra più lavoratori, valuti la possibilità di attribuire al lavoratore un diverso indirizzo destinato ad uso privato, metta a disposizione di ciascun lavoratore apposite funzionalità di sistema per inviare automaticamente, in caso di assenze, messaggi di risposta automatici.
Qualche protezione, resta. Ed i conti, d'altronde, si fanno soltanto in fondo.



Però... non è tutto oro quel che luccica. Dice espressamente il Garante che "i datori di lavoro privati..., se ricorrono i presupposti sopra indicati (v., in particolare, art. 4, secondo comma, dello Statuto), possono effettuare lecitamente il trattamento dei dati personali diversi da quelli sensibili. Ciò, può avvenire: ... c) anche in assenza del consenso, ma per effetto del presente provvedimento che individua un legittimo interesse al trattamento in applicazione della disciplina sul c.d. bilanciamento di interessi (art. 24, comma 1, lett. g), del Codice ). Per tale bilanciamento si è tenuto conto delle garanzie che lo Statuto prevede per il controllo indiretto a distanza presupponendo non il consenso degli interessati, ma un accordo con le rappresentanze sindacali".
Non solo, ancora il Garante, già nel 2006, precisava: "il trattamento di dati personali riferibili a singoli lavoratori, anche sensibili, è lecito, se finalizzato ad assolvere obblighi derivanti dal contratto individuale (ad esempio, per verificare l'esatto adempimento della prestazione o commisurare l'importo della retribuzione, anche per lavoro straordinario, o dei premi da corrispondere, per quantificare le ferie e i permessi, per appurare la sussistenza di una causa legittima di assenza)".
In altri termini, le condotte datoriali anche volte al controllo indiretto dei lavoratori, laddove conosciute dai lavoratori stessi, con la novella dell'art. 4 divengono in sostanza tutte lecite, perché private del filtro "preventivo" del sindacato. In questo senso - ma sospetto per interessi opposti, visto i personaggi avicoli che frequenta - concordo con Luca Bolognini:

o, più scherzosamente, con le "nuove politiche" di questo supposto Marchionne:

Al di là degli scherzi, ribadisco: da ora in poi i lavoratori sono chiamati assolutamente a leggere, con grandissima attenzione, i documenti relativi alle policy aziendali in materia di privacy, perché proprio lì troveranno, con un po' di attenzione, le politiche dell'azienda in materia di utilizzo dei loro principali strumenti di lavoro (sopratutto per quanto riguarda l'accesso a Internet e l'utilizzo della posta elettronica).
Se anche un solo di coloro che leggono questo blog lo farà, non avrà sprecato tempo.